di Manuel Barbera (b.manuel@inrete.it).
Nell'Asia settentrionale, siberiana, come abbiamo più volte
accennato nel capitolo sull'altaico, vi sono alcuni isolotti residuali di componenti
linguistiche diverse dalla generale altaicità dell'area. Nel passato, anzi, questo strato
prealtaico doveva essere anche più diffuso, dato che abbiamo attestazioni di lingue
non-altaiche nel lessico di molte lingue altaiche (se ricordate avevamo ad esempio
accennato al problema dei "pre-kirghizi").
In genere, oggi, queste presenze sono
in grave pericolo di sopravvivenza, e molte si sono già spente nel corso dell'Ottocento,
altre nel corso del Novecento, ed altre si stanno estinguendo attualmente lasciando
il passo all'ormai ubiquitario russo. Si tratta,
essenzialmente, di due piccole famiglie linguistiche e di una manciata di lingue isolate.
Procedendo da Ovest verso Est la prima realtà che ci interessa è quella della famiglia Jeniseiana, così chiamata in base alla sua diffusione nel bacino della Enisej. Oggi l'unica lingua superstite è il ket, parlato dal 74,9% dei 1182 Ket etnici (dati del '70, tuttavia). La "eccezione" del ket nell'area siberiana è vistosissima non solo dal punto di vista genealogico (le proposte genealogiche, tutte altamente speculative, più frequenti sono state con la famiglia sino-tibetane e, più promettentemente, con le lingue caucasiche nordorientali), ma anche da quello tipologico, dato che è radicalmente diverso da qualsiasi altra lingua della Siberia: il ket è infatti una lingua a toni (donde l'idea, ingenua, di confrontarlo col cinese) e con morfologia complessissima: flessione interna, prefissi oltre che suffissi, radici discontinue e sistemi di genere-classe (circostanza che ha suggerito l'ipotesi caucasica nordorientale, che sembra stia conseguendo qualche risultato più promettente delle altre strade finora suggerite).
[tav. 1]
Cartina (in francese) delle lingue Jenisseiane nella loro massima estensione nota
(Ottocento). L'area tratteggiata comprende il ket proprio, nei suoi due dialetti
dell'Imback (che è il ket ancora parlato) e del Sym (chiamato anche
jug, estinto nell'Ottocento), che costituisce il ramo settentrionale. Il ramo
meridionale comprendeva un gruppo orientale, costituito dal kot (estinto
nell'Ottocento) e dall' assan (estinto nel Settecento), ed un gruppo occidentale
costituito dall'arin e dal pumpokol (estinti nel Settecento).
Modificato da Guy Tailleur, Un îlot basco-caucasien
en Sibérie: les langues iénisséiennes, in "Orbis" VII (1958) 415-427. Nella
cartina è rappresentato anche il burushaski, altra lingua isolata dell'area iranica.
L'altra area di massima singolarità linguistica nell'Asia nordorientale
è l'estremità orientale della Siberia, antistante lo stretto di Bering.
[tav. 2]
Carta linguistica dell'estremità nordorientale della Siberia, dalla Kolyma allo
stretto di Bering. Le tre componenti principali delle lingue luoravetliche (chukchi, korjak
e kamchadalo o itelmen) sono evidenziate in arancione, con tonalità nell'ordine
crescenti. Ad ovest, lo jukaghiro wadul e l'odul sono individuati rispettivamente in
blu ed in azzurro. Ad est, l'eskimo è individuato in verde.
Le altre lingue in cui queste sono immesse, oltre al dilagante russo (numero 1),
sono: la turca jakuto (n. 68), le tunguse evenki (n. 71) ed even (n. 72).
L'unico fiume rappresentato è la Kolyma.
Adattato da Bernard Comrie, The Languages of the Soviet Union, Cambridge
- London - New York - New Rochelle - Melbourne - Sydney, 1981.
In questa zona, vi sono anche estreme propaggini di altre famiglie
linguistiche.
È questo il caso soprattutto dell'eskimo siberiano, che rappresenta
solo la piccola appendice asiatica della famiglia eskimo-aleutina, diffusa
tra l'Alaska, il Nord del Canada e la Groenlandia (dove, anzi, una lingua eschimese
è ora lingua ufficiale di stato).
Ed è questo, secondo ogni probabilità, anche il caso dello jukaghiro, un tempo considerato
lingua isolata, ma oggi abbastanza sicuramente dimostrato (soprattutto grazie ai
lavori della linguista russa Tatjana Nikolaeva) essere una componente
lontana della famiglia uralica. Lo jukagiro è parlato da una minoranza ormai veramente
esigua (nel 1970 il 46,8% dei 615 jukaghiri etnici) in due dialetti isolati tra
loro: il wadul, settentrionale, o jukaghiro della tundra, è usato da popolazioni
nomadiche tra l'Alazèja e la C^ukoc^'ja (due fiumi minori ad ovest della foce della
Kolyma), visualizzato in blu nella tavola precedente;
l' odul, meridionale, o jukagiro della Kolyma, è invece parlato più a sudest
da popopazioni stanziali lungo due affluenti superiori della Kolyma, Jasac^naja e
Korkodon, rappresentato in azzurro; un dialetto affine all'odul, il chuvan
era inoltre ancora vivo nell'Ottocento tra la Kolyma e l'Anadyr (cfr. Guy Tailleur,
Le dialecte tchouwane du youkaghir, in "Ural-altaische Jahrbücher" XXXIV (1962)
55-99); restano, infine, scarse testimonianze ottocentesche anche di un'altra lingua
probabilmente distinta, l'omok (cfr. Guy Tailleur, Les uniques données sur
l'omok, langue éteinte de la famille youkaghirienne, in "Orbis" VIII (1959) 78-108).
Tutte queste varietà si possono trovare inserite nella classificazione delle lingue uraliche
che avevamo proposto nel capitolo sull'Uralico.
Il gruppo solo locale di lingue più articolato ed in migliore stato di
conservazione è la famiglia luoravetlica, come detto in base alla autodenominazione
di alcune delle sue popolazioni (chukchi e korjaki); l'altro più frequente nome,
ben più ingombrante, è quello di "chukcho-kamchadalo".
Si tratta di una piccola famiglia linguistica costituita da quattro lingue (secondo
taluni tre, secondo altri più), tra cui il chukchi è la più florida
(parlata dal 82,6% dei
13597 chukchi etnici nel 1970), mentre i dialetti kamchadali (itelmen; secondo taluni
lingue autonome) sono tutti estinti tranne l'occidentale, comunque anch'esso allo stato
terminale. Si tratta di lingue con armonia vocalica e morfologia prevalentemente
agglutinante (come le altaiche, dunque), ma con sintassi ergativa (come le lingue
del Caucaso): il chukchi, anzi, è considerato una delle lingue più rigorosamente
ergative del mondo.
[tav. 3]
Una delle possibili classificazioni delle lingue luoravetliche: basato su D. S.
Worth, La place du kamtchadal parmi les langues soi-disant paléosibériennes,
in "Orbis" XI (1962) 579-599.
Un poco più a nordest, tra Sakhalin ed il Giappone, troviamo
altre due importanti lingue isolate, il nivkh e l'ainu:
[tav. 4]
La massima estensione ricostruibile per le lingue ghiljache ed ainu.
Adattato da James Patrie, The Genetic Relationship of the
Ainu Language, The University Press of Hawaii, 1982, p. 54.
Il nivkh (autodenominazione nel dialetto dell'Amur; o ghiljaco nella denominazione russa), oggi ("ieri", in realtà, perché i dati che ho risalgono al 1970!) è parlato dal 49,5% dei 4420 ghiliachi etnici. I due dialetti principali, uno occidentale, parlato sul basso corso dell'Amur (che fu alla base negli anni '30 di un'effimera lingua letteraria, dapprima in latinica e poi dal 1953 in cirillica), ed uno orientale, parlato nell'isola di Sakhalin, sono in realtà due lingue diverse, strettamente relate ma mutuamente non comprensibili. Un terzo dialetto, nel Nord di Sakhalin, è una varietà di transizione tra le due principali.
Immediatamente a Sud, l'ainu, partendo dalla ancora "siberiana" Sakhalin ci porta direttamente in Giappone, con la cui storia è inestricabilmente legato: la sua estensione originaria, infatti, andava da Sakhalin meridionale, a parte delle isole Kurili, tutta Hokkaidô e la parte settentrionale di Honshû (come prova la toponomastica). Dei tre dialetti principali (Sakhalin, Hokkaidô e Kurili settentrionali), quello delle Kurili era già estinto negli anni Trenta, la scomparsa di quello di Sakhalin data agli anni Sessanta, e gli ultimi parlanti di Hokkaidô stanno ormai rapidamente scomparendo anch'essi.
[tav. 5]
I dialetti ainu: Sakhalin (N, C e S), Kurili e Hokkaidô (N, E, CS, SE). Adattato da
Kirsten Refsing, The Ainu Language. The Morphology and Syntax of the Shinuzai
Dialect, Aahrus, Aarhus University Press, 1986, pp. 53-54, basato in uktima
analisi su Asai Tôru 1974.
Il problema delle origini dell'ainu è stato sempre circondato da un discreto alone di mistero anche per via della differenza razziale (più marcata antropometricamente che geneticamente) rispetto alle popolazioni circostanti. Dato il coinvolgimento anche con la protostoria del giapponese, ne avevamo già discusso parlando delle origini del giapponese (cfr.). Non aggiungo ulteriori dettagli: comunque i giapponesisti troveranno un'ampia trattazione nel libro di Shibatani.
