di Manuel Barbera (b.manuel@inrete.it).
Abbiamo già avuto modo di constatare come da Saussure
sia nata una feconda tradizione di linguistica "strutturale", tutt'ora vitale ed
alternativa alla linea chomskyana. In questa linea semiotico-strutturale, che è
prevalentemente continentale fatto salvo il tardivo innesto di Peirce, anche altri
pensatori hanno apportato significativi contributi, ed è ormai tempo di vederne
almeno i principali (almeno Hjelmslev, Jakobson e Trubeckoj, oltre naturalmente
a Peirce); di altri invece ci contenteremo dei cenni che ne abbiamo già fatto (Martinet).
In molti casi, infatti, da queste ricerche sono emerse teorie che hanno arricchito
significativamente la concezione del segno linguistico e del linguaggio umano, ed
alcune delle nozioni che sono state individuate vanno pertanto integrate alla "lista"
delle caratteristiche costitutive del linguaggio che abbiamo finora idealmente
compilato in base a Saussure e Chomsky.
L'interpretazione più rigorosa e formalizzata della lezione di
Saussure nel Novecento è stata probabilmente quella del danese Louis Hjelmslev (1899-1965), e
della "scuola di Copenhagen" da lui ispirata. Come Saussure, anche Hjelmslev è nato
come linguista storico idoeuropeo, ma l'aspetto della sua attività che qui ci interessa è
quello della sua teoria del linguaggio (che chiamò "glossematica") che giunse ad
una compiuta formulazione nel suo Omkring Sprogteoriens Grundlæggelse (1943,
trad. it. I fondamenti della teoria del linguaggio,
Introduzione e traduzione di Giulio C. Lepschy, Torino, Einaudi, 1968, già citata).
In particolare, è importante l'approfondimento in senso semiotico della struttura del segno linguistico. Lo schema seguente riassume la concezione di Hjelmslev del segno (Hjelmslev, in realtà, non disegna alcuno schizzo della sua teoria: il tipo di raffigurazione che ho adottato è studiato per evidenziare la omologia di struttura con Saussure):
[tav. 1]
Il segno linguistico per Hjelmslev. Basato su Louis Hjelmslev, Omkring Sprogteoriens
Grundlæggelse (1943), trad. it. I fondamenti della teoria del linguaggio,
Introduzione e traduzione di Giulio C, Lepschy, Torino, Einaudi, 1968, pp. 52-65.
A livello puramente terminologico, noteremo innanzitutto che Helmslev usa «espressione e contenuto come designazione dei funtivi che contraggono la funzione [...] segnica» (Fondamenti, cit., p. 52), ossia di "significante" e "significato". La reale innovazione, però, è quella di avere riconosciuto che piano dell'espressione e piano del contenuto sottintendono a loro volta una scansione interna in piani distinti: i termini chiave sono, questa volta, materia, forma e sostanza, tre termini di pesante tradizione filosofica, e bisognerà pertanto stare molto attenti al modo con cui Hjelmslev li concepisce.
Iniziamo a prendere in considerazione il contenuto, il signifié 'significato / concetto' di Saussure. Come già Saussure (cfr. § 1.1.3), Hjelmslev inizia considerando la fenomenologia interlinguistica che rende evidente l'arbitrarietà del significato, solo proponendone una analisi più approfondita: «Ogni lingua - ibidem, pp. 56-57 - traccia le sue particolari suddivisioni all'interno della "massa del pensiero" amorfa, e dà rilievo in essa a fattori diversi in disposizioni diverse, pone i centri di gravità in luoghi diversi e dà loro enfasi diverse. È come una stessa manciata di sabbia che può prendere forme diverse, o come la nuvola di Amleto che cambia aspetto da un momento all'altro. Come la stessa sabbia si può mettere in stampi diversi, come la stessa nuvola può assumere forme sempre nuove, così la materia può essere formata o strutturata diversamente in lingue diverse. A determinare la sua forma sono soltanto le funzioni della lingua, la funzione segnica e le altre da essa deducibili. La materia rimane, ogni volta, base per una nuova forma, e non ha altra esistenza possibile al di là del suo essere materia per questa o quella forma. Riconosciamo così - Hjelmslev conclude - nel contenuto linguistico, nel suo processo, una forma specifica, la forma del contenuto che è indipendente dalla materia ed ha con essa un rapporto arbitrario, e la forma rendendola sostanza del contenuto».
«Precisamente la stessa cosa - prosegue Hjelmslev, ibidem, p. 59 - si può osservare per l'altra entità che è un funtivo della funzione segnica, l'espressione». Anche il procedimento dimostrativo si sviluppa secondo le stesse linee. « Si possono - ibidem, pp. 59-60 - anche scoprire, confrontando lingue diverse, zone nella sfera fonetica suddivise in maniera diversa in lingue diverse. Possiamo per esempio pensare a una sfera fonetico fisiologica di movimento, che si può ovviamente rappresentare come spazializzata in varie dimensioni, e che si può pensare come un continuo inanalizzato ma analizzabile [...]. In tale zona amorfa è posto un numero diverso di figure (fonemi) in lingue diverse, poiché le suddivisioni si trovano in punti diversi del continuo», fatto a supporto del quale si possono portare molti esempi, come lo spazio articolatorio ("il continuo", per usare l'espressione di Hjelmslev) delle vocali: «il numero delle vocali - ibidem, p. 60 - varia da lingua a lingua, e le suddivisioni sono diverse. L'eschimese distingue solo tra un'area i, un'area u ed un'area a», laddove invece, ad es., l'ialiano settentrionale distingue cinque aree, delimitando anche /e/ ed /o/, e l'italiano toscano ne distingue sette, differenziando ancora e ed o stretti da quelli aperti (nel senso di grado d'apertuta dello spazio articolatorio orale), ecc. «Grazie in particolare alla straordinaria mobilità della lingua, le possibilità sono indefinitamente ampie, ma ciò che è caratteristico è che ogni idioma pone le proprie suddivisioni particolari entro questo indefinito numero di possibilità. Poiché la situazione è evidentemente analoga per l'espressione e per il contenuto, converrà poter sottolineare questo parallelismo ricorrendo per entrambi alla stessa terminologia: [...] gli esempi che abbiamo dato [...] sono dunque le zone fonetiche della materia, formate in maniera diversa in lingue diverse, a seconda delle funzioni specifiche delle singole lingue, e organizzate quindi come sostanza dell'espressione rispetto alla loro rispettiva forma dell'espressione».
Proviamo a vedere con un esempio pratico (quello, raffigurato nella nostra tavola, della parola italiana "mela") come funzionano le cose. Sul piano del contenuto, all'interno dell'area della massa amorfa del pensiero (materia) la griglia concettuale specifica della lingua italiana (forma, "langue") delimita una zona di frutti commestibili formando il concetto 'mela' (sostanza del contenuto). La funzione segnica assegna poi una espressione a questo contenuto. E anche sul piano dell'espressione le cose vanno nello stesso modo: all'interno indifferenziato di tutte le possibilità fonatorie (materia), la griglia del sistema fonologico della lingua italiana (forma, "langue") struttura quelle possibilità nella definita (fonologica, diremmo con un termine che spiegheremo in seguito) immagine acustica mela (sostanza dell'espressione). L'effettiva, eventuale, fonazione ['mela] è poi solo l'atto di "parole" corrispondente a questo processo semiotico, a proposito del quale, comunque, dobbiamo sempre ricordarci che le varie "fasi" che abbiamo descritto rappresentano momenti solo logicamente distinguibili: nella realtà nessuna componente della funzione segnica può esistere autonomamente fuori dalla funzione medesima.
