di Manuel Barbera (b.manuel@inrete.it).
Come abbiamo visto nel capitolo
precedente, la storia dell'indoeuropeistica e del metodo storico, almeno per tutto
l'Ottocento, sostanzialmente coincidono. Così, la famiglia indoeuropea è stata senz'altro
quella più a lungo ed approfonditamente studiata. Se del padre fondatore, Franz Bopp,
abbiamo già accennato, e così anche al ruolo seminale di Friedrich Schlegel, resta
da aggiungere: (a) che la paternità assoluta del riconoscimento dell'esistenza di una
famiglia indoeuropea è di solito data a Sir William Jones (1746-1794), che nel 1785
colse le affinità tra greco, latino e sanscrito; (b) che anche il grande linguista danese
Rasmus Kristian Rask (1787-1832) presentò nel 1814 (due anni prima del Conjugationssystem
di Bopp, anche se purtroppo andò a stampa solo nel 1818, due anni dopo ...) alla
Società danese di scienze le Undersøgelse om det gamle Nordiske eller Islandiske
Sprogs Oprindelse 'Ricerche sulla origine della lingua antico nordica od islandese',
in cui la parentela indoeuropea è chiaramente dimostrata. Ed a partire da questa data
praticamente tutti i grandi linguisti che abbiamo finora menzionato (così come i molti
che non abbiamo citato) sono stati di formazione indoeuropeistica, campo nel quale
hanno prodotto capolavori della linguistica, come Saussure, Hjelmslev, e Martinet,
o comunque si sono occupati anche di indoeuropeistica, come Trubeckoj e Jakobson.
Quali le cause di questo privilegio dell'indoeuropeistica?
A parte la considerazione, banale ma non per questo meno vera, che la linguistica
storica nasce in Europa, e che quindi uno spontaneo eurocentrismo era inevitabile,
ve ne sono anche molte altre.
Una è di natura piuttosto culturale. Abbiamo sottolineato la cultura "romantica" in
cui il metodo comparativo si sviluppa: per questa le Origini germaniche, e tutto
quello che sa di "origine" (ur- in tedesco) dei popoli (tedesco Volk)
è fondamentale, primo tra tutti un'indagine sull' Urvolk germanico che
lo ricolleghi con pari dignità alla cultura classica greco-latina ed all'appena
scoperto magico mondo orientale sanscrito e persiano. Non per niente
in tedesco non si dice "indoeuropeo" ma bensì Indogermanische 'indogermanico'.
Alcune altre cause sono di natura piuttosto pratica. Per la linguistica storica, infatti,
le lingue indoeuropee presentano numerosi vantaggi, legati al fatto che di molte
lingue abbiamo attestazioni antiche e prestigiose, e di altrettante conosciamo bene
la storia. Circostanze entrambe che, come abbiamo visto nel precedente capitolo,
sono spesso assai preziose per la ricostruzione. Significativo, tra l'altro, è
il fatto che le cose, da questo punto di vista, siano ancora enormemente migliorate
nel Novecento con la decifrazione dell'ittita (una lingua indoeuropea
di cui si hanno attestazioni dirette a partire dal II millennio a.C. !) e poi delle
altre lingue anatoliche minori, e, più tardi con la scoperta del tocario.
Nella tavola seguente fornisco una cronologia elementare delle attestazioni,
giusto per rendersi conto dell'entità del fenomeno.
[tav. 1]
Cronologia di attestazione delle lingue indoeuropee.
Riprodotto ed adattato da James P. Mallory, In Search of the Indo-Europeans, London,
Thames and Hudson, 1989, p. 15. È disponibile
anche una versione grande, a piena pagina, della tavola.
Nei pochi paragrafi che seguono, coerentemente con quanto avevamo detto
nell'introduzione a questo secondo modulo, non daremo una trattazione sistematica
dell'indoeuropeistica, ma accenneremo solo a pochi punti di particolare interesse.
Per l'ABC, comunque, potete riferirvi al manuale di Graffi - Scalise: in particolare
il § 10.1.3, pp. 237-240, tratta della ricostruzione del protoindoeuropeo, ed il
§ 3.2, pp. 57-59, presenta brevemente le lingue della famiglia (per le quali cfr.
anche il nostro breve paragrafino seguente).