Se nel Nordest dell'Asia ci confrontiamo solo con pochi resti
linguistici, rimasti estranei alla generale progressiva "altaicità" dell'area, ed
ormai strangolati dall'invasione russa, sicché la nostra incapacità a svelare efficaci
connesioni genealogiche è anche giustificata dagli enormi buchi di documentazione
che abbiamo, nel Sudest asiatico la situazione è simile solo nel presentarci con
un certo numero di famiglie linguistiche di problematica affiliazione, ma è diversissima
sotto tutti gli altri rispetti. Queste famiglie (essenzialmente tre: kadai, miao-yao e
mon-khmer) comprendono infatti tutte numerose lingue, alcune non ancora studiate, ma altre
ben note, con molti parlanti e ricca tradizione scritta, come il thai, il lao, il
vietnamita e lo khmer. Il livellamento linguistico, poi, è stato meno monolitico
ed efficace che nel Nord; qui i tre gruppi che potremmo considerare nativi dell'area
sono stati esposti all'espansione di due altre famiglie, ma non ne sono stati completamente sommersi:
da Nord il sinotibetano,
che da un lato ha infiltrato di moltissime lingue tutto il Sudest asiatico e dall'altro
col cinese ha sempre presentato un modello culturale (e commerciale) forte; da Sud
l'austronesiano che, pur
di diffusione prevalentemente insulare, ha degli avamposti
continentali molto importanti come il malese e le lingue cham.
Una caratteristica comune, inoltre, a quasi tutta l'area del Sudest asiatico (con
l'eccezione del vietnamita, mon-khmer, scritto originariamente in sinogranmmi
ed oggi in latinica, e del malese, austronesiano, scritto dapprima in arabica ed oggi in latinica)
è l'uso di scritture di origine indiana, derivate dal sillabario
brahmi (allo stesso modo della nagari del sanscrito e della maggior parte delle scritture
dell'India) attraverso una sua modifica avvenuta nell'India meridionale e diffusa
dal prestigio e dalle attività commerciali della dinastia Pallava (VIII secolo d.C.):
per la brahmi e per la sua diffusione nel Sudest asiatico cfr. il paragrafo sulla
brahmi
nel capitolo sulle scritture. Nonostante alcune di queste scritture siano molto
"difficili", tanto per complessità di funzionamento quanto per inadeguatezza sincronica
(essendo scritture "storiche") come è ad es. soprattutto il caso della grafia khmer o
della thai, avere a disposizione documentazioni antiche in scritture fonografiche anziché
logografiche (come in tutte quelle del tipo del cinese) è un indubbio vantaggio per il
linguista che voglia studiare, tassonomicamente e storicamente, questi gruppi di lingue.
I problemi della classificazione genealogica del Sudest asiatico sono,
dunque, molto legati al relativamente giovane stato della ricerca dell'area,
unito alla oggettiva difficoltà di molte lingue ed a situazioni etnologiche (molte
lingue sono tuttora "selvagge") o politiche (basti ricordare gli orrori
perpetrati dai Khmer rossi in Cambogia, e tutti i conflitti che hanno insanguinato
l'area) tutto fuorché ottimali: a differenza del Nordest, dove, tristemente, i giochi
sono sostanzialmente ormai fatti e poco progresso è da attenderci, nel Sudest si
può ben sperare che la nostra visione dell'area possa ancora definirsi meglio col
progredire degli studi.
In effetti, molto è già cambiato nell'ultimo mezzo secolo, ad es. con la sottrazione del
thai (e delle sue lingue immediate cognate) e delle lingue miao-yao al cinese, con
la scoperta del gruppo kam-sui e di altre lingue lontanamente relate al thai in Cina e
la definizione della famiglia kadai, e con la conferma del collegamento delle lingue mon,
khmer e munda. Tutti questi avanzamenti di conoscenza hanno anche portato
alla formulazione di ipotesi di connessioni a più largo raggio, più o meno plausibili.
Tutte ruotano intorno a due proposte: la prima, partendo dalla ipotesi (dell'antropologo
Wilhelm Shmidt, nei primi del Novecento) che le lingue mon-khmer siano connesse ad una piccola
famiglia isolata dell'India, quella delle lingue munda, in una sovra-famiglia
battezzata "austroasiatica", ha esteso il "(macro-)austroasiatico" anche all'altra
grande famiglia australe, la austronesiana (cfr. infra); la seconda, cara in particolare a
Paul Benedict, ha invece insistito su un collegamento tra kadai ed austronesiano (inteso
come taiwanese indigeno + maleo-polinesiaco + [nell'ottica di Benedict] lo strato
meridionale non-altaico del giapponese); spesso le due ipotesi sono anche state combinate
pensando ad un'unica mega-macrofamiglia "austrica". Alcune di queste ipotesi, o parti di esse, possono
eventualmente essere in parte verosimili e degne di essere messe alla prova, ed alcune lo sono state
(il cuore dell’ipotesi di Schmidt, soprattutto), altre, invece, non solo non si possono considerare in
alcun modo dimostrate, ma paiono sempre più inverosimili (la stuttura generale dell'ipotesi
di Benedict, in particolare): indubbiamente il grande progresso nella ricostruzione delle
singole famiglie cui si sta assistendo negli ultimi decenni permetterà presto di fare
notevoli passi avanti nel disegnare la storia linguistica di questa complessissima area. Al momento attuale,
ad ogni buon conto, se ci si vuole limitare a quello che effettivamente si sa
e non che si suppone, si può solo parlare di cinque famiglie, miao-yao, kadai,
mon-khmer-munda ("austroasiatico" in senso stretto), più sinotibetano (che è stato
trattato nel capitolo precedente) ed austronesiano (cui accorderemo un paragrafo autonomo).
L'uso, tra l'altro, che abbiamo fatto dell'etichetta "austroasiatico" per qualificare tutta questa area linguistica, con lo stesso valore e portata di quello che avevamo accordato a "paleosiberiano" nel capitolo precedente (sono solo qualifiche areali, culturali e storiche, con evidenti vantaggi pratici, ma senza alcuna implicazione genealogica), è più improprio, trattandosi propriamente dell’estensione metonimica dell'etichetta di un taxon "reale", corrispondente all'unità genealogica "mon-khmer-munda".
[tav. 6].
Carta linguistica delle famiglie
austroasiatica (munda e mon-khmer), kadai ("daica" = kam-sui e tai) e
miao-yao. Le relazioni di questi gruppi tra loro (probabili), con la famiglia
sinotibetana (da scartare), e con la austronesiana (poco probabili), sono controverse.
Riprodotto da Merritt Ruhlen, A Guide to the World's Languages,
Volume 1: Classification, Stanford (California), Stanford University Press, 1987, p.149
149 (su Ruhlen ricordatevi sempre le riserve espresse in calce alla tavola della carta
linguistica dell'altaico, ed in generale).
Le lingue miao-yao (o hmong-mien, come
a volte sono rese) sono una famiglia linguistica relativamente piccola,
comprendente 38 lingue (secondo le cifre abbastanza di manica larga dell'Éthnologue)
che costituiscono una costellazione sfrangiatissima di dialetti sparsi tra il Sud
della Cina (il baricentro complessivo del gruppo è nel Guizhou), Vietnam, Laos e
Thailandia. Uno degli effetti di questa dispersione è la presenza nella letteratura
di molti nomi alternativi (come vedete, già quello della famiglia stessa...) intrecciati
ad un quadro dialettale complesso, che rendono l'orrizzontarcisi a volte esasperante.
Qui useremo solo le forme più "normali", ma avverto della presenza di molte denominazioni
che spesso sono solo sinonimi e non lingue diverse.
Le varietà miao-yao sono di solito ricondotte a due principali reti dialettali, che
danno il nome alla famiglia. Il (1) miáo o "hmong"
(miáo, propriamente, è un eteronimo cinese, originariamente derogativo, col valore
'aborigeno, terrone', come evidente esaminando il carattere M4470 ,
che presenta il campo con sopra il radicale 140 zao3
di 'erba'; nella lettura thai e vietnamita diventa meo, che è designazione
corrente in etnografia; hmong, d'altra parte, è designazione propria solo di alcune
varietà miao, e generalizzarlo a tutto il gruppo può essere depistante)
il cui centro è più occidentale, nel Sichuan, è il gruppo più numeroso e variegato
(Éthnologue ne conta 32 varietà) con tre gruppi dialettali principali, in cui il
"miao nero" hei miao è la lingua più nota; tra le molte varietà disperse
(persino negli USA: anche molti meo erano tra i montaignards alleatesi
con gli americani nella guerra del Vietnam, ed alcuni si sono rifugiati negli Stati
Uniti) ricordo anche il "miao blu" njan miao di Thailandia;
nel ramo va riportato anche il gruppetto delle varietà (4 secondo l'Éthnologue)
bunu un tempo considerato indipendente. Il (2) yao
o "mien" (anche in questo caso yáo è un eteronimo cinese, originariamente derogativo,
come evidente dal suo carattere, che accanto alla fonetica M7284
yáo aveva il radicale 94 quan3 'cane' , oggi
ufficialmente sostituito per "correctness" con quello 96
yù 'giada': cfr. Guy Moréchand, Le chamanisme des Hmongs, in "Bulletin
de l'École française d'Extrême-Orient" LIV (1968) 53-294, p. 57), il cui centro è
più orientale, nel Jiangxi, è meno articolato (5 varietà
secondo l'Éthnologue). Intermedie, ma più affini al miáo, sono infine due varietà di più
recente descrizione ed individuazione, il (3)
pa-hng (nel Guizhou e Guangxi oltre che in Vietnam), ed il discusso (4)
ho-ne.
[tav. 7]
La classificazione delle lingue miao-yao secondo Barbara Niederer (riportata in
Roger Blench, Stratification in the Peopling of China: How Far does the Linguistic
Evidence Match Genetics and Archaeology?, in Past Human Migrations in East Asia. Matching Archaeology,
Linguistics and Genetics edited by Alicia Sanchez-Mazas, Roger Blench, Malcom D. Ross,
Ilia Peiros and Marie Lin, London - New York, Routledge, 2008 "Routledge Studies in
the Early History of Asia" 5, pp. 105-132 , p. 113, e parzialmente modificata).