Vorrei, per concludere, sottolineare come questa moltiplicazione dei piani del segno linguistico abbia avuto conseguenze fondamentali non solo nella linguistica generale (e nelle discipline che dalla linguistica strutturale hanno tratto ispirazione, come certa parte della teoria e della critica letteraria), ma anche nella semiotica, dato che quasi tutta la tradizione semiotica europea, al di là dell' "innesto" americano di Peirce (cfr. § 1.3.4), si è rifatta prevalentemente a Hjelmslev.
L'opera del grande linguista Roman Jakobson (Mosca 1896 - Boston
1982) si pone invece, almeno in una sua importante parte, all'interno della
cosiddetta "scuola di Praga" (cui appartenne anche il fondatore della fonologia,
principe Nikolaj Seergeevic Trubeckoj), la cui interpretazione dello strutturalismo
sassuriano si potrebbe dire soprattutto "funzionalista" (laddove quella di Hjelmslev
era piuttosto semiotica e matematizzante). Dal "funzionalismo" praghese discende
anche il funzionalismo francese, la cui figura fondante André Martinet abbiamo già
menzionato a proposito della teoria della "doppia articolazione del linguaggio".
Cosa, poi, dobbiamo intendere per "funzionalismo" lo vedremo subito, approfondendo
il pensiero di Jakobson.
L'attività di Jakobson, in realtà, è stata poliedrica (dal linguaggio infantile all'afasia, dalla teoria della comunicazione alla teoria della letteratura) e svolta in un numero sconcertante di lingue: noi qui ci acconteremo di trattare solo un aspetto, quello, appunto, della teoria funzionale del linguaggio.
La novità, se vogliamo, di Jakobson rispetto alla semiologia di Saussure, è quella di essersi fortemente ispirato al modello della teoria della comunicazione (cui avevamo sommariamente accennato anche noi all'inizio di questo nostro capitolo) in cui inserisce a pieno titolo anche la struttura del segno linguistico. Lo schema seguente impagina schematicamente seguendo la stessa struttura rappresentativa che abbiamo seguito per Saussure e Hjelmslev, in modo da permettere di cogliere più facilmente omologie e differenze (il modello impaginato dallo stesso Jakobson aveva in effetti una disposizione diversa, che potete trovare comunque fedelmente riprodotta nel manuale di Graffi e Scalise):
[tav. 2]
Segno e funzioni linguistiche per Jakobson. Basato su Roman Jakobson, Closing Statements:
Linguistics and Poetics, intervento ad un congresso sullo stile tenuto all'Indiana
University nel 1958, poi raccolto negli atti Style and Language, a cura di Thomas
A. Sebeok, New York - London, 1960, pp. 350-377 e quindi in Roman Jakobson, Essais
de linguistique générale, Paris, Editions de Minuit, 1963, traduzione italiana
Saggi di linguistica generale, a cura di Luigi Heilmann, Milano, Feltrinelli, 1966,
pp. 181-218.
Una notevole intuizione di Jakobson è che il linguaggio non ha
solo la funzione di descrivere oggetti, ma anche altre funzioni, che sono
legate all'attenzione posta su uno piuttosto che su un altro degli elementi in
gioco nella comunicazione, secondo una stretta corrispondenza che ho illustrato
nello schema soprastante (funzioni in blu con esempi in verde). L'idea che il
linguaggio abbia molteplici funzioni non è in sé nuova (già Humboldt, 1767-1835,
distingueva tra una funzione espressiva ed una denotativa), ma coniugarla ad una
impostazione che assume il modello della teoria della comunicazione (per il quale
la funzione referenziale è praticamente la sola che interessa) come modello
psicolinguistico era un'idea originale e feconda. Lo spunto gli è probabilmente
venuto dalla volontà di spegare la specificità del discorso poetico: il
saggio fondante della sua teoria era, infatti, proprio dedicato al problema del
linguaggio poetico (poetica e stilistica sono sempre stati due nuclei tematici
costanti e centrali nella ricchissima produzione di Jakobson).
Non mi diffonderò, comunque, ad illustrare nei dettagli le sei funzioni, accontentandomi
dell'esemplificazione impaginata nella tavola, e rimandandovi comunque alla chiara
trattazione del manuale di Graffi e Scalise.
Almeno due aspetti "informazionali" della impostazione di Jakobson devono però essere ancora sottolineati. Il primo è il concetto di codice che Jakobson impiega per caratterizzare la funzione segnica, traendolo dalla teoria dell'informazione, ed esplicitamente da Colin Cherry (1914-...), uno dei grandi patres della scienza della comunicazione, che, secondo cita Jakobson (trad. it. cit., p. 68), nel suo On Human Communication, New York - London, 1957, p. 7 definiva il codice come «trasformazione convenuta, di norma elemento per elemento e reversibile, mediante la quale un insieme di unità di informazione è trasferito in un altro insieme». Un aspetto particolare del codice come lo intende Jakobson è che è strutturato solo in base a tratti binari (non comprenderebbe ossia opposizioni distintive multilaterali), secondo un principio che sarà ripreso dal generativismo, ma che non sarà condiviso da altre correnti dello strutturalismo linguistico,
Un altro importante aspetto (che, vedremo, ci riuscirà utile per comprendere
il problema del linguaggio animale) introdotto dal modello di Jakobson è quello
dell'esplicitazione del canale in cui si manifesta la "parole". In effetti, dire
che il canale che caratterizza il liguaggio umano è quello fonico-acustico, e basta,
rappresenta in qualche modo una semplificazione: «il messaggio nella sua formulazione
deve poi subire successive trasformazioni mentre procede nel suo viaggio verso la destinazione.
Le trasmissioni sono, per così dire, tramandate da una stazione trasmettente a un'altra e,
prima di raggiungere l'area primaria di proiezione, devono essere riorganizzate -
filtrate e variamente adattate - per rispondere ai requisiti del canale scelto» (cito
da T. Sebeok, A sign is just a sign. La semiotica globale, Milano, Spirali, 1998,
p. 68: lo sviluppo di queste considerazioni, in effetti, anche se scaturito dal modello di Jakobson,
è stato soprattutto dovuto ai semiologi e specialisti comunicazione).
Nello schema seguente (che non risale tuttavia a Jakobson, ma bensì al citato semiologo
Sebeok) sono delineati i canali possibili più importanti:
[tav. 3]
I vari tipi di canale. Riprodotto da Thomas A.
Sebeok, A sign is just a sign, Bloomington, Indiana University Press, 1991;
trad it. A sign is just a sign. La semiotica globale, Introduzione e traduzione
a cura di Susan Petrilli, Milano, Spirali, 1998, p. 69.