La cartina sotto riprodotta rappresenta schematicamente la diffussione
primaria delle principali famiglie linguistiche iscrivibili nell'indoeuropeo, comprese
le estinte. Al di là del costituire la maggiore componente dell'Europa linguistica,
la sua diffusione è in realtà ancora maggiore, perché con l'espansione della
lingue inglese, spagnola e portoghese si può dire che lingue indoeuropee siano ormai
parlate in tutto il mondo (si è calcolato che il 48,10 % della popolazione mondiale
parla lingue indoeuropee, seguito dal 22,01 % di parlanti di lingue sinotibetane).
Sulla formazione linguistica dell'Europa, comunque,
mi permetto di consigliare, a chi fosse interessato, la lettura di La formazione
dell'Europa linguistica. Le lingue d'Europa tra la fine del I e del II millenio,
a cura di Emanuele Banfi, Firenze, La Nuova Italia, 1993 (che vanta, tra l'altro,
un'eccellente parte sulle lingue non indoeuropee scritta da Gianguido Manzelli).
[tav. 2]
Carta linguistica delle principali famiglie linguistiche indoeuropee.
Riprodotta da Encyclopedia of Indo-European Culture, edited by James P. Mallory and
Douglas Q. Adams, London - Chicago, Fitzroy Dearborn Publishers, 1997, p. 300.
Abbiamo più volte, nel capitolo precedente, parlato delle
insufficienze delle Stammbaum- e Wellentheorie, soprattutto se usate in modo semplicistico,
come metodi per rappresentare l'evoluzione filogenetica del linguaggio, e, naturalmente,
abbiamo già fatto riferimento all'indoeuropeo. Da questo punto di vista, in effetti,
l'indoeuropeo presenta particolari difficoltà, in quanto le relazioni reciproche tra
i diversi rami non si lasciano cogliere facilmente, essendo probabilmente oscurate
dalla prevalente permanenza di relazioni diffusionali tra le diverse famiglie attraverso
i millenni. Istruttivo può essere da questo punto di vista il paragone con l'uralico
(cfr. oltre), dove la separazione tra i vari rami è netta ed univoca, dato che la
differenziazione linguistica si è quasi sempre accompagnata ad un effettivo dislocamento
di popolazioni.
In questa particolare situazione i grafi che rappresentano isoglosse (sulla scorta della vecchia Wellentheorie) possono dare informazioni particolarmente utili, cfr. il seguente
[tav. 3]
Isoglosse nel continuum linguistico indoeuropeo secondo Raimo Anttila; la scelta
degli "ingredienti" di cui tenere conto si propone di seguire, ammodernandola, la ricetta di Schmidt:
confrontatela con lo schema proposto da quest'ultimo nel 1872.
Riprodotto da Raimo Anttila, Historical and Comparative Linguistics. Second revised edition, Amsterdam -
Philadelphia, John Benjamins, 1989, p. 305.
ma non eliminano la necessità di una rappresentazione arborescente, sia pure stratigraficamente e diffusionalmente consapevole e ragionata, come quella proposta negli anni Ottanta da due grandi studiosi, uno russo e l'altro georgiano, in quello che è stato probabilmente il volume più importante sull'indoeuropeo della seconda metà del secolo scorso:
[tav. 4]
Uno schema ad albero più completo (nel numero delle lingue) più moderno e più maturo
nella impostazione teorica (tiene conto di variazioni diasistemiche interne nei
proto-stock) rispetto a quello originale di Schleicher, cfr. la tavola del suo
Stammbaum.
Riprodotto da Tamaz Valerianovic^ Gamkrelidze - Vjac^eslav Vsevolodovic^ Ivanov, Indoevropejskij
jazyk i indoevropejcy. Rekonstrukcija i istoriko-tipologic^eskij analiz prajazyka i
protokultury, t. II, Tbilisi, Izdatel'stvo Tbilisskogo Universiteta, 1984, in base alla
rifusione inglese dell' Encyclopedia of Indo-European Culture, edited by James P. Mallory and
Douglas Q. Adams, London - Chicago, Fitzroy Dearborn Publishers, 1997, p. 551.