Sono tutte lingue tonali, fortemente isolanti e prevalentemente monosillabiche, il
che le aveva ingenuamente fatte collegare al cinese, teoria che oggi nessuno più sottoscriverebbe.
La questione dell'origine e delle eventuali affiliazioni esterne della famiglia è
in realtà assai problematica: la peculiare distribuzione geografica molto dispersa
fa certo pensare ad una realtà antica precedente alla espansione meridionale del cinese,
di cui avrebbe fatto le spese; anzi, lo strato di prestiti (dimostrabili) ed influssi
(meno facilmente dimostrabili) dal cinese antico e medio è talmente forte da rendere
difficile analizzare il residuo presumibilmente originario. Una ipotesi recente
(Kosaka Ryuchi, On the Affiliation of Miao-Yao and Kadai: can we Posit the Miao-Dai
Family?, in "Mon-Khmer Studies" XXXII (2002) 71-100), che pare plausibile anche se
non del tutto conclusiva, collegherebbe le lingue moao-yao alle daiche (cfr. infra),
riducendo così a sole due le famiglie "aborigene" del SE Asiatico.
L'individuazione della (macro)famiglia kadai (a partire da
lavori di Paul Benedict e Fang-kuei Li dei primi anni Quaranta), e la sua stessa
denominazione (Edmondson & Solnit 1988), sono recenti ed avvenute per gradi,
seguendo una storia metodologicamente assai interessante; il numero esatto, pertanto,
di lingue che ne fanno parte è ancora più difficile da indicare del solito, ed il totale
di 92 dato dall'Éthnologue
è solo uno dei tentativi possibili.
La prima costituente ad essere individuata è stata la numerosa famiglia daica,
costituita dal thai moderno, dal lao e dalle loro affini lingue minori
(circa una quarantina soprattutto in Thailandia, Laos e Vietnam, ma anche in Birmania
ed Assam settentrionali ed in Cina meridionale); sono tutte lingue tonali, analitiche,
e preponderantemente monosillabiche, anche se con numerose eccezioni specie per l'apporto
di sanscitismi, soprattutto antichi. Anche se l'individuazione del daico è sempre stata
pacifica, ad essere discussa fu soprattutto la sua affiliazione, per la quale si è
spesso pensato al sinotibetano (tutte le lingue del gruppo, infatti, sono tonali
e prevalentemente monosillabiche).
Il più precoce interesse per la famiglia daica
è dovuto soprattutto alla presenza di lingue scritte di grande tradizione letteraria, "nazionali"
e con grandi numeri di parlanti, come soprattutto i menzionati thai e lao; significativamente
(accompagnandosi all'altro grande tratto culturale della civilizzazione indiana sanscrita), come
in tutto il Sud Est asiatico, si tratta sempre di scritture alfasillabiche derivate
dalla variante meridionale della brahmi (cfr. la tavola
finale del § 1.6, e cfr. quanto abbiamo detto a proposito delle scriptae
diffuse tra le lingue austronesiane), atraverso un protipo comune con il khmer.
Queste scritture comprendono un gran numero di tipizzazioni, ben al di là dei canoni grafici
delle lingue standard (thai e lao, tra loro abbastanza simmetrici ed interconvertibili), spesso diffuse
anche in gruppi oggi minoritari e marginali: cfr. ad es. l'interessante articolo di Michel Ferlus
(Les écritures thai du Vietnam, in "Cahiers de linguistique - Asie orientale"
XXXV (2006)2, pp. 209-39), che disegna la storia ed il sistema delle principali
varietà di thai, minoritarie ma scritte ed antiche, presenti in Vietnam: tay bianco, tay nero,
tay dèng, tay yo e lai pao.
[tav. 8]
Un esempio di scrittura thai standard tradizionale. Frontespizio ed inizio di un classico
dizionaro thai (siamese): Samuel G. McFarland - George Bradley McFarland An
English-Siamese Dictionary, Bangkok, America Presbyterian Mission Press, 1903,
quarta edizione.
Altrettanto sfrangiata è la situazione delle scriptae
del territorio laotiano, dove al laos standard si affiancano cinque varietà minori:
tham, 'tay lü, youon, 'tay newa e 'tay deng (cfr. Pierre-Bernard Lafont,
Les écritures 'tay du Laos in "Bulletin de l'École française d'Extrême-Orient"
L (1962)2 367-393); tutte usate anche anticamente oltre che per le varietà locali
anche per scrivere i testi sacri sanscriti in pali (cfr. Pierre-Bernard Lafont,
Les écritures du pâli au Laos in "Bulletin de l'École française d'Extrême-Orient"
L (1962)2 395-405).
[tav. 9]
Esempi di scrittura lao standard tradizionale, tratti da un classico
manualetto lao di epoca coloniale, uno dei primi apparsi in Occidente: Dr. Estrade,
Dictionnaire et guide franco-laotiens. Prononciation en français avec signes conventionnels,
transcription de tous les termes en caractères laotiens. Manuel de conversation,
[s. l. et ed.], 1895, seconda edizione. A sinistra il frontespizio, a destra tre esempi
in caratteri, trascrizione e traduzione tratti dalla medesima opera; se ne gusti il sapore
locale e d'antàn (sono frasi da pratico manualetto di conversazione ...).
È comunqe a partire dalla fine degli anni Settanta
che si dispone di una valida ricostruzione del proto-tai (Li Fang-kuei, A Handbook
of Comparative Tai, University of Hawaii Press, 1977).
Nel 1940 Paul Benedict scoprì che alcune lingue ritenute irrelate dei confini centromeridionali della Cina (gelao, laqua e lati) ed una dell'isola di Hainan erano invece tra loro relate in un gruppo che chiamò kadai (componendo i termini per 'uomo' in alcune di quelle lingue), che nel 1942 collegò alla stessa famiglia del thai. L'anno dopo Li Fang-Kuei individuò un altro gruppo di lingue nella Cina del Sud, che chiamò kam-sui (in base ai nomi di due lingue del gruppo), e stabilì che erano una famiglia affiliata sullo stesso piano di quella del thai, per la quale introdusse il termine di kam-tai. Dagli anni Quaranta ad ora si è progredito moltissimo nello studio di queste lingue, ma i capisaldi dell'ipotesi genealogica sono rimasti validi, con l'unica eccezione che non si pensa più che le lingue che Benedict raggruppava nel suo "kadai" costituiscano un gruppo autonomo (anzi, sono rami indipenenti da kam-sui e daico), e si è usato il termine "kadai" per l'intiera famiglia.
[tav. 10]
La classificazione delle lingue kadai, con particolare attenzione alle lingue
"extra-tai": rappresentazione arborescente e dati geografico-demografici (aggiornati
al 1982) in base a Comparative Kadai: Linguistic Studies beyond Tai, edited
by Jerold A. Edmondson and David B. Solnit, Dallas - Arlington, Summer Institute
of Linguistics - University of Texas at Arlington, 1988. Mi discosto da Edmondson
& Solnit solo nel preferire come nome per la famiglia che comprende il "thai" (con
la acca) anziché "tai" (senza la acca), più corretto ma poco perspicuo, il meno
accurato ma più chiaro "daico". Ho fornito i dati più completi a mia disposizione
sulle lingue "extra-tai" per rendere possibile una valutazione oggettiva di che
cosa di solito si intende per "lingue minori" nel Sudest asiatico (confrontate
ad esempio i dati demografici con quelli dell'area "paleosiberiana" ...).
È prevedibile comunque che vi saranno presto nuovi progressi: tutte le lingue
"extra-tai", come talora vengono chiamate, sono lingue orali (con l'eccezione
del sui, che ha una propria, problematica, scrittura a base di caratteri siniformi, usata
prevalentemente per scopi segreti o rituali), a volte di culture
relativamente "primitive", e spesso ancora bisognose di descrizione. Accanto alla
maggioranza di lingue orali, va comunque ricordato che fanno contraltare lingue
come il thai ed il lao che hanno una tradizione letteraria antica ed illustre e, soprattutto,
circostanza assai favorevole per i linguisti, non usano scritture logografiche alla cinese.
La famiglia austroasiatica o
macro-mon-khmer è un vasto raggruppamento di lingue
(169 secondo il più recente inventario di Éthnologue)
che si estende su un territorio molto ampio ma eminentemente discontinuo: dalla
maggior parte di Laos, Vietnam e Cambogia alla Malesia, alla Birmania, alla Cina
Meridionale ed all'India. I principali gruppi che ne fanno parte sono le grandi
famiglie (chiaramente relate) khmer, con il khmer classico e moderno
(prestigiosa ed antica lingua letteraria, con un complicato sillabario derivato
dalla brahmi, oggi "lingua nazionale" in Cambogia), e viet con il vietnamita
(altra antica lingua letteraria, oggi "lingua nazionale" appunto del Vietnam, che
con 69 milioni di parlanti è la quattordicesima lingua del mondo), più alcune famiglie "
minori" (non per numero di lingue, ma perché più recentemente studiati o prive di
varietà culturali di riferimento) come le bahnaric (Laos S, Cambogia E, Vietnam
SW), katu (Laos C, Vietnam CW), khmu (Laos) e palaung (Birmania
NE, Cina SW, Laos W, Thailandia NW); le lingue mon parlate in Birmania
meridionale e Thailandia centrale, con il mon classico e moderno (altra
lingua letteraria dalla ricca storia, oggi geograficamente isolata, scritta oggi nello stesso
sistema sillabico del birmano; sulla lingua mon si può anche vedere un interessante sito
dell'Albany University);
il khasi un gruppo di dialetti parlato da c. 480.000 persone in India, nello stato di
Meghalaya, a Nord del confine con il Bangladesh (cui vanno aggiunti 50.000 parlanti
nel limitrofo Bangladesh: dati del 1961; cfr. Kamil Zvelebil, The Languages of South Asia. A Guide, London - Boston -
Melbourne - Henley, Routledge & Kegan, 1982, pp. 178-180); le lingue nicobaresi,
sei lingue tra cui il car, o nicobarese settentrionale, scritto in alfabeto
latino, con c. 30.000 parlanti complessivi parlate nell'arcipelago Nicobar (Oceano indiano,
politicamente territorio dell'India); le lingue asli nel sud della Malesia (dal
malese orang asli 'uomo originario', cioè aborigeno); le lingue munda,
una ventina di lingue parlate da c. 9 milioni di persone nell'India centro-orientale e nel Bangladesh.