Non è solo che possiamo immaginare (e l'osservazione sarà importante quando affronteremo il problema del linguaggio animale) "linguaggi" che facciano ricorso a canali diversi da quello normale nel linguaggio umano. A ben guardare, infatti, perfino nel caso di una normale comunicazione orale il canale "acustico" proprio (onde sonore propagate nell'aria) deve poi ricodificarsi (ricordate la definizione di "codice" di Cherry?) nell'orecchio umano (che funge da trasduttore) in altro modo per giungere ai neuroni del cervello. O pensate piuttosto a casi ancora più complessi e mediati, come ad esempio il seguente: sto ascoltando Lauritz Melchior cantare "O diese Sonne" dal "Tristan und Isolde" nel 1936 al Covent Garden. Qui il canale acustico (onda sonora) del messaggio è stato ricodificato in impulso elettrico (dal trasduttore del microfono usato in teatro nel 1936), poi in meccanico (incisione degli acetati da parte della casa discografica), poi di nuovo in elettrico, prima analogico e poi digitale, (nel riversamento moderno della registrazione originaria) e quindi in ottico (bruciatura del CD), e poi ancora da ottico ad elettrico (lettura del CD ed amplificazione), quindi di nuovo in acustico (il magnete e la membrana dei diffusori acustici fungono da trasduttore inverso rispetto a quelli del micorofono); l'onda acustica perviene alle mie orecchie e, finalmente convertita chimicamente in impulsi elettrici raggiunge le zone appropriate del mio cervello dove ne avviene la "comprensione" e, se vogliamo, anche la sua traduzione 'oh, questo sole!'.
Abbiamo già accennato al principe Nikolaj Seergeevic^ Trubeckoj
(1890-1938), tanto come membro della cosiddetta "scuola di Praga" (cui appartenne
anche Roman Jakobson), quanto come fondatore della fonologia, che, nella prima metà
del Novecento, con la glossematica di Hjelmslev è stata la più importante corrente
nata dallo strutturalismo di Saussure. Il testo chiave di questa disciplina, cui
il principe lavorò per molti anni e che uscì postumo, sono i Grundzüge der Phonologie,
in "Travaux du Circle linguistique de Prague" VII (1939), poi Göttingen, Vandenhoeck
& Ruprecht, 1958 (trad it. Fondamenti di fonologia. Edizione italiana a cura
di Giulia Mazzuoli Porru, Torino, Einaudi, 1971). Andrebbe, peraltro, anche sottolineata
l'importanza di Trubeckoj pure in sede di linguistica storica (per via della sua
concezione della protolingua come Sprachbund 'lega linguistica') su cui
torneremo nella prossima sezione.
Quello che qui ci pertiene, però, è la posizione della fonologia nell'àmbito delle
teorie sul segno linguistico. Nella parte sulle lingue, inoltre, presenterò alcuni
sistemi fonologici, in base ai quali si possono costruire alcuni percorsi di studio.
Per gli aspetti più tecnici ed istituzionali (descrizione delle categorie della fonetica
articolatoria, metodo per analizzare i sistemi fonologici, ecc.) rimando invece al
Graffi - Scalise: qui ci atterremo all'essenziale, introducendo quel minimo di concetti
e terminologia senza i quali non potremmo andare avanti.
La fonologia, propriamente, si occupa non tanto dei segni linguistici
nella loro totalità, quanto della sola faccia significante dei segni, ossia delle
unità distintive che la langue disegna nella massa delle possibili articolazioni
fonatorie. Della componente fonetica del linguaggio, dunque, la fonologia si occupa
dei soli aspetti che fanno essenzialmente parte del segno linguistico, ossia delle
fonazioni che hanno un valore distintivo, di quelle espressioni (significanti), in
altre parole, che sono interfacciate con un contenuto (significato); in altri termini
ancora, martinettiani questa volta (e pertanto successivi, si badi), si occupa delle
unità della seconda articolazione. Della parte "non distintiva" delle fonazioni, degli
oggetti sonori concreti analizzabili dalla fisica acustica, in breve della "parole",
si occupa invece la fonetica, che può anche essere di diversi tipi a seconda
dei suoi interessi specifici. La fonetica articolatoria, che analizza i suoni in
base ai meccanismi fisiologici con cui vengono prodotti (cavità orale, lingua ...),
è quella immediatamente più irrinunciabile per la linguistica, non fosse che perché
fornisce la nomenclatura con cui riferirsi ai diversi tipi di suono: anche se oggi
è soprattutto la fonetica acustica a costituire la punta di diamante della ricerca
fonetica è solo da pochissimo tempo che gli strumenti necessari (spettrografi,
oscillatori ecc.) sono comunemente disponibili a chiunque nella forma di agili programmini,
spesso open source, da scaricare ed istallare sul proprio computerino (prima erano
apparecchiature spesso costosissime e faraoniche). La terminologia correntemente
usata in linguistica (e quella cui si appoggia la fonologia di Trubeckoj) è pertanto
a base articolatoria
La distinzione tra una disciplina che «est une des parties essentielles de la science
de la langue» ed un'altra che «n'est que une discipline auxiliarie et ne relève que
de la parole» (Cours, Introduzione, cap. VII, § 1, pp. 55-56 fr. = 44-45 it.),
va comunque detto, non solo era necessariamente implicata dal sistema saussuriano,
ma era comunque già esplicitamente presente nel Cours, sia pure non ancora
nei termini trubeckojani e moderni: i termini "fonetica" e "fonologia", ad esempio,
erano usati invertiti rispetto all'uso moderno (la "fonetica" di Saussure è la
"fonologia" di Trubeckoj!).
I concetti base, e la connessa terminologia, della fonetica (articolatoria,
per le ragioni che abbiamo esposto) che dobbiamo tenere presente, non fosse che per "parlarci"
ed andare avanti, sono poca cosa.
Innanzitutto la distinzione tra vocali e consonanti, che tutti "ingenuamente"
conosciamo, si può più accuratamente intendere in termini di spazio articolatorio:
considerando la nostra cavità orale (dalla laringe alle labbra) come lo spazio in
cui il suono viene modellato (ossia in cui un organo articolatore, la lingua di solito,
produce delle alterazioni nella cavità in determinati punti, di solito sulla volta
orale superiore), modificazioni prodotte in una determinata zona (abbastanza lontana
dalla volta superiore, in modo che il flusso d'aria esca senza forti ostacoli) producono
vocali, in una altra zona (a contatto o comunque più a ridosso della volta superiore)
consonanti:
[tav. 4]
Lo "spazio articolatorio" in cui sono prodotti i suoni usati nel linguaggio umano (ossia,
per dirla con Hjelmslev, lo spazio - materia, foni - al cui interno la forma dell'espressione individua
la sua materia - langue, fonemi). Lo spazio utile è dato dalle posizioni
che la lingua (l'elemento articolatore per eccellenza) assume rispetto all'arcata
palatale (i "punti di articolazione"): due aree, in particolare, di questo "spazio" sono
da distinguere, quella in cui si producono quei suoni che abitualmente chiamiamo consonanti
(in azzurrino) e quella in cui produciamo le cosiddette vocali (in beige).