Un altro problema che è stato dibattuttissimo è quello che,
con termine germanico e romantico, si è detto dell' Urheimat 'proto-patria':
in quale regione è nato il proto-indoeuropeo?
Le risposte che se ne sono date sono pressoché infinite, tanto che viene persino da chiedersi
se si tratti di un problema davvero insolubile. Più probabilmente si tratta di un
problema prima di tutto metodologico: pensare ad una protolingua come ad una lingua
affatto vera, parlata da una popolazione certa e compatta, in un preciso punto del
tempo e dello spazio, abbiamo ormai capito che è un modo di ragionare forse molto
"romantico" ma terribilmente ingenuo e foriero di equivoci. Se invece pensiamo
(come già Trubeckoj, tra l'altro, provocatoriamente aveva già proposto proprio per
l'indoeuropeo) alla protolingua come ad un diasistema, allora non ci stupiremo più
di trovare "indizi" culturali non del tutto coerenti, che puntano in direzioni diverse:
questa relativa polivocità è infatti intrinseca ed ineliminabile nell'oggetto ricostruito
stesso.
[tav. 5]
Le proposte degli ultimi quarant'anni sulla localizzazione dell'Urheimat indoeuropea.
Riprodotto da James P. Mallory, In Search of the Indo-Europeans, London, Thames
and Hudson, 1989, p. 144.
Ciò non toglie che alcune coordinate in cui situare l'insorgere
del fenomeno indoeuropeo si possono senz'altro cogliere, anche se poi bisogna essere
molto cauti nel tracciarne le conseguenze. È, naturalmente, soprattutto il lessico,
con tutte le sue correlazioni culturali ed ambientali, a fornire gli indizi migliori.
Un esempio classico, che è stato molto sfruttato, è quello della presenza del faggio
e del salmone nel protolessico ricostruito: dato che la diffusione di queste due specie
nel mondo è peculiare, questa può essere messa in relazione alla localizzazione dell'indoeuropeo:
[tav. 6]
La ricostruzione del protolessico come strumento per la localizzazione protolinguistica:
la distribuzione geografica del faggio e salmone. Riprodotto ed adattato da James P. Mallory,
In Search of the Indo-Europeans, London, Thames and Hudson, 1989, p. 160.
Un altro possibile approccio al problema dell'Urheimat è quello di fare coincidere l'identikit culturale dell'indoeuropeo (che possiamo trarre dalla ricostruzione culturale del protolessico, come compiuta da Émile Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris, Éditions de Minuit, 1969) con quello di una "cultura" archeologica, collocata nel tempo e nello spazio in una zona compatibile con gli altri requisiti "ambientali" del protolessico. L'ipotesi che potremmo chiamare "classica", proposta dall'archeologa Marija Gimbutas nel 1968 e 1970, in cui molti indoeuropeisti, specie i più tradizionalisti, credono ancora, è appunto fondata in questo modo. Si tratta dell'ipotesi dei kurgan, che mette in connessione l'indoeuropeo con una "cultura" di tipo guerriero diffusa nelle steppe ponto-baltiche c. 4500-2500 a.C. e nota a partire da particolari sepolture a tumulo (dette, appunto, kurgan):
[tav. 7]
L'origine dell'indoeuropeo. L'ipotesi dei kurgan: steppe ponto-baltiche c. 4500-2500 a.C.
Riprodotto da Encyclopedia of Indo-European Culture, edited by James P. Mallory and
Douglas Q. Adams, London - Chicago, Fitzroy Dearborn Publishers, 1997, p. 299.
Questi dati archeologici, va inoltre detto, troverebbero qualche conferma anche in un altro ordine di argomenti ausiliari: quelli genetici. La mappa della terza componente genica principale dell'Europa (tra le sette individuate da Cavalli-Sforza) disegna un tracciato affatto parogonabile a quello della diffusione della cultura dei kurgan:
[tav. 8]
Mappa della terza componente principale genica dell'Europa secondo Cavalli-Sforza.