[tav. 11]
La distribuzione geografica e la classificazione dei vari gruppi oggi comunemente
accettati come parte della famiglia austroasiatica. Dall'articolo di Gerard Diffloth
(1997) sull'Encyclopaedia Britannica.
La ricostruzione del proto-mon-khmer, a differenza del proto-kadai,
ha seguito un progresso costante e relativamente tranquillo, che parte da un lato
dall'individuazione di un mumero di gruppi "sicuri" (il cui numero è venuto crescendo e la cui
articolazione interna è venuta definendosi man mano che lingue nuove venivano scoperte e descritte) e
dall'altro da un'ipotesi iniziale ardita ma ben sostanziata che connetteva, centralmente, le lingue
mon-khmer dell'Indocina con le lingue munda dell'India in una sola famiglia, formulata dall'antropologo
Wilhelm Schmidt (1868-1954) in tre lavori éditi tra il 1904 ed il 1907 (noi ci riferiremo
soprattutto a Die mon-khmer Völker, eine Bindeglid zwischen Völkern Zentralasiens und
Austronesiens, Braunschweig, Friedrich Vieweg und Sohn, 1906). La famiglia fu battezzata
austroasiatica (cioè 'australe dell'Asia continentale') per appaiarla alla
austronesiana (cioè 'australe delle isole (greco nêsos)'): la
seconda parte della proposta di Schmidt era, infatti, che le due famiglie fossero
remotamente relate in un austrico comune.
Nella prima parte della sua proposta la storia della ricerca gli ha accordato
praticamente da sùbito in grandissima parte ragione:
delle sette componenti (cfr. la tavola seguente) che aveva preso in considerazione, solo una
è stata completamente scartata (il suo gruppo 1 "misto": le lingue cham si sono definitivamente
negli anni Sessanta dimostrate essere di base austronesiane, affini all’acehnese
del Nord di Sumatra, anche se fortemente khmerizzate), altre sono state riarticolate
diversamente al loro interno (ad esempio il suo gruppo 2 "mon-khmer") o riformulate
nei loro rapporti con le altre (ad esempio il suo gruppo 3, le lingue asli, ed il 6,
le lingue nicobaresi), altri gruppi ancora sono stati aggiunti in séguito in quanto
scoperti e definiti solo di recente (ad esempio il gruppetto delle due lingue pakan da poco
identificato nel Sud della Cina, nello Yunnan SE), ed alcune lingue, infine, sono state spostate di
raggrupamento (ad esempio il lamet del Laos occidentale considerato khmu
(e quindi per Schmidt "khmer") e non palaung. La ricostruzione linguistica del
proto-austroasiatico ha anzi ormai raggiunto una buona affidabilità, coronata dal
grande lavoro postumo di Harry Shorto (1919-1995) A Mon-Khmer Comparative Dictionary,
main editor Paul Sidwell, assistant editors Doug Cooper and Christian Bauer, Australian
National University, 2006 "Pacific Linguistics" 579.
[tav. 12]
La classificazione dei gruppi primari e la ricostruzione della unità austroasiatica
da Schmidt 1906 a Diffolth 2005. In nero, al centro, sono i gruppi primari; in verde
a sinistra è la classificazione standard negli ultimi decenni del Novecento;
in blu all'estrema sinistra sono invece gli originari 7 gruppi di Schmidt 1906 (non è
rappresentata per impossibilità grafica l'appartenenza del mon al gruppo 2 "mon-khmer";
in rosso a destra, infine, quella recentissima proposta da Gérard Diffloth, al cui
interno è ancora incerta la posizione del pear (Gérard Diffloth, The Contribution
of Linguistic Palaeontology to the Homeland of Austroasiatic, in The Peopling
of East Asia: Putting Together the Archaeology, Linguistics and Genetics, edited by
Laurent Sagart, Roger Blench and Alicha Sanchez-Mazas, London, Routledge - Curzon, 2005,
pp. 67-80; e cfr. George van Driem, Austroasiatic Philogeny
and the Austroasiatic Homeland in Light of Recent Population Genetic Studies,
in "Mon-Khmer Studies" XXXVII (2007) 1-14. Diamo il nome tanto dei gruppi primari
quanto dei raggruppamenti con il tema puro, senza il suffisso derivativo (che in
inglese è sempre -ic > italiano -ico, tranne -ese per il
nicobarese ed il vietnamita, e -an per l'aslico ed il
khasico), normalmente sempre usato tranne che per le lingue munda.
Per la seconda parte della proposta di Schmidt, la parentela
austroasiatico-austronesiana, una vera dimostrazione (se mai sarà possibile) è ancora molto
lontana, anche se la sua connessione austrica appare certo più promettente e meno
inverosimile di quella daico-austronesiana proposta da Benedict.
Tutto, infatti, fa pensare che la storia del SE asiatico sia pluristratificata e complessa,
dato che i dati etnico-genetici e quelli linguistici non coincidono. Già considerando
le sole popolazioni che oggi parlano lingue autroasiatiche abbiamo a che fare con almeno
tre etnie diverse, anche solo guardando le caratteristiche morfologico-somatiche
macroscopiche della antropologia tradizionale (ché la genetica moderna in queste aree
fatica a raggiungere una piena compiutezza per problemi nella raccolta dei dati genici): (1) orientali,
(2) indiani e (3) negritos.
Se la morfologia umana prevalente, comune a quasi tutte le popolazioni parlanti lingue mon-khmer e khasi-khmu, è certamente quella (1) di tipo orientale, simile al "cinese", cui tutti siamo abituati, più limitata e residuale ma abbastanza sorprendente è la presenza (3) dei cosiddetti negritos, caratterizzati somaticamente da pelle scura, capelli ricci ed in genere bassa statura (tanto che sono stati accostati dai primi etnografi ai pigmei d'Africa) e culturalmente da una economia di pura sussistenza (sono nomadici e/o dediti alla sola caccia-pesca e raccolta). Tali gruppi (di cui abbiamo parlato a proposito dell' austronesiano), prescindendo dalla lingua, nell'area austroasiatica sono limitati alla penisola malese, ma ne sono note enclaves anche nelle parti più interne e scarsamente accessibili delle Filippine, in cui pure è maggioritario il tipo orientale; popolazioni in parte simili, poi, costituiscono naturalmente la maggioranza in Papua e nella Melanesia. Da notare inoltre che nelle Isole Andamane (territorio indiano nell'Oceano Indiano tra l'India e la Malesia) la popolazione indigena è costituita anche qui da negritos, che però non parlano lingue austronesiane od austrosiatiche ma bensì delle lingue isolate ed irrelate ad ogni altra famiglia nota (cfr. più diffusamente oltre). Il gruppo malese meridionale che più direttamente ci interessa corrisponde comunque grossomodo alle lingue asli (asli in malese vale 'dell'origine, originario'). E dico "grossomodo" perché non tutte le lingue asli sono parlate da negritos, e per contro alcuni negritos dell'area parlano dialetti malesi (e quindi austronesiani); tradizionalmente, infatti, si distinguono tre gruppi di asli, i semang, cioè i negritos veri e propri, stanziati prevalentemente a nord, i senoi, arrivati in un secondo tempo e stanziati nel centro, ed i melayu asli, stanziati più più a sud ed ormai "malesizzati"; in realtà l'etnogenesi di questi gruppi è più complessa ancora (Cfr. Alan G. Fix, Malayan Paleosociology: Implications for Patterns of Genetic Variation among the OrangAsli, in "American Anthropologist" XCVII (1995)2 313-323). Sono comunque popolazioni considerate dai malesi (parlanti malese, austronesiano) come aborigene (malese orang asli vale infatti 'uomini originari, aborigeni'). La natura (e posizione nel mon-khmer) delle lingue asli è peraltro assai peculiare ed è stata ben definita solo di recente (cfr. James A. Matisoff, Aslian: Mon-Khmer of the Malay Peninsula, in "Mon-Khmer Studies" XXXIII (2003) 1-58).
Affatto "indiana", poi, è la morfosomatica dei (2) parlanti le lingue
munda (/nd/ sono retroflessi ed /a/ è lunga: nella trascrizione scientifica
i primi sono resi con il punto sottoscritto, la seconda con il macron; per evitare
codifiche problematiche con browsers vecchi, possiamo qui traslitterare /mun,d,â/).
Linguisticamente questa famiglia dell'India centrale era stata riconosciuta gia
nel 1857 dal glottologo Max Müller (1823-1900); prima le lingue munda erano state prese per
dravidiche, cosa comprensibile dato che sono fittamente intrecciate negli stessi
territori delle lingue dravidiche centrali e che etnologicamente i loro parlanti
sono affatto simili a quelli delle lingue dravidiche dell'area.
La presenza, inoltre, in entrambi i gruppi (quali che siano le loro relazioni, che
sicuramente predatano la indoeuropeizzazione dell'India) di analoghe caratteristiche tipiche
dello Sprachbund indiano (e non quelle "indocinesi" medie) li rendono superficialmente
assai simili: assenza di toni, armonia vocalica, abbondanza di consonanti retroflesse,
morfologia fortemente agglutinante (con catene fino ad una dozzina di affissi), quasi polisintetica;
per una caratterizzazione generale di queste lingue (e per la ricostruzione del proto-munda)
cfr. Gregory D. S. Anderson, Advances in Proto-Munda Reconstruction, in
"Mon-Khmer Studies" XXXIV (2004) 159-184, e qui infra.