Liberamente modificato da Luciano Canepari, Introduzione alla fonetica, Torino,
Einaudi, 1979 (terza edizione) "PBE" 369, pp. 29, 27, 15 e 13.
Lo schema articolatorio sopra tratteggiato, corrisponde abbastanza
bene alla griglia terminologica normalmente impiegata per "chiamare" i vari suoni,
che la fonetica chiama foni, con un sistema di base binario (come quello della
nomenclatura linneiana Genus species, tipo Homo erectus od Amanita
muscaria) in cui i due termini fondamentali sono il modo di articolazione
(disposti in verticale, asse delle ordinate, a seconda del grado di ostruzione del
canale articolatorio, dal massimo delle occlusive al minimo delle approssimanti
all'infimo delle vocali) ed il punto di articolazione (disposti in
orrizzontale, asse delle ordinate, nella naturale successione fisiologica dalla bocca,
dalle labbra alla laringe, come nel disegno di Tav. 4): ad esempio occlusiva
dentale; a questi riferimenti, se necessario, viene aggiunta l'indicazione
della parte dell'organo articolatore interessata (quando non indicato,
si intende sempre che sia quella fisiologicamente prevedibile: se una occlusione viene
prodotta a livello dentale, la porzione della lingua prevedibilmente coinvolta sarà
l'apice e non il dorso; ma, ad esempio, potremmo avere invece dell'occlusiva
[apico]dentale un'occlusiva lamino-dentale, in cui l'occlusione viene prodotta
dalla lamina della lingua e non dall'apice, come in molte lingue australiane) o
di un eventuale coarticolazione (ad esempio il primo suono dell'italiano
quando è una occlusiva prodotta dal dorso della lingua contro il velo palatino,
ma a questa articolazione principale si aggiunge una coarticolazione secondaria delle
labbra che vengono spinte in fuori: il fono così prodotto si chiamerà, quindi,
occlusiva dorso-labiovelare o, più semplicemente, occlusiva labiovelare).
[tav. 5]
La griglia della nomenclatura dei foni modellata in base allo "spazio articolatorio", con
i modi di articolazione (serie) in ascisse ed i punti di articolazione (ordini)
in ordinate, e tra parentesi eventuali indicazione di articolatori e coarticolazioni.
I modi sono in verde (bandiera quelli consonantici e militare quelli vocalici), mentre
i punti sono in blu.
La lista dei modi è pressoché completa e sufficiente per quasi tutte le lingue del mondo,
è ordinata dalla chiusura massima dello spazio articolatorio (consonanti: 6 modi)
alla sua massima apertura (vocali: 5 modi, comunementi chiamati gradi) con
due modi transizionali (approssimanti). Le consonanti occlusive
sono prodotte con una completa chiusura del canale fonatorio seguita da un brusco rilascio
("esplosione": in inglese sono infatti dette plosive); nelle fricative
l'aria passa attraverso una fessura molto stretta con forte attrito (ed è questa "frizione"
ad essere percepita); le affricate sono una sorta di combinazione
dei tipi, in cui il rilascio della occlusione invece di essere "esplosivo" è fricativo.
Nelle nasali l'uvula si abbassa consentendo all'aria
di passare attraverso la cavità nasale e di fuoruscire dalle narici; nella laterali,
invece, la lingua si inarca al centro abbassandosi ai lati, consentendo all'aria di
passare lateralmente; le vibranti, infine, sono costituite dalla
vibrazione di un articolatore (di solito la punta della lingua contro l'arcata dentale superiore, o
l'uvula contro il dorso della lingua), che può avere più o meno "battiti"; questi
tre ultime articolazioni sono di solito dette liquide perché presentano caratteristiche
acustiche (presenza di formanti) e fonologiche (possibilità di fare da centro di sillaba)
comuni con le vocali. Caratteristica questa comune anche al tipo di approssimanti
di solito chiamato semivocali, ma non alle semiconsonanti.
Per i gradi vocalici c'è minore unanimità e si possono trovare, accanto alla presentata
(suddivisione a 5, che credo sia la più diffusa), suddivisioni a 4 ed a 6.
La lista dei punti, è, invece, potenzialmente quasi illimitata, e già le aree
anatomiche presentate nella tavola precedente erano solo quelle di riferimento /
orientamento più utili: presentarne un elenco esaustivo è pertanto impossibile, ed
ho selezionato solo alcuni degli ordini più immediatamente rappresentativi per un
parlante italiano; lo spazio articolatorio delle vocali, però, essendo più ristretto
fa sì che la suddivisione in tre ordini di anteriorità / posteriorità sia in genere
sufficiente, ed è pertanto ormai standard (così come la terminologia di anteriore,
centrale e posteriore al posto di palatale, prevelare
e velare).
Per ogni intersezione modo / punto ho posto sempre tra quadre il grafo corrispondente
dell'IPA (International Phonetic Alphabet), che pur attraverso varie fluttuazioni,
e non poche insufficienze, rappresenta lo standard più diffuso.
Di norma, ho scelto il fono con la combinazione di articolatore e coarticolazione
più "naturale" (almeno per un parlante italiano), ed in particolare per le vocali
le combinazioni senza labializzazione negli ordini anteriori e centrali, e quelle
con labializzazione per l'ordine posteriore. Per quanto riguarda alle proprietà laringali
per cui cfr. qui sotto), nelle consonanti ho preferito le sorde, tranne che per le liquide in cui
ho rappresentato la sonora, come per le vocali. Ho pure messo delle parole di esempio
quando disponibili in italiano od in un'altra lingua europea (finnico järvi 'lago';
inglese about 'circa', milk 'latte', pit 'pozzo', put 'mettere'; russo dýry
NOM PL di dyrá 'buco'; polacco my 'noi'; portoghese pagar 'pagare';
spagnolo lobo 'lupo', dinero 'soldi'; svizzero tedesco [alto alemannico]
schläcke = st. lekken 'leccare'; tedesco hoch 'alto', ich 'io',
Pfanne 'padella'; turco kedi 'gatto'; ungherese ha 'se' e kutya 'cane').
Oltre alle quattro caratteristiche base (modo e punto di articolazione)
ed accessorie (articolatore e coarticolazioni) ogni suono, fono, o segmento acustico
che produciamo è individuato anche dalle proprietà laringali, ossia dalle
posture che assume la glottide, quella sorta di valvola
situata nella laringe che apre o chiude l'ingresso dell'aria dai polmoni all'esofago
e viceversa e che è costituita da due labbra o membrane elastiche (le cosiddette
corde vocali) «unite tra loro anteriormente mentre posteriormente ognuna è
saldata a una delle cartilagini aritenoidèe» (Luciano Canepari, Introduzione alla fonetica,
Torino, Einaudi, 1979 (terza edizione) "PBE" 369, p. 17), in modo da essere mobili
in ogni componente.