C'è una buona coincidenza tra l'area caspica in nero e la diffusione dei ritrovamenti
archeologici dei kurgan.
Riprodotto da Luigi Luca Cavalli-Sforza - Paolo Menozzi - Alberto Piazza, The
History and Geography of Human Genes, Princeton University Press, 1994; trad.
it. Storia e geografia dei geni umani, Milano, Adelphi, 1997, p. 552.
Ancora dall'archeologia sono però poi venute anche nuove proposte.
La cosiddetta "nuova archeologia" degli anni Settanta
ed Ottanta, con le rivoluzionarie datazioni al radiocarbonio (C14) e le "calibrazioni"
ottenute con la dendrocronologia (il libro più rappresentativo è Colin Renfrew, Before
Civilization. The Radiocarbon Revolution and Prehistoric Europe, Cambridge University
Press, 1979; trad. it. L'Europa della preistoria, Roma - Bari, Laterza, 1987),
hanno ormai completamente sconvolto la tradizionale visione della preistoria europea come
ci era stata consegnata dal grande V. Gordon Childe a partire dagli anni Venti (cfr.
il suo riassuntivo The Prehistory of European Society, London, Penguin, 1958;
trad. it. La preistoria della società europea, Firenze, Sansoni, 1979 [1958]).
Questo sconvolgimento ha avuto la sua eco anche nell'indoeuropeistica, dato che le
nuove datazioni al radiocarbonio dei siti connessi con l'espansione dell'agricoltura
neolitica hanno suggerito una nuova interessante proposta sull'Urheimat indoeuropea,
e sulla indoeuropeizzazione d'Europa: la cosiddetta ipotesi neolitica.
Questi sono i dati archeologici:
[tav. 9]
Diffusione dell'agricoltura in Europa in base ai più antichi siti di insediamenti agricoli
datati al radiocarbonio (non calibrato) fino al 1965. Riprodotto da Colin Renfrew,
Archeology and Language. The Puzzle of Indo-Europeans origins, London, Jonathan Cape,
1987 (trad it. Archeologia e linguaggio, Roma - Bari, Laterza, 1989, p. 169), a
sua volta basato su J. D. G. Clark, Radiocarbon Dating and the Expansion of Farming from the
Near East over Europe, in "Proceedings of the Prehistoric Society" XXI (1965) 58-73.
Questi dati, tradotti in uno schema di fasce isocrone, restituirebbero l'immagine seguente:
[tav. 10]
Mappa isocrona della diffusione dell'agricoltura in Europa, basata sui dati archeologici
della tavola precedente; le isocrone sono tracciate ad intervalli di 500 anni. Riprodotta
da Albert J. Ammerman - Luigi L. Cavalli-Sforza, The Neolithic Transition and tha Genetics
of Population in Europe, Princeton, Princeton University Press, 1984; trad it.
La transizione neolitica e la genetica di popolazioni in Europa, Torino, Boringhieri,
1986.
La mappa archeologica dell'espansione dell'agricoltura neolitica trova una corrispondenza impressionante con quella della prima componente genica principale dell'Europa, che, secondo Cavalli-Sforza «costituisce la spina dorsale della genetica europea». Tanto che non possono sussistere dubbi che le due mappe rappresentino epifenomeni diversi dello stesso evento storico:
[tav. 11]
Mappa della prima componente principale genica dell'Europa secondo Cavalli-Sforza.
Si noti la pressoché perfetta coincidenza con la diffusione dell'agricoltura neolitica
della tavola precedente.
Riprodotto da Luigi Luca Cavalli-Sforza - Paolo Menozzi - Alberto Piazza, The
History and Geography of Human Genes, Princeton University Press, 1994; trad.
it. Storia e geografia dei geni umani, Milano, Adelphi, 1997, p. 550.
L'idea che questo maggiore evento genico-culturale nella costruzione
della popolazione europea non debba essere messo in rapporto anche con l'altro suo più
grande evento, l'indoeuropeizzazione linguistica, sorge spontaneo, anche se resterebbero
da spiegare i dati contradditori della ricostruzione culturale (bellica e non agricolturale) e
dei dati archeologico-genetici relativi ai kurgan.