Le lingue munda attualmente conosciute (alcune minuscole lingue
tribali, parengi, bonda (bon,d,a) e didey (d,id,ey), sono state
scoperte ancora negli anni Sessanta nell'estremità meridionale del Karaput) sono
circa una decina e, globalmente, hanno circa sei milioni e mezzo di parlanti. «Socially
and economically, the Munda languages are among the most backward in India. They live
on hill-tops and in forests, surrounded by the Indo-Aryan speaking population
occupaying the plains» (Kamil Zvelebil, 1982 cit., p. 170-1). La lingua più cospicua
del gruppo è il santali (santâlî), con circa 3,7 milioni di parlanti (nessuna
delle altre raggiunge il milione). Nessuna lingua ha sviluppato uno standard scritto.
[tav. 13]
Le lingua munda nell'India centro-orientale, immerse tra lingue indoarie e dravidiche
centrali. Adattato da Kamil Zvelebil, The Languages of South Asia.
A Guide, London - Boston - Melbourne - Henley, Routledge & Kegan, 1982, p. 231.
Culturalmente, poi, è però da notare che a fronte delle molte lingue
"primitive", minoritarie, difficilmente raggiungibili o sottodescritte, vi sono anche
lingue austroasiatiche scritte e dotate di grande tradizione letteraria, tra cui soprattutto le due
lingue oggi nazionali di Cambogia e Vietnam, lo khmer ed il vietnamita.
La storia della scrittura khmer è paradigmatica per l'area, in quanto di derivazione
brahmi-pallava (cfr. la tavola
finale del § 1.6) come tipico nel Sudest asiatico, dalla Birmania alle Filippine (e cfr.
quanto abbiamo detto a proposito delle scriptae
diffuse tra le lingue austronesiane); la scripta khmer antica, anzi, è l'intermediario
tra il canone pallava originario e quasi tutte le tipizzazioni diffuse in Indocina
continentale, mon e cham (Austronesiano) escluse, come si diceva poc'anzi a proposito
La fondazione da parte di Jayavarman II dell'impero khmer di Angkor, massima espressione
politica di questa cultura e lingua, è del 802 d.c. (e durò fino al 1431).
[tav. 14]
Una veduta delle rovine di Angkor-Vat, la famosa capitale dell'impero khmer, così
come apparivano all'attonito viaggiatore all'inizio del secolo scorso. Da Etienne Aymonier, La Cambodge,
III. Le groupe d'Angkor et l'histoire, Paris, Ernest Leroux Éditeur, 1904.
Vi sono
testimonianze epigrafiche anche pre-angkoriane (perlopiù in lingua pali indiano), fin dal
secolo VIII, durante il precedente regno di Chen-la; e la scrittura khmer moderna è
la diretta continuazione di quella antica.
[tav. 15ab]
La scrittura khmer. (a) Un esempio di scrittura khmer moderna: un provebio khmer raccolto e messo
online
dal Khmer Institute; i proverbi sono un "genere" tradizionale cambogiano, cfr. anche
per fasi più antiche Pannetier, Sentences et proverbes cambodgiens, in "Bulletin
de l'École française d'Extrême-Orient" XV(1915)3 47-71. (b) Un esempio di scrittura khmer
epigrafica di epoca classica: iscrizione su un cippo di confine trovata a My~hu'ng
(Bình-phú, Vinh-long) e risalente ai secoli XI~XII d.C.; da Henri Parmentier, Borne
inscrite de My-hu'ng, in "Bulletin de l'École française d'Extrême-Orient"" XX (19204) 1-2.
Analogo discorso vale per la lingua minoritaria mon, la cui scrittura
però rappresenta una variante della pallava indipendente dalla canonizzazione khmer, che
si identifica invece con quella del birmano, solamente con un ribaltamento del riferimento:
fu la variante mon epigrafica della brahmi-pallava ad essere in passato assunta come base
dal birmano, che poi oggi è invece diventato la varietà nazionale e standard, relegando
il mon ad un ruolo minoritario in Birmania e Thailandia.
[tav. 16]
Iscrizione mon del monastero di Vat Sen Khao Ho, nei dintorni di Lampun, l'antica Haribuñjay,
in Thailandia. Da R. Halliday - Jeanne Wilkin, Les inscriptions môn du Siam,
éditées et traduites, in "Bulletin de l'École française d'Extrême-Orient" XXX (1930) 81-105.
Divergente è invece la storia della scrittura vietnamita.
Fino all'inizio del secolo scorso erano in uso i "normali" caratteri cinesi (la cosiddetta
chu~’ nho 'scrittura dei dotti' o chu~’ Hán 'scrittura cinese' tout court), od
una variante siniforme nota come chu~’ nôm 'scrittura demotica' o 'del Sud'
(per questa ultima interessante scripta cfr. Nguyê~n Phú Phong, À propos di Nôm,
écriture démotique Vietnamienne, in "Cahiers de linguistique - Asie orientale" IV
(1978) 43-55). Dal 1910, però è entrato in uso ufficialmente una scripta latinica
che rappresenta toni e registri
con un complesso sistema di diacritici (qui per comodo
di visualizzazione web translitterati di séguito anziché sopra la vocale) cui è stato dato
il nome di (chu~’) quô'c-ngu~’ '(scrittura del) linguaggio nazionale' (cfr.
Nguyê~n Ðình-Hoà, Vietnamese, in The World's Writing Systems, edited
by Peter T. Daniels and William Bright, New York - Oxford, Oxford University Press,
1996, pp. 691-695+699); tale ingegnoso sistema era stato inventato duecentocinquant'anni
prima dal gesuita francese Alexandre de Rhodes (1591-1660).
[tav. 17]
Un esempio di scrittura vietnamita moderna: l'inizio di un classico della storiografia
vietnamita, Tran Trong Kim, Viet Nam Su Luoc (Outline History of Vietnam),
Trung Tam Hoc Lieu Xuat Ban, 1919.
Linguisticamente, infatti, le caratteristiche tipiche delle lingue mon-khmer
appaiono abbastanza definite e diverse dal quadro delle lingue kadai e
miao-yao da una parte, delle sino-tibetane da un'altra parte e delle austronesiane
dall'altra ancora. A differenza di kadai, miao-yao e di buona parte del sino-tibetano,
le lingue mon-khmer non sono infatti lingue tonali,
con le eccezioni del vietnamita, dello khmu e di poche altre, la cui tonogenesi è
secondaria ed i cui meccanismi sono comunque noti (per il vietnamita da più di mezzo
secolo, cfr. André-Georges Haudricourt, De l'origine des tons en vietnamien, in "Journal
Asiatique" CCXLII (1954) 69-82; per le varietà khmu più di recente, cfr. Premsirat Suwilai,
Register Complex and Tonogenesis in Khmu Dialects, in "Mon-Khmer Studies"
XXXIV (2004) 1-17).
Invece del "tono lessicale" hanno sviluppato e/o ereditato un complesso
sistema di qualità glottaliche che nella linguistica khmer sono di solito chiamate
registri e che sono note, fuori dal contesto autroasiatico,
anche in poche lingue tibeto-birmane, quali il più volte menzionato bái o
minchia, ed in poche
austronesiane (come nel fortemente khmerizzato cham orientale, cfr. Marc Brunelle,
Register and Tone in Eastern Cham: Evidence from a Word Game, in "Mon-Khmer Studies"
XXXV (2005) 121-131). In genere per registro si intende in austronesianistica
una serie vocalica distinta fonologicamente da un'altra per un diverso modo di fonazione,
cioè per un diverso comportamento della glottide (inglese voice = italiano
sonorità). Diverse configurazioni delle corde vocaliche cui siamo normalmente abituati
sono la sonorità
(vibrazione) e la sordità
(assenza di vibrazione), sole presenti in italiano standard, cui possiamo aggiungere
la tensione, variabile in qualche dialetto od italiano regionale, e la
aspirazione, presente ad esempio in inglese
e di nuovo in qualche variante regionale d'Italia. Non siamo però abituati ad associare queste
modalità laringali alle vocali, in quanto in italiamo abbiamo fonologicamente (foneticamente
è un altro discorso) solo vocali sonore; alcune lingue però possono però opporre
anche fonologicamente una serie di vocali foneticamente sorde ad una sonora,
come ad esempio avviene nel Nordeuropa per molte lingue lapponi od in Nordamerica per il
comanche (una lingua utoazteca originariamente diffusa in New Mexico, S Colorado,
NE Arizona, S Kansas, Oklahoma, NW Texas). Teoricamente, almeno, il principio ordinativo
è il medesimo dei registri in cui sono organizzati i sistemi vocalici (di solito
piuttosto ricchi) delle lingue mon-khmer, in cui però le "qualità vocaliche" sono
più complesse e di difficile definizione: spesso vi entrano le modalità della voce
sospirata o mormorata
(inglese breathy: «it is sometimes [voce sospirata] made with the vocal folds
fairly far apart, so that it sounds like a voice produced while sighing. It is as
if the vocal folds were flapping in the breeze, as ine phonetician has put it.