[tav. 6abc]
La glottide, costituita dalle corde vocaliche
(in basso) e dalle aritenoidi (in alto), le cui attività
dànno origine alle caratteristiche del suono umano normalmente comprese nel termine di
voce. A sinistra (a) la voce mormorata
(aritenoidi aperte e corde vocaliche aperte), (b) la voce
sonora (aritenoidi chiuse e corde vocaliche aperte) e (c) la voce
cricchiata (aritenoidi ben chiuse e corde vocaliche
pochissimo aperte). Liberamente adattato da Peter Ladefoged, Vowels and
Consonants: an Introduction to the Sounds of Languages, Second edition, Malden -
Oxford - Carlton, Blackwell, 2005, pp. 124. 127 e 21.
Al di là degli ovvi usi extralinguistici (completa apertura nella respirazione, e completa chiusura
nella degluttizione, entrambe più o meno inudibili), la glottide si comporta in taluni casi
come un semplice punto di articolazione dove vengono prodotte prevalentemente occlusive
(il cosiddetto "colpo di glottide", caratteristico in Italia solo dei dialetti sardi
della Barbagia, ben udibile anche nell'iniziale vocalica "dura" del tedesco, che però
in lingue extraeuropee è spesso una delle consonanti più frequenti) o fricative
(il suono "acca" dell'inglese o del tedesco, ad esempio, come in en. hill
'collina' o de. Höhe 'altezza'). Ma, al di là di questi due usi, la sua mobilissima conformazione
influenza tutti gli altri suoni "pneumonici" (cioè che coinvolgono l'aria dei polmoni) a
seconda delle specifiche conformazioni che assume: tutti questi fenomeni sono normalmente
chiamati voce od, appunto proprietà faringali. Le "voci" più semplici e
diffuse sono quella normale o sorda
(aritenoidi e corde entrambe ben aperte e più o meno tese: assenza di frizione o vibrazione)
a quella vibrante o sonora
(aritenoidi chiuse, ma corde abbastanza aperte e non tese: netta vibrazione con
assenza di frizione), entrambe presenti in italiano, a quella con fricazione od
aspirata (come per le sorde ma con una transizione
fricativa prima dell'articolazione successiva), presente ad esempio in inglese, a
quella eiettiva o glottidalizzata, rara in Europa ma presente nel 20% delle
lingue del mondo (combina una doppia occlusione, glottale ed orale, con rilascio
prima orale e poi glottale), ai molti tipi meno comuni, tra cui i pricipali sono
quelli del mormorato (en. breathy voice),
i cui risultati sono chiamati nella tradizione indoeuropeistica "sonori aspirati"
e sono tipici del sanscrito
e di molte lingue moderne del nord dell'India come hindi e bengali (aritenoidi aperte come in sorde ed aspirate,
ma corde vocaliche leggermente aperte e distese come nelle sonore), del
cricchiato (en. creaky voice) usato in molte varianti nelle lingue
mon-khmer dell'Indocina,
in qualche lingua tibeto-birmana come il minchia,
in poche lingue austronesiane continentali come il cham
(di cui cfr. anche il sistema
fonologico) per influsso khmer, ed in alcune lingue otomanguee del Messico come il mazateco
(aritenoidi costrette e fortemente chiuse, ma corde ancora relativamente discoste, anche
se meno che nella sonorità, in modo da poter vibrare almeno nella parte opposta alle aritenoidi),
e dell'implosivo od ingressivo,
che è un poco l'opposto dell'eiettivo, e che è tipico ad esempio, del sindhi, lingua indoeuropea dell'India NW (l'aria
viene risucchiata dall'esterno verso la glottide che si apre perlopiù come nella sonorità).
Oltre a queste caratteristiche segmentali, ossia che identificano un segmento discreto della catena linguistica, ve ne sono altre che sono soprasegmentali (o "prosodiche"), ossia che possono essere sovrapposte alla catena discreta dei foni senza identificarsi con essi. Con la maggior parte di esse siamo già familiari, e dobbiamo solo ritoccare i concetti ingenui che già ne abbiamo per inserirli nel quadro complessivo. La prima è la durata, che può applicarsi tanto ad un fono (prolungamento della articolazione) come ad una sillabla od unità superiore. La seconda è il tono, ossia la frequenza a cui vibrano le corde vocaliche (tutte le nostre emissioni hanno, chiaramente, una frequenza e quindi un tono, ma normalmente con tono si intende la produzione intenzionale di una data frequenza, che può essere assoluta - ad es. il la centrale a 440 hertz - o relativa - un tono genericamente "alto" tale in quanto opposto ad uno "basso"). La terza è l'intensità, ossia la forza (pressione pneumonica, tensione articolatoria) con cui un fono viene prodotto, che è poi il suo volune o pressione acustica misurabile in decibel. L' accento, cioè il rilievo dato ad una parte della fonazione rispetto alle altre, è nient'altro che una mistura variabile delle tre componenti precedenti: gli inglesi hanno due termini per distinguere quando prevale la componente intensiva (stress) da quando prevale l'innalzamento tonale (pitch); l' "accento" dell'italiano (che uno stress) è ottenuto prevalentemente dall'allungamento quantitativo e dal rilievo intensivo, ed in piccolissima misura dall'innalzamento tonale. L' intonazione è data dalla curva intonativa disegnata dalle varie fonie (che, come dicevano, hanno comunque una frequenza anche in lingue "senza tono") di un enunciato: anche l'italiano, che pure non ha toni, ha diverse intonazioni, come la cadenza interrogativa o la cadenza sospensiva. Altre proprietà laringali (voci) possono essere configurate in un sistema soprasegmentale, come nel caso dei registri delle lingue mon-khmer, per cui cfr. nella sezione sulle lingue; ed anche proprietà orali come la nasalità (apertura della cavità nasale che si aggiunge come risuonatore a quella orale) o la faringalizzazione (tensione della faringe e della radice della lingua) possono in alcune lingue presentarsi come sovrasegmentali.
Ritornando, dopo questa piccola digressione fonetica, sulla traccia
principale della fonologia, le unità significanti di seconda articolazione, oggetto proprio dello studio della fonologia,
sono dette fonemi, e sono contrapposte appunto ai foni (di cui si occupa
invece la fonetica), che sono i concreti elementi fonetici della parole,
ma non sono però in sé dotati di significato linguistico. I foni possono essere in
variazione libera, non sistematica (ad es. se parlo in fretta articolerò in modo
più affrettato, se "grido" varierò contingentemente le mie articolazioni, se sono
raffreddato le mie fonazioni saranno diverse dal normale, ecc. ecc.), oppure osservare
una qualche regola di ripartizione combinatoria determinata (ad esempio il fonema
nasale dentale /n/ in italiano davanti a /k,g/ è articolato velare - cfr. ancora,
davanti a /f/ è articolato labiodentale - cfr. anfora, davanti alla maggior parte
degli altri fonemi è articolato dentale - cfr., appunto, dente), nel qual
caso sono detti allofoni. Parte delle convenzioni terminologiche (ad es.
"fono" come corrispondente fonetico di fonema) e simboliche (ad es. gli slash per
rappresentare i /fonemi/ e le quadre per i [foni]) della fonologia moderna, bisogna
infine avvertire, non sono comunque ancora usate da Trubeckoj (anche se i concetti
che sottointendono vi sono tutti).