Nella sua forma dura e pura, con datazione intorno all'Ottavo millennio a.C. e con
ricostruzione dell'Urheimat in Anatolia, la tesi neolitica è stata sostenuta dallo stesso Colin
Renfrew nello stimolante volume Archaeology and Language: the Puzzle of Indo-European Origin,
London, Jonathan Cape, 1987 (trad. it. Archeologia e linguaggio, Roma - Bari,
Laterza, 1989), ma è stata in genere accolta con scarso favore dai linguisti. In una
forma modificata, ed appoggiata ad una ricostruzione linguistica e culturale di
smisurata portata, è stata invece sostenuta dagli studiosi Tamaz Valerianovic^ Gamkrelidze
(un georgiano) e Vjac^eslav Vsevolodovic^ Ivanov (un russo) in un'opera (cui abbiamo
già attinto, riportandone gli estremi bibliografici, la tavola
della classificazione "ad albero ammodernato" delle lingue indoeuropee) che rappresenta
probabilmente il contributo indoeuropeistico più vasto ed innovatore di tutta la
seconda metà del Novecento. In questa variante, che
prevede una cronogia intorno al Sesto millennio ed immagina l'Urheimat in una zona
di poco più orientale di quella di Renfrew, coincidente con la zona del lago Van, ossia
l'Armenia moderna e l'Urartu antica, è diventata, insieme alla teoria più tradizionalista
dei kurgan, la teoria più spesso accettata nella comunità linguistica:
[tav. 12]
L'origine dell'indoeuropeo. L'ipotesi neolitica dell'onda di avanzamento dell'agricolura:
tra Anatolia ed Armenia c. 6000 a.C.
Adattato da Encyclopedia of Indo-European Culture, edited by James P. Mallory and
Douglas Q. Adams, London - Chicago, Fitzroy Dearborn Publishers, 1997, p. 297 in base
a Tamaz Valerianovic^ Gamkrelidze - Vjac^eslav Vsevolodovic^ Ivanov, Indoevropejskij
jazyk i indoevropejcy. Rekonstrukcija i istoriko-tipologic^eskij analiz prajazyka i
protokultury, t. II, Tbilisi, Izdatel'stvo Tbilisskogo Universiteta, 1984.
Decidere tra le due alternative non è certo facile. Personalmente sono piuttosto favorevole (come, con piccole varianti, molti indoeuropeisti, tra cui linguisti come Martinet) all'idea di una indoeuropeizzazione avvenuta in ondate successive, di cui una quella kurganica, ma sempre a partire da una fase iniziale neolitica alla Ivanov e Gamkrelidze. Ma i giochi sono ancora del tutto aperti.
Nella ricostruzione del protoindoeuropeo le lingue indoarie, ed in
particolare il sanscrito, hanno rivestito un ruolo particolarmente importante: fino
alla decifrazione dell'ittita (Hrozný 1915 c.) e delle altre lingue anatoliche, il
sanscrito dei Veda (inni sacri particolarmente arcaici) era infatti la lingua indoeuropea
più antica che ci fosse nota. In questo paragrafo ci limiteremo a poche osservazioni
sul sistema fonologico consonantico (per una migliore
comprensione, consiglio di inserire queste osservazioni nel
secondo percorso
di studio sulla fonologia suggerito nel paragrafo su Trubeckoj).
Il sistema consonantico sanscrito era estremamente caratteristico, strutturato su un uso massiccio di fasci di correlazioni su sonorità e aspirazione (per lingue che invece evitano la costruzione di fasci di correlazioni cfr. il finnico), con 4 serie per le occlusive (sorde, sonore, sorde aspirate, sonore aspirate), con la presenza di fonemi retroflessi (notati nell'indologia con un punto sottoscritto: sono articolazioni ottenute arrovesciando la punta della lingua all'indietro, come, in italia, per gli esiti di /ll/ latina in siciliano, calabrese ecc.):
[tav. 13]
Il sistema fonologico del sanscrito. Tra quadre i principali allofoni.