At other times [voce mormorata] the vocal folds are only slightly further apart than in
ordinary voice, producing a kind of murmured sound», Peter Ladefoged, Vowels and
Consonants: an Introduction to the Sounds of Languages, Second edition, Malden -
Oxford - Carlton, Blackwell, 2005, p. 140), quelle della voce
cricchiata,
(inglese creaky: «the vocal folds are held more tightly together than in regular
voicing. [...] It is difficult to see the vocal folds during creaky voice, as there
is a great deal of constriction, not only at the larynx, but also in the part of the
vocal tract immediately above it. The vocal folds are pressed together, and only a
short length of them vibrates», Ladefoged cit. p. 143; a volte, a seconda delle tradizioni,
il "cricchiato" è chiamato laringalizzato o glottidalizzato), o qualità
impressionisticamente definite come voce chiara o scura. Di solito nelle
lingue Mon-Khmer si trovano due registri, definiti dall'opposizione tra "voce chiara" e "voce mormorata"
(scura) e/o tra "voce chiara" e "voce cricchiata" (scura). Se il primo tipo di opposizione appare
relativamente recente e sviluppato poligeneticamente per riduzione del consonantismo iniziale (cfr. Michel Ferlus,
Formation des registres et mutations consonantiques dans les langues Mon-Khmer,
in "Mon-Khmer Studies" VII (1979) 1-76) il primo sembra originario e caratterizzante già
il proto-austrosiatico: «Proto-Austroasiativa had a two way contrast between creaky
voice and clear voice in the vewels of major syllables. This contrast would not be
predictable from the quality and legth of the vowels, or from the nature of neighboring
consonants. In other words, Proto-Austroasiatic was already a register language. The
evidence shows that such a contrast, or phoneritic modification of it, existed in
Proto-Katuic, Proto-Pearic, and Proto-Vietic. Proto-Munda is also reconstructed
by N. Zide (1976; 1986) as having glottalised vs. plain vowels, irrespective of
final consoonants. [...] This older creaky vs. clear register is historically unrelated
to the breathy vs. clear register sistems which developed later on, and independently,
in Monic, Lamet, Waic, Khmeric and much of Katuic (due to devoicing of initials),
and in Pacoh and most of North Bahnaric (due to vowel quality shifts) [...], Pearic
is unique in cumulating both kinds of register systems» (Gérard Diffloth, Proto-Austroasiatic
Creaky Voice, in "Mon-Khmer Studies" XV (1986) 139-154).
Nonostante monosillabismo e caratteristiche isolanti siano abbastanza diffusi per influsso
daico e sinotibetano, le lingue mon-khmer sono mediamente "sesquisillabiche"
(cioè con parole di una sillaba e mezza) o bisillabiche, spesso francamente agglutinanti
e con una ricca morfologia, che in munda raggiunge il massimo della complessità,
sfiorando il polisintetico:
[tav. 18]
La struttura di parola delle lingue munda: templates dei verbi (V, che manifestano
il massimo grado di complessità) e dei nomi (N, più ridotti) da Gregory D. S. Anderson,
Advances in Proto-Munda Reconstruction, in "Mon-Khmer Studies" XXXIV (2004) 159-184 (con
ricca bibliografia), p. 178.
Le lingue dravidiche costituiscono una specificità del subcontinente
indiano: fuori dell'India sono rappresentate solo in Sri Lanka (tamil) ed
in Pakistan (brahui), ma in India sono seconde per numero di parlanti solo
alle lingue indoarie.
Oggi il loro centro è nel Sud dell'India, dove si trovano le quattro grandi lingue
ufficiali.
Il tamil (in traslitterazione accurata la elle andrebbe sottolineata, in quanto
è una laterale fricativa anziché approssimante) nello stato di Tamil Nadu ed in Sri
Lanka, con i suoi 61 milioni circa di parlanti, almeno due millenni di storia
ed una ricchissima e prestigiosa letteratura, è la più importante. Ma non meno antiche
ed importanti sono il malayalam (malayâl,am) nello stato di Kerala, con 34
milioni, derivato dal "tamil antico" allo stesso modo del tamil moderno alla fine
del X secolo d.C., il kannada (kannad,a) o kanarese nello stato di Karnataka,
con c. 37 milioni di parlanti ed una letteratura che risale al X secolo d.C., ed
il telugu nello stato di Andhra Pradesh e zone limitrofe, con c. 62 milioni,
attestato a partire dall'XI secolo d.C. e con una fiorente letteratura sia antica
sia moderna.
[tav. 19]
Le lingue dravidiche nel Sud dell'India (le grandi lingue letterarie e di cultura:
tamil, telugu, kannada, malayalam), nel centro dell'India (le lingue minori: cfr.
più in dettaglio la mappa delle lingue munda,
con le quali sono inestricabilmente intrecciate), ed in Pakistan (brahui).
Adattato da Kamil Zvelebil, The Languages of South Asia. A Guide,
London - Boston - Melbourne - Henley, Routledge & Kegan, 1982, p. 231.
L'articolazione della famiglia è abbastanza chiara: ad un gruppo S,
compatto sincronicamente e storicamente (la sola lingua non letteraria, oltre alle 4
lingue nazionali, è il tulu, c. 1 milione di parlanti nello stato di Mysore)
si contrappone un gruppo C, fortemente ridotto e sfaldato, commisto a lingue
munda, evidentemente residuale (sono 11 lingue, tutte orali, ripartibili in tre gruppi,
di ognuno dei quali cito almeno una lingua rappresentativa: CW,
con il gondi (gôn,d,î), che con i suoi 3 milioni di parlanti sparsi tra
Madhya Pradesh e Maharshtra, è la più grande; CS, con il
parji (parjî), c. 44.000; E con il malto,
c. 90.000 nello stato di Bihar) ed un ancor più residuale gruppo N, con l'isolato
brahui (brâhûî), parlato da c. 500.000 semi-nomadi nelle regioni montagnose
del Baluchistan in Pakistan.
Storicamente, non v'è dubbio che le lingue dravidiche predatino in India l'ingresso delle lingue indoarie, dalle quali sono state soppiantate nel Nord ed erose nel Centro, attestandosi nel Sud. Dubbio è invece che siano davvero lo strato più nativo dell'India (un altro gruppo, in effetti, che sembra essere stato eroso tanto dall'indoario quanto dal dravidico, è quello delle lingue munda). Tentativamente, al dravidico sono state ricondotte le lingue di alcune antiche civiltà scomparse del Medio Oriente come quella della cultura della valle dell'Indo (Harappa e Mohenjodaro), tuttora non decifrata (ma con una distribuzione dei grafemi tale da fare supporre una struttura morfologica simile a quella dravidica), il sumerico (con voli molto fantastici) e l'elamico: se questo fosse vero, farebbe propendere per una origine "settentrionale" anche per il dravidico, ma, appunto, al momento attuale sarebbe costruire castelli sulla sabbia. Più probante è il considerevole numero di radici comuni tra dravidico ed indoeuropeo ed, ancor più, tra dravidico ed uralico, che (senza necessariamente volare subito a speculare di difficilmente dimostrabili macro-unità genealogiche) portano ad immaginare dei contatti avvenuti, plausibilmente, in un'area più a Nord dell'India.
La ricostruzione del protodravidico, infatti, ha raggiunto ormai
(soprattutto dopo i lavori di M. B. Emeneau) un notevole grado di perfezionamento
(sono disponibili grammatiche e dizionari ricostruiti), e la monofileticità del
gruppo non è mai stata realmente messa in discussione. Semmai la tendenza è sempre
stata quella di cercare legami genealogici con altri gruppi, spesso sconfinando
nell'implausibile (ad es. giapponese) o nel fantastico (basco, of course, ecc.).
Nonostante l'elevato numero di prestiti ed influssi da parte del sanscrito, la struttura
grammaticale delle lingue dravidiche è infatti abbastanza uniforme e caratteristica, cosa
che ne facilita la comparazione: struttura sillabica semplice, assenza di toni, presenza
di retroflesse (la cui diffusione in tutte le lingue dell'India è probabilmente da
imputare proprio al dravidico) tra cui una fricativa laterale, scarse tracce di armonia
vocalica (influsso munda?); morfologia fortemente agglutinante; sintassi SOV abbastanza
rigida.
Dal panorama che abbiamo tracciato restano fuori ancora poche
lingue isolate.
Si tratta prevalentemente di due lingue estinte del Medio-Oriente antico. La prima
è il sumerico (di cui abbiamo già ogni tanto parlato, in quanto è la
cultura più antica a noi nota ad aver fatto uso della scrittura), usato tra il 3.200
ed il 1950 c. (inizio dell'era antico babilonese; il sumerico continua in realtà
ad essere scritto anche in seguito, come lingua morta, culturale). Il sumerico
è la cultura seminale di tutto il Vicino oriente antico (un po' come la cultura
olmeca nella Mesoamerica e quella greca nel nostro Occidente classico), ed il suo
influsso si protrarrà ben oltre la sua scomparsa.
L'altra, l'elamico, è la lingua di una civilizzazione durata quasi tre millenni
nell'Iran centromeridionale, il cui impero aveva capitale a Susa. In realtà dovremmo più correttamente
parlare di due lingue, un protoelamico (c. 3.000-2.000 a.C.) tuttora non decifrato,
ed un successivo medio-elamico (XIII - VII secolo a.C.), in scrittura cuneiforme,
sostanzialmente continuato dal neo-elamico di epoca achemenide (VI-IV sec. d.C.).
L'elamico proprio riusciamo abbastanza a leggerlo, forti anche della presenza di
bilingui, come la grande iscrizione trilingue (antico persiano - accadico - elamico)
di Dario I (521-486) a Bisutun.
A queste va aggiunta la lingua, non decifrata, della "scrittura dell'Indo",
espressione della cultura della valle dell'Indo, i cui centri principali erano
Harappa e Mohenjodaro (c. 3000 a.C. - 1800 a.C.).
[tav. 20]
I siti archeologici della cultura della valle dell'Indo. Adattato da Colin Renfrew,
Archeology and Language. The Puzzle of Indo-Europeans origins, London,
Jonathan Cape, 1987 (trad it. Archeologia e linguaggio, Roma - Bari, Laterza,
1989, p. 210.