Ho accennato alla possibilità di costruirsi percorsi di studio
nella fonologia in base ai materiali forniti, soprattutto nel secondo modulo.
Questi sono alcuni (le parti del secondo modulo sono linkate nei nomi delle lingue:
attenzione che se stampate il testo perdete i link e dovete poi cercarveli a manina...):
(1) Vocali.
++ Questo capitolo.
++ Parte generale sul Graffi-Scalise.
++ Sistemi triangolari a 3 ordini e 2 gradi (tipici ad es. in Australia):
guugu yimidhirr [pama-nyungan],
wargamay [pama-nyungan],
pitta-pitta [pama-nyungan] e
watjarri [pama-nyungan] (3 fonemi).
++ Sistemi triangolari a 3 ordini e 3 gradi:
giapponese [circa-altaico],
protoaustronesiano e
yimas [pondo / Lower Sepik - Ramu] (4 fonemi);
hawaiiano [austronesiano],
rotokas [N Bougainville] e
nemi [austronesiano] (5 fonemi);
malese [austronesiano],
madurese [austronesiano],
enggano [austronesiano],
cèmuhî [austronesiano] e
fore [goroka / Trans New Guinea] (6 fonemi);
italiano [romanzo/indoeuropeo] (7 fonemi: cfr. Graffi-Scalise pp. 79-80).
++ Sistemi asimmetrici a 3 ordini e 4 gradi:
kâte [huon / Trans New Guinea] (6 fonemi).
++ Sistemi rettangolari a 3 ordini e 4 gradi:
cham [austronesiano] (11 fonemi).
++ Sistemi rettangolari a 4 ordini e 2 gradi:
kirghizo [altaico] (8 fonemi).
++ Sistemi rettangolari a 4 ordini e 3 gradi variamente asimmetrici:
finnico ed estone [uralico] (risp. 8 e 9 fonemi)
da un lato, e dall'altro quello postulato come
protoaltaico (9 fonemi).
++ Sistemi rettangolari a 6 ordini e 4 gradi:
xârâcùù [austronesiano] (17 fonemi).
++ Dopo avere studiato anche il percorso (3) riuscite a comprendere il problema
posto dal vocalismo del kabard
(caucasico W) e dello iatmul [ndu / Lower Sepik - Ramu] ?
(2) Consonanti.
++ Questo capitolo.
++ Parte generale sul Graffi-Scalise.
++ Sistemi a serie unica di occlusive (senza correlazioni):
finnico [uralico];
cfr. anche i sistemi ancora più semplici di alcune lingue austronesiane come lo
hawaiiano [oceanico]
o "papua" come il fore [goroka / Trans New Guinea];
in assoluto, comunque, la lingua col sistema fonologico più piccolo del mondo è una lingua
"papua" [recte N Bougainville] di questo tipo, il rotokas
dell'isola Bougainville, con 6 consonanti e 5 vocali).
++ Sistemi a serie doppia di occlusive con sonorità (correlazioni a 2: sordità e sonorità):
giapponese [circa-altaico],
kâte [huon / Trans New Guinea]
e protoaltaico.
++ Sistemi "indoeuropei"
ed indoari, con 3,4,5 correlazioni:
protoindoeuropeo (glottidalizzato o meno: 3 serie per 5 ordini),
bengali (4 serie per 5 ordini),
sanscrito (5 serie [4 occlusive + 1 nasali] per 5 ordini), e
sindhi (7 serie [5 occlusive + 2 nasali] per 5 ordini);
a questo tipo si puo accostare anche quello frequente in sinotibetano (in cui però centrale
più che l'opposizione sorda : sonora è quella lene : tesa-aspirata), come in
ladakhi [himalaya / tibetobirmano] (3 serie per 6 ordini).
++ Sistemi "australiani", orrizzontali (sono
assenti le fricative) a due correlazioni con affiancate in un unico fascio occlusive e nasali:
wargamay (2 serie per 4 ordini) [pama-nyungan],
watjarri (2 serie per 5 ordini; parziale formazione di una 3terza serie di laterali) [pama-nyungan],
guugu yimidhirr (2 serie per 6 ordini) [pama-nyungan],
pitta-pitta (3 serie [con una parziale di laterali] per 6 ordini) [pama-nyungan];
così anche lo yimas [pondo / Lower Sepik - Ramu] (2 serie per 4 ordini).
++ Sistemi "caledoniani"
a più correlazioni in cui comunque sono sempre unite in un unico fascio almeno occlusive e nasali:
dal cèmuhî [austronesiano] (3 serie per 5 ordini)
al nemi [austronesiano] (6 serie per 5 ordini)
allo xârâcùù [austronesiano], in cui
vengono riunite nel fascio anche le fricative (4 serie per 6 ordini); vi si possono
accostare sistemi di area indiana come quello del
sindhi [indoeuropeo] (7 serie per 5 ordini).
++ Sistemi "monstre" con moltissime serie e molti ordini, ed inventari fonologici inquietanti:
kabard [caucasico W] (48 fonemi consonantici),
yélî dnye ["papua" isolata] (57 fonemi consonantici),
archi [caucasico E] (70 fonemi consonantici),
ubykh [caucasico W] (81 fonemi consonantici),
!xóõ [khoisan] (?100+ fonemi consonantici).
++ Esercizio: il sistema italiano in Graffi/Scalise p. 77 è disegnato distribuendo i
fonemi in base alle loro caratteristiche fonetiche oltre che fonologiche, provate
a ridisegnarlo in modo più compatto tenendo conto solo delle relazioni fonologiche
tra i vari fonemi.
(3) Allofonia.
++ Questo capitolo.
++ Parte generale sul Graffi-Scalise.
++ Allofonie semplici: /n/ velare in
italiano [romanzo/indoeuropeo]
(in questo paragrafo) ed in finnico [uralico].
++ Paradigmi di alternanze morfofonologiche:
gradazione baltofinnica.
++ Distribuzioni condizionate sillabicamente:
l'armonia vocalica.
++ Fonemi senza realizzazioni fonetiche esplicite:
l'occlusiva glottale del finnico /'/ e
la mora /Q/ del giapponese.
++ Distribuzione complementare di [-ng] e [Ø-] in koreano
e loro rappresentazione fonologica in hangul.
++ Realismo vs. parsimonia nella costruzione dei sistemi:
i quadri allofonici di "sh", "ts", "ch" e "j" in giapponese.
++ Sistemi allofonici complessi in compensazione di sistemi fonologici ridotti:
cfr. ancora una volta il rotokas [N Bougainville]
ed il fore [goroka / Trans New Guinea].
Un altro modello della funzione simbolica che ha goduto di molta
diffusione è quello che proposero nel 1923 lo psicologo ed anglista (è stato il principale
proponente del Basic English) Charles Kay Ogden (1889-1957) ed il critico letterario e
studioso di estetica Ivor Amstrong Richards (1893-1979) in un fortunato libro: The
Meaning of Meaning: a study of the influence of language upon thought and of the science of symbolism,
New York, Harcourt & Brace, 1923.