In ascissa i punti di articolazione (da anteriori a posteriori), in ordinata i
gradi d'apertura del canale fonatorio (da occlusivi ad approssimanti) e le loro
correlazioni. Disegnato in modo da essere confrontabile con quelli delle due
tavole seguenti, tratti da Masica 1991.
Le linee principali di questo sistema si trovano ben rispecchiate anche nelle lingue indoarie moderne. I fonemi retroflessi in genere sono proprio una caratteristica areale di tutta l'India, comune anche alle lingue non indoeuropee (dravidiche, munda) del subcontinente indiano. La tendenza a creare fasci di correlazioni plurimembri è saldamente mantenuta, ad es. in hindi e bengali
[tav. 14]
Il sistema fonologico del bengali. Tra quadre i principali allofoni.
Riprodotto da Colin P. Masica, The Indo-Aryan Languages, Cambridge - New
York - Melbourne, 1991, p. 107.
ed è anzi portata ulteriormente avanti in sindhi, che introduce anche una correlazione di implosione (creando fasci di occlusive a 5 membri) e ristruttura in modo analogo anche le nasali:
[tav. 15]
Il sistema fonologico del sindhi. Tra tonde i fonemi diffusi solo nei prestiti.
Riprodotto da Colin P. Masica, The Indo-Aryan Languages, Cambridge - New
York - Melbourne, 1991, p. 107.
Il sistema che si ricostruiva per l'indoeuropeo (ricostruzione
"tradizionale") era, per le occlusive, uguale a quello del sanscrito tranne poche
importanti eccezioni: (1) mancano le retroflesse (un'innovazione indoaria, probabilmente
innescata dalle lingue dravidiche) mentre v'è in più un ordine di labiovelari; (2)
manca la terza serie del fascio occlusivo, quella delle sorde aspirate; (3) il fonema
/b/, se ricostruibile, era rarissimo. È soprattutto il secondo punto che ha sollevato
molte perplessità soprattutto da quando gli studi tipologici della metà del Novecento hanno
messo in evidenza come fasci ternari di sorde + sonore + sonore aspirate non sembrano
presenti nelle lingue esistenti nel mondo. È questo un esempio di quando la comparazione
tipologica può essere invocata: ossia solo DOPO che è stato sfruttato fino in fondo il
metodo storico-comparativo, e non in alternativa ad esso.
Nella fattispecie, la "soluzione" al problema più plausibile finora avanzata è quella
proposta nel 1973 da (i soliti ...) Ivanov e Gamkrelidze, che ipotizzano per l'indoeuropeo
una situazione "caucasica" (sistemi che oppongono sorda : sonora : glottidalizzata
sono frequenti nelle lingue del caucaso; cfr. ad es. il sistema dell'
ubykh),
in cui la serie delle sonore è sostituita da una serie di glottidalizzate (suggerita dalla
rarità di /b/: la glotidalizzazione è articolatoriamente poco efficace nella zona
labiale, e di fatto poche lingue al mondo hanno /p'/ tra i loro fonemi), e la aspirazione
inizialmente non è distintiva:
IE tradizionale | glottidalizzato |
p [b] bh | p(h) [p'] b(h) |
t d dh | t(h) t' d(h) |
k g gh | k(h) k' g(h) |
ky gy gyh | ky(h) ky' gy(h) |
kw gw gwh | kw(h) kw' gw(h) |
[tav. 16]
Le occlusive protoindoeuropee nella ricostruzione tradizionale e nella reinterpretazione
"glottidalizzata" datane da Ivanov e Gamkrelidze.
In realtà, una teoria glottalica analoga è stata proposta quasi contemporaneamente (sempre nel 1973) anche da uno studioso americano, Paul J. Hopper, e, dopo molte resistenze iniziali, ha guadagnato notevole consenso (si parla, dopo il 1873, di "new look" dell'indoeuropeo) ed è proliferata in molteplici varianti. Un testo di riferimento abbastanza agile sull'argomento è Joseph C. Salmons, The Glottalic Theory. Survey and Synthesis, McLean (Virginia), Institute for the Study of Man, 1993 "Journal of Indo-European Studies Monograph Series" 10.