L'unica lingua moderna, invece, di impossibile affiliazione è
il burushaski. Si tratta di una lingua assai singolare, isolata in
una zona montagnosa e poco accessibile del Kashmir pakistano (Karakorum occidentale),
e con circa 40.000 parlanti (la sua collocazione geografica è indicata
a margine della cartina delle lingue jeniseiane).
Nonostante sia stata molto studiata, a partire dai
classici studi di D. L. R. Lorimer (1876-1962), continua a porre seri problemi
descrittivi, ed a resistere ai tentativi anche dei comparativisti più spregiudicati.
Avevamo già più volte accennato, soprattuto parlando dei cosiddetti
negritos (cfr. nel paragrafo dedicato alle lingue austronesiane),
alla presenza di popolazioni che, per ragioni archeologiche e genetiche, possiamo
connettere ad una colonizzazione pre-neolitica dell'Asia, e che v'è chi pensa possano
addirittura risalire al Pleistocene. In realtà già la antropologia morfologica di era
pre-genetica aveva nutrito sospetti a riguardo, essendo tutte queste popolazioni
accomunate da un tratto "non-orientale" cui la mentalità occidentale era particolarmente sensibile
(si fa per dire...): sono tutte di pelle nera. La realtà è ovviamente molto più complessa,
e bisogna distinguere varietà "etnomorfologiche" distinte: i (1')
negritos propri, appunto,
di cui gli (1'') andamani
sono una varietà speciale, (2) i vedda
di Ceylon, le popolazioni (3) aborigine di
Papua (che non costituiscono
però un gruppo omogeneo né geneticamente né linguisticamente) e quelle (4)
dell'Australia (che invece lo costituiscono certamente
dal punto di vista genico e probabilmente linguistico).
Dei (2) vedda di Ceylon, ben poco si può dire,
essendo ormai completamente estinti: parlavano, comunque, singalese, cioè la lingua
indoaria della comunità cui si sono assimilati. Ed analoghi gruppi "selvaggi" sappiamo
che sono esistiti nell'India centrale. Gli antropologi ottocenteschi che ancora ne
potevano avere osservazione diretta, comunque, li distinguevano nettamente dai negritos.
Quanto ai (1'') negritos, l'ultima e più
irriducibile frontiera della diversità linguistica e genealogica si trova, probabilmente,
in un piccolo gruppo di isole, sperdute nell'Oceano Indiano, appena più a settentrione delle isole Nicobaresi (di cui parlammo a
proposito dell'austroasiatico):
le isole Andamane, che a questo isolamento (purtroppo oggi interrotto) devono certo la
conservazione fino a tempi recenti della loro alterità linguistica e genetica.
L'arcipelago è costituito da un paio di centinaia di isole, ben protette da inaccessibili
barriere coralline, tra cui le quattro Andamane, la Settentrionale, la Centrale,
la Meridionale e (più separata, verso Sud) la Piccola costituiscono la ossatura
principale, contornate da una moltitudine di isole minori, arcipelaghi e barriere coralline.
Note a geografi e navigatori fin da tempi antichi, ma di solito evitate per le insidiose
barriere e la fama di ostilità dei loro abitanti, solo nel 1879 divennero possedimento inglese,
con lo stabilimento una colonia penale (quella, tra l'altro, da cui muove la trama
dell'indimenticabile Sign of Four di sir Arthur Conan Doyle (1859 - 1930), il secondo (1890)
romanzo con Sherlock Holmes) e con l'avviamento di un progressivo ma sistematico
sterminio degli aborigeni (soprattutto con la deliberata introduzione di alcool ed oppio);
tranne una breve occupazione giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale, sono
politicamente diventate territorio indiano dal 1943, come le più meridionali Nicobaresi.
Cosa non ha potuto il colonialismo ha potuto poi il turismo, e gli aborigini oggi
resistono solo nell'estremità meridionale e nelle isole di Andamana Piccola e Sentinel
Settentrionale.
[tav. 21]
Le isole andamane (nomi in rosso) ed i territori originari delle lingue aborigene
(nomi in nero): adattata dalla mappa di Wikipedia EN (http://en.wikipedia.org/wiki/File:Andamanese_languages-map.jpg).
Delle lingue note, dieci appartenevano tutte ad un'unica famiglia
linguistica, la cosiddetta grande andamana; le restanti due (jarawa
ed onge, o più precisamente öñge) tutte nell'estremità
meridionale dell'arcipelago, sono chiaramente chiaramente relate tra loro in una famiglia andamana
meridionale, ma non paiono a loro volta relate con la famiglia settentrionale.
Alla famiglia meridionale sono state a volte affiliate (senza alcuna ragione linguistica)
una lingua estinta di Rutland, lo jangil, di cui si sa solo il nome, per mere ragioni
storico-geografiche, e la lingua sconosciuta di Sentinel Settentrionale (per ragioni
culturali oltre che geografiche).
Tutta la famiglia Grande Andamana si può considerare oggi praticamente estinta:
«By the latter part of the 20th century the majority of Great Andamanese languages
had become extinct, as the multi-lingual knowledge of the older generations was
not replaced in succeeding ones. At the start of the 21st century only about 50
or so individuals of Great Andamanese descent remained, resettled to a single small
island (Strait I.); about half of these speak what may be considered a modified
version (or creole) of Great Andamanese, based mainly on Aka-Jeru. This modified
version has been called "Present Great Andamanese" by some scholars, but also may
be referred to simply as "Jero" or "Great Andamanese"» (Wikipedia
EN, con bibliografia).
È, tra l'altro, recentissima la morte finale di Boa Sr e con lui dell'aka-bo; così ne ha dato il triste
annuncio l'Éthnologue:
«(February 2010) A language has died; a culture has died. This week, the last surviving
speaker of the Bo language of India’s Andaman Islands passed away».
Lingue ed etnie aborigine, invece, sopravvivono ancora nel Sud, «mainly
because of the greater isolation of the peoples who speak them. This isolation
has been reinforced by an outright hostility towards outsiders and extreme
reluctance to engage in contact with them by South Andamanese tribes, particularly
the Sentinelese and Jarawa. The Sentinelese have been so resistant that their language
remains entirely unknown to outsiders» (Wikipedia EN).
Anzi, gli aborigeni di Sentinel settentrionale sono probabilmente l'ultimo gruppo
"primitivo" che sia ancora riuscito a respingere del tutto i "civilizzati": nel
1976, ad esempio, hanno preso una troupe di antropologi a colpi di frecce, beccandone
uno, e nel 1981 una ciurma arenatasi si è salvata per miracolo; ed episodi simili
si sono susseguiti fino ad oggi, anche se nel 1991 hanno accettato un primo breve contatto;
anche i più "avvicinabili" jarawara mica scherzano, comunque: il primo contatto
che hanno accettato è avvenuto solo nel 1996, e tuttora prendono a frecciate
chiunque si avvicini ai loro territori. Tenete duro: il nostro cuore è con voi!!
I più conosciuti sono gli öñge, perché «sono stati i primi ad accettare che, a
partire dal 1952, soggiornasse a lungo nell'isola un antropologo, che ha fornito
un'eccellente e particolareggiata relazione sull'indagine svolta» (Luigi Luca
Cavalli-Sforza - Paolo Menozzi - Alberto Piazza, The History and Geography of
Human Genes, Princeton University Press, 1994; trad. it. Storia e geografia
dei geni umani, Milano, Adelphi, 1997, p. 400).
[tav. 22]
Classificazione delle lingue delle isole Andamane basata, ma con modifiche anche sostanziali,
sull'Éthnologue,
di cui si riportano anche (in turchese) i codici-lingua ed (in marrone) i dati dei parlanti (nella
forma numero-parlanti/numero-popolazione); tra tonde, Éthnologue style,
il numero di lingue di ogni gruppo. All'Éthnologue mancano tuttavia i dati sul
creolo "grande andamano", che riprendo dalla Wikipedia (EN), così come lo sconosciuto
jangil. Non sono invece altrimenti noti i dati dell'Éthlogue sui parlanti di a-pucikwar:
dato che la localizzazione è la stessa (Strait Isle) e che anche le cifre non sono troppo diverse,
sospetto che in realtà si tratti di dati da riferire al creolo di cui sopra, con cui sarebbero
stati scambiati. Dall'Éthnologue, infine, mi discosto nel non riunire in un unico
phylum le due famiglie, essendo, in base ai dati conosciuti, cosa assolutamente improponibile
(anche se spesso proposta da quei maniaci delle macrocomparazioni, che in linguistica
storica sono detti lumpers: il solito ineffabile Ruhlen, il peggiore di questa specie capitanata da Greenberg,
addirittura affilia l' "andamano" al tasmaniano (di cui in realtà non si sa praticamente nulla),
alle lingue papua (su cui cfr. supra)
ed australiane (su cui pure cfr. infra).
Pura follia, o piuttosto truffa...). Tra le follie da lumper voglio ricordare
(perché un po' diversa dalla solita solfa greenberghiana) anche la recente proposta
di Juliette Blevins che l'andamanese meridionale (Ongan) sia connesso con
l'austronesiano, scartando la connessione col grande andamano (cfr. Juliette Blevins,
A Long Lost Sister of Proto-Austronesian? Proto-Ongan, mother of Jarawa and Onge
of the Andaman Islands, in "Oceanic Linguistics" XLVI (2007) 154-198); al di là
dell'improbabilità storica, la critica che ne fa Blust è ineccepibile e metodologicamente
rilevante: «The results are not impressive. Although she claims to use the comparative
method in arriving at her results, the semantic comparisons are often very loose,
morpheme boundaries are supplied where they are convenient rather than when they are
justified, and ad hoc hypotheses of phonological change are invoked to make many comparisons
"work"» (Robert Blust, The Austronesian Languages,
Canberra, Australian National University - Research Shool of Pacific and Asian Studies,
2009 "Pacific Linguistics" 602, p. 708).