Si tratta del cosiddetto "triangolo della significazione", in cui si trovano correlati
come elementi costitutivi un significante ("symbol") un significato ("thought or reference") ed
un referente da relazioni definite come nella tavola seguente:
[tav. 7]
Il triangolo della significazione di Ogden e Richards. Adattato da C. K. Ogden e
A. Richards, The Meaning of Meaning: a study of the influence of language upon thought
and of the science of symbolism, New York, Harcourt & Brace, 1938 [1923], p. 11.
Dei tre elementi, "simbolo", "pensiero" e "referente", della triade (rappresentati dai
vertici del triangolo) i primi due corrispondono grosso
modo rispettivamente al signifiant ed al signifié di Saussure. Lo schema
cerca inoltre di collegare i tre elementi con funzioni distinte (in azzurro nella
tavola) associate ciascuna a valori di verità (in arancio nella tavola).
Nonostante la diffusione tuttora perdurante (anche
manuali recentissimi di linguistica continuano a riproporre l'ormai classico disegno
del triangolo per la struttura del segno) di questo modello, e nonostante molti suoi meriti,
dobbiamo constatare che esso segna un notevole passo indietro rispetto a Saussure
ed alla tradizione semiologica che vi si ricollega, ed il problema è stato spesso sottolineato
dai più avvertiti (ad es. da Tullio De Mauro nel commento al Cours, cit.).
Il punto in discussione è la introduzione del referente (oggetto) del segno come
elemento indispensabile della significazione, che rischia di minare la "astrattezza"
del segno linguistico che è stata una così importante scoperta da parte di Saussure.
Questo comporta il rischio di tornare ad una concezione presaussuriana del linguaggio
come nomenclatura (collezione di nomi con cui riferire ai fatti del mondo) anziché
come struttura autonoma, convenzionale ed immotivata, concezione contro cui hanno lottato alacremente tanto
Saussure quanto poi Wittgenstein. L'intuizione di ciò, tra l'altro, risale a molto prima:
ricordate il passo che avevamo riportato di Jonathan Swift? Prima di arrivare all'idea
di abolire tutte le parole, i "dotti" dell'Accademia di Lagado avevano pensato di
eliminare «verbs and participles, because, in reality, all things imaginable are but
nouns». Anche Humpty Dumpty, il personaggio di Carroll nell'altro brano che avevamo
citato, lamentando che «They [le parole] 've a temper, some of them - particularly verbs,
they're the proudest - adjectives you can do anything with, but not verbs», riconosceva
la resistenza del linguaggio a farsi ridurre alla mera costruzione di una nomenclatura del mondo.
Alla difusione di questi triangoli-trappola ha probabilmente contribuito il fraintendimento
banalizzato di quello che in semiotica è universalmente noto come triangolo della
semiosi, che, a ben rileggere la definizione che ne dava il suo introduttore Charles
Saunders Peirce (per la cui figura e filosofia del linguaggio cfr. il paragrafo seguente),
era tutt'altra cosa:
It is important to understand what I mean by semiosis. All dynamical action, or action of brute force, physical or psychical, either takes place between two subjects (whether they react equally upon each other, or one is agent and the other patient, entirely or partially) or at any rate is a resultant of such actions between pairs. But by semiosis I mean, on the contrary, an action, or influence, which is, or involves, a coöperation of three subjects, such as a sign, its object, and its interpretant, this tri-relative influence not being in any way resolvable into actions between pairs. (C. S. Peirce, Pragmatism, EP 2:413, 1907)
[tav. 8]
La struttura triadica della semiosi secondo Peirce, che non è
quella del segno, che anzi ne è uno dei tre termini base.
Cito secondo il Commens
Dictionary of Peirce's Terms, alla voce semiosis (evidenziazioni mie).
Attenzione ai triangoli, dunque, e non fatevene fuorviare!
Abbiamo, appunto, avuto spesso occasione di accennare al filosofo americano Charles Sanders
Peirce
(1839-1914, si pronuncia grosso modo come purse 'borsa') a proposito
della fondazione della semiotica (§ 1.0.3) e della occasionale motivatezza
del segno linguistico (§ 1.1.3) e del triangolo semiotico
(§ 1.3.4).
Il suo pensiero non è sempre facile da cogliere e da inquadrare schematicamente anche per
via della dispersione dei suoi scritti: la sua originalità fu davvero riconosciuta solo
dopo la sua morte, sicché molti dei suoi scritti sono postumi, a volte manoscritti e
frammentari; Peirce, inoltre, ha spesso modificato le sue opinioni, sicché i suoi
scritti vanno sempre letti nella giusta cronologia; oltre a ciò, va anche detto che Peirce
fa spesso uso di una terminologia molto personale. Tutte queste caratteristiche
lo hanno reso fino a non molti anni fa un filosofo "da specialisti"; oggi però,
la pubblicazione critica della maggior parte degli scritti, la presenza di
buone introduzioni al suo pensiero (consiglio soprattutto questa antologia, ottimamente
commentata: Charles Sanders Peirce, Semiotica, Testi scelti e introdotti da
Massimo A. Bonfantini, Letizia Grassi, Roberto Grazia, Torino, Einaudi, 1980),
e la disponibiltà online di risorse come il
Commens Dictionary of Peirce's Terms
hanno ricondotto Peirce alla portata di tutti.
Vale comunque ora la pena di spendere qualche parola di più (pur
tenedoci molto sulle generali) almeno sulla sua concezione della significazione
(che è quello che qui ci è più indispensabile),
cui pure bisogna anteporre qualche preemessa.
E l'orizzonte è dei più ampi: abbiamo visto dalle definizioni riportate nel § 1.0.3 Peirce dà al termine semiotica un senso amplissimo, sostanzialmente identificandola con la logica. Ossia, come si è spesso oservato, la sua è una semiotica cognitiva, «basata su una teoria della conoscenza e anzi parte integrante di una teoria della conoscenza» (Bonfanti ecc. 1980 cit., p. x). Una preconoscenza od almeno una idea della sua filosofia, del pragmatismo (anzi del pragmaticismo, come lui preferiva chiamarlo), quindi, sarebbe assai utile. Qui non potremo fare più di tanto: mi limito a raccomandarvi l'introduzione di Bonfantini all'antologia più volte citata come una effice (anche se breve e semplice) introduzione.
A grandi linee in base ai diversi tipi di relazioni "significanti" possibili, si può dire che Peirce distinguesse tre tipi ideali (questa triade è stata introdotta in On a New List of Categories, 1867, ora in Collected Papers, Cambridge (Massachusetts), 1931-58, 1.545-559): simbolo, icona ed indice. Naturalmente, con "tipi ideali" si sottointende che nella realtà non troviamo di norma tipi completamente puri.
Per simbolo (termine che noi invece usiamo come iperonimo per qualsiasi struttura
simbolica) Peirce intendeva il segno vero e proprio (compreso la sua manifestazione principe
di "segno linguistico"), la cui significazione è solo in virtù del fatto che è intepretato
dall'interpretante come significante del suo significato. Per il suo carattere arbitrario
e interno alla lingua (relazione arbitraria tra significante e significato),
il "simbolo" di Peirce si accosta molto al "segno" di Saussure.
Per icona, invece, Peirce intendeva il segno che si fonda su una relazione
tra una configurazione materiale ed un oggetto che hanno una proprietà in comune,
o meglio, che sono simili in qualche aspetto (sufficiente per farci ignorare le
loro differenze). In questo senso il segno-icona (come abbiamo già rilevato) è motivato,
cioè il significante non si riferisce al suo oggetto solo per convenzione, e naturalmente
ciò implica che l'oggetto quanto il segno debbano di norma essere esistenti nel mondo esterno
(a differenza del "segno linguistico" saussuriano che, non ci stanchiamo di ripeterlo,
ha un'esistenza solo interna e non è mai un oggetto materiale del mondo). La somiglianza,
inoltre, può peraltro essere scoperta o posta, anche se naturalmente non tutto può
essere icona di tutto: ad esempio immagini, ritratti, onomatopee. Le icone, inoltre,
si possono dividere in tre sottoclassi: immagini (somiglianza complessiva e diretta),
diagrammi (la somiglianza qui concerne la relazione tra le parti rappresentate)
e metafore (parallelismo).
L' indice, infine, è un segno che sta in una relazione diadica, (cioè, per Peirce,
"esistenziale") con il suo oggetto, legame che si fonda su una prossimità spaziale
e/o temporale; l'indice quindi permette di "inferire" l'oggetto o il processo che
rappresenta (dall'indice a ciò verso cui punta). La relazione, nel caso più semplice,
è tra una configurazione materiale ("il dito"), la cui interpretazione (il dito come freccia)
è quasi universale, ed un oggetto ("ciò verso cui punta") che l'indice mi permette
di "inferire" (può trattarsi della causa - un'orma che segna il passaggio di un animale,
della fonte - ossa fossili rispetto agli animali antidiluviani, del produttore dell'indice, ecc.).
Caratteristica della relazione indicale, rispetto a quella segnica, è che attraverso
di essa avviene il rimando a un oggetto (e con ciò il trasporto di un messaggio),
rimando che è motivato (oltre che dal codice che mi permette di interpretare qualcosa
come un indice) dalle circostanze in cui avviene la comunicazione, dalla scena comuniticativa,
con le sue coordinate temporali, spaziali e il suo centro (l'occorrere dell'indice).
Gli indici rivestono notevole importanza anche in linguistica dove sono
di solito chiamati deittici (dal greco deíknymi 'mostrare, indicare'):
si tratta, ad esempio, dei pronomi dimostrativi come "questo", "quello" ecc.,
dei personali come "tu", degli avverbi come "qui", "lì", ecc.
Il valore degli indici di un sistema linguistico, in effetti, è occasionale
nel senso che non è fisso come quello dei segni linguistici veri
e propri (lessicali), il cui valore in una data "langue" è stabile.
Proprio per questo la "deissi" (greco deîxis), ossia la capacità
di ancorare con degli indici il discorso ad una specifica realtà, è
fondamentale per il nostro uso del linguaggio, e le sue caratteristiche sono
state studiate con molta attenzione dalla linguistica (soprattutto dalla "pragmatica"
e dalla "linguistica testuale") oltre che dalla filosofia (ricorderò almeno l'inglese Peter
Frederik Strawson,
1919 -, uno dei principali esponenti della filosofia del linguaggio ordinario di Oxford).
Posso, tra l'altro, segnalarvi un sito sulla deissi
di carattere didattico ed interattivo che è in costruzione proprio qui ad opera
di un nostro dottorando, Adriano Allora.
Una nozione che ci farà comodo usare nei paragrafi che seguono è
inoltre quella di segnale, che assumiamo come termine generico per ricoprire
qualsiasi tipo di segno in cui prevalga la natura materiale (al di là del suo possibile
valore od indicale nel senso di Peirce), da contrapporre alla natura "interna" del segno.
Questo concetto risale, in realtà, a Husserl (il filosofo che abbiamo già menzionato
nel § 1.2.2
a proposito della ricorsività) che lo introduce nella prima delle Ricerche Logiche.
«Il concetto di segnale sembra qui comprendere - cito da Andrea Bonomi, Le immagini
dei nomi, Milano, Garzanti, 1987, p. 24-25 - l'area occupata, in Peirce, dal concetto
di indice e da quello di icona: Husserl infatti parla di segnale nel caso di un oggetto
che rinvia ad un altro per via di una certa contiguità, sia "fisica" (soprattutto
in senso causale: p.e. il fumo che rimanda al fuoco come sua origine), sia percettiva
(come nel caso di un disegno che riproduce i tratti essenziali dell'oggetto rappresentato).
Questa caratterizzazione è però insufficiente. Occorre infatti aggiungere che per
Husserl l'essenza del segnale risiede nel rapporto di indicazione che esso
istituisce, e che può esserci segnale anche senza quella contiguità cui s'è accennato,
ossia su basi puramente arbitrarie, senza relazione causale o isomorfismo percettivo
tra indicante e indicato: quello che conta è che, nel rapporto di indicazione, la
presenza attuale di certi oggetti motiva l'apprensione di certi altri oggetti».
Come quasi tutte le "etichette" (si pensi alla diversità tra
segno e simbolo nella tradizione di Peirce ed in quella di Saussure,
od a quella di significato in Saussure e Frege) anche segnale è stato
usato anche in un altro senso, nella fattispecie da Sebeok che nella sua Introduction
to Semiotics accanto alle tre categorie principali di Peirce, icona, indice
e simbolo, ne introduceva altre tre, meno nette, sintomo, nome ed appunto segnale.
Sebeok così caratterizzava i segnali: «All animals are endowed with
the capacity to use and respond to species-specific signals for survival. Birds, for
instance, are born prepared to produce a particular type of coo, and no amount of
exposure to the songs of other species, or the absence of their own, has any effect
on their cooing [...]. A large portion of bodily communication among humans also
unfolds largely in the form of unwitting signals. It has been shown, for example,
that men are sexually attracted to women with large pupils, which signal unconsciously
a strong and sexually tinged interest as well as making females look younger. This would explain
the fashion vogue in central Europe during the 1920s and 1930s of women using a crystalline
alkaloid eye-drop liquid derived from belladonna ('beautiful woman' in Italian)»
(Thomas A. Sebeok, Signs: An Introduction to Semiotics. Second Edition, Toronto
- Buffalo - London, University of Toronto Press, 2001 [1994 1st ed.], pp. 9-10).
Una certa dose di sovrapposizione (come quelle di Peirce anche le
categorie di Sebeok non sono mutualmente esclusive e complementari!) con la nostra nozione
di segnale è comunque notevole: «But humans are capable as well of deploying witting
signals for some intentional purpose - e .g., nodding, winking, glancing, looking,
nudging, kicking, head tilting. [...] Signalling systems can also be created for
conventional social purposes. The list of such systems is extensive, and includes
railway signals, smoke signals, semaphores, telegraph sign als, Morse code signals,
warning lights, flares, beacons, balefires, red flags, warning lights, traffic lights,
alarms, distress signals, danger signals, whistles, sirens, bleepers, buzzers, knocking,
gongs, bells, and drums» (ibidem, p. 10).