Geneticamente, gli aborigeni andamani hanno caratteristiche ancora più
speciali degli altri gruppi di negritos: «Gli Järawa e gli Önge hanno una fecondità
molto bassa, probabilmente dovuta all'estremo grado di inincrocio. Sono piccoli di
statura, hanno una pigmentazione molto scura e capelli molto crespi; le donne
presentano una steatopigia [cioè quel caratteristico culo grosso che avrete osservato
in numerose statuette femminili neolitiche: costituisce una sorta di "riserva" lipidica che,
in ambienti in cui la dieta è sempre a rischio, costituisce un vantaggio evolutivo]
piuttosto pronunciata. L'aspetto più interessante degli Andamanesi è che essi hanno
subito la mescolanza più bassa fra tutti i Negritos e potrebbero rappresentare la
testimonianza vivente del ponte umano forse esistito, 60.000 o 70.000 anni fa, tra
l'Africa e l'Australia. Secondo Pandit e Chattpadhayay (1991) i pochi dati genetici
disponibili (11 gruppi sanguigni e proteine enzimatiche), mostrano un'elevata omogeneità
genetica. Sarebbe molto importante eseguire un'indagine genetica completa di queste
popolazioni con tecniche moderne, in quanto sono probabilmente i gruppi più interessanti
tra i Negritos, sono meno mescolati e rischiano una rapida estinzione. La tendenza
all'omogeneità è conseguenza della forte deriva genetica ma, se venissero saggiati
molti geni di sistemi genetici altamente polimorfici, si potrebbe disporre di informazioni
utili per stabilire se queste popolazioni possono rappresentare l'anello mancante
tra Africa e Australia» (così ben riassumevano la questione Luigi Luca
Cavalli-Sforza - Paolo Menozzi - Alberto Piazza, The History and Geography of
Human Genes, Princeton University Press, 1994; trad. it. Storia e geografia
dei geni umani, Milano, Adelphi, 1997, p. 400).
Linguisticamente, inoltre, gli aborigeni andamani sono gli unici
negritos a non aver subito un cambio linguistico con altri gruppi linguistici noti
(di diffusione post-neolitica). Questo non significa, automaticamente, che conservino
la ipotetica "lingua originaria", potendo avere subito molteplici cambi linguistici
con altre lingue preistoriche a noi sconosciute (e la irriducibilità reciproca di öñge
e gran andamanese ne potrebbe essere una spia); ma comporta certo che rivestano
una specialissima importanza nella linguistica storica.
Nonostante l'interesse e la relativa abbondanza di materiali (editi ed inediti) per molte
delle lingue (soprattutto alcune "grandi" estinte e l'öñge), non pare che vi siano
molte opere descrittive recenti degne di nota (segnalo solo Anvita Abbi, Endangered Languages
of the Andaman Islands, München, Lincom Europa, 2006 "LINCOM Studies in Asian Linguistics" 64)
e molto spesso si ripetono solo (a volte senza dichiararlo) le vecchie ed indispensabili
descrizioni di Maurice Vidal Portman (1860-1935), il pioniere della linguistica andamana
(cfr. soprattutto Maurice Vidal Portman, A Manual of the Andamanese Languages, London,
W.H. Allen & Co., 1887, e Notes on the Languages of the South Andaman Group of Tribes,
Calcutta, Office of the Superintendent of Government Printing - India, 1894). Si tratta
di lingue basilarmente agglutinanti, con prefissi e suffissi. Famoso è soprattutto il sistema
di prefissi classificatori nominali basati sulle parti del corpo (ad es. i vari aka-,
oka-, a- ed akar- che trovate nei nomi delle lingue nella tavola precedente
sono il classificatore 'lingua'), e quello dei numerali, limitato a cinque unità.
[tav. 23]
Il sistema di numerali delle lingue andamane, così come riportato da Maurice Vidal Portman,
Notes on the Languages of the South Andaman Group of Tribes,
Calcutta, Office of the Superintendent of Government Printing - India, 1894, p. 91
(in alto), e modernizzato (in basso) da George Weber, The Andamanese Language Family.
A contribution to the centenary of M.V. Portman's work (II), 1998, articolo
web.
Vista la relativa attenzione che abbiamo prestato alle lingue austronesiane,
per esaurire in modo completo la nostra presentazione dell'Oceania (oltre che per qui completare
l'affresco della componente genica ritenuta arcaica e pre-neolitica in Oriente), abbiamo
già dovuto fare più di un accenno a (3) quelle lingue che sono
state definite semplicemente come non-austronesiane, o,
con etichetta puramente geografica, papua.
L'area di Papua (Nuova Guinea) è in effetti l'area con maggiore diversità linguistica
del mondo (fin superiore ai casi che avevamo già visto del Caucaso o dell'Oaxaca
nel Messico): vi sono infatti circa 750 lingue ancora parlate che non appartengono
ad altre famiglie note, più un numero più modesto di lingue austronesiane e di creole.
L'etichetta di "lingue papua", però, riflette solo (a) una nozione areale: le lingue
parlate nell'isola della Nuova Guinea (divisa tra due stati: la parte occidentale
è la provincia Irian Jaya dell'Indonesia, e la orientale è Papua New Guinea, stato
indipendente nell'àmbito del Commonwealth dal 1975, con capitale Port Moresby ed
una ventina di provincie) più le isole finitime della Melanesia, dalle Molucche
occidentali (da Halmahera fino a W a Timor, Alor e Pantar), alla Nuova
Britannia e Nuova Irlanda ed a parte delle Isole Solomone, inclusa Bougainville);
e (b) una nozione linguisticamente puramente negativa: non sono manifestamente
lingue austronesiane.
[tav. 24]
L'articolazione amministrativa della Nuova guinea, divisa a metà tra la provincia
indonesiana dell'Irian Jaya nella parte occidentale (ex colonia olandese) e lo stato
indipendente di Papua nella parte orientale (ex colonia britannica) e settentrionale
(ex colnia tedesca: l'allora rinominato Arcipelago Bismark, cioè la Nuova Irlanda
e la Nuova Britania). In maiuscolo le province (verde dell'Indonesia e rosso della
Nuova Guinea), in blu corsivo i toponimi, ed in nero condensato i capoluoghi. Basato su
William A. Foley, The Papuan Languages, Cambridge - London - New York - New Rochelle
- Melbourne - Sydney, 1986, pp. 6-7. Per la collocazione generale dell'isola di Papua nella
Melanesia cfr. anche le tavole 13 e
23 del capitolo
sull'austronesiano.
Dal punto di vista della linguistica, negli ultimi trent'anni
si è registrato un grande aumento di conoscenza, sia nel campo sincronico-descrittivo
che in quello storico-tassonomico, ma la situazione resta ancora non completamente definita.
Alla fine degli anni Ottanta secondo il calcolo (ipercauto) di Foley si erano potute
ricostruire con assoluta sicurezza solo una sessantina di piccole famiglie, perlopiù
tra loro irrelate, con un enorme numero di lingue isolate (cfr. William A. Foley,
The Papuan Languages, Cambridge - London - New York - New Rochelle - Melbourne -
Sydney, 1986, p. 3).
[tav. 25]
Le famiglie linguistiche più note, cospicue e stabili tra le molte sicuramente dimostrate
nella Nuova Guinea secondo Foley 1986. Adattato da William A. Foley, The Papuan Languages, Cambridge -
London - New York - New Rochelle - Melbourne - Sydney, 1986, pp. 230-231, rispetto
al quale abbiamo tagliato la famiglia Bougainville S, nella porzione meridionale
dell'isola Bougainville, per mere ragioni di spazio.
La sistemazione (forse un poco meno cauta di Foley ed ancora allo stato
di ipotesi fortemente indiziata ma non completamente dimostrata) oggi standard è quella
recentissima di Ross; l'ipotesi (basata sui paradigmi pronominali), comunque, è ben solida
(niente a che fare con il "fantacomparativismo" di Greenberg e sodali) e rimane
nei binari della ragionevolezza e dell'uso del metodo storico-comparativo, ed anzi
costituisce a mio parere un modello epistemologicamente esemplare. Questa ipotesi
prevede "solo" 23 (o 25) famiglie irrelate, e 9 (o 10) lingue isolate (cfr. Malcom
Ross, Pronouns as a Preliminary Diagnostic for Grouping Papuan Languages, in
Papuan Past: Cultural, Linguistic and Biological Histories of Papuan-Speaking Peoples,
edited by Andrew Pawley, Robert Attenborough, Jack Golson and Robin Hide, Canberra,
Pacific Linguistics: Research School of Pacific and Asian Studies - The Australian
National University, 2005 "Pacific Linguistics" 572, pp. 15-65). La forte "riduzione"
operata da Ross è stata possibile riunendo molte famiglie in una grande macro-famiglia,
la cosiddetta Trans New Guinea (l'etichetta riprende quella, abbastanza
fantastica, di una proposta anni '60-'70 di Stephen Wurm, ma ne è ben distinta), che
spazia da Timor alla Milne Bay della Nuova Guinea: anche se è, propriamente, ancora solo
una ipotesi priva di una ricostruzione completa della protolingua (e quindi di
una dimostrazione definitiva ed inequivocabile), pure è piuttosto convincente nonostante
la "profondità": «the caveat should also be offered that if the particular current hypothesis
about the initial dispersal of the TNG family is correct - that this was associated with
the spread of taro and banana cultivation (Denham 2005; Pawley 2005: 97-100) between
4000 and 8000 BC - we are left with a time-depth of from six to ten thousand years. The
earlier part of this range takes us back beyond the time-depth at which most comparativists
think it is possible to reconstruct a protolanguage in detail» (Jacinta Smallhorn,
Binanderean as a Member of the Trans New Guinea Family, in Discovering History
Through Language: Papers in Honour of Malcom D. Ross, edited by Bethwyn Evans, Canberra,
Pacific Linguistics: Research School of Pacific and Asian Studies - The Australian
National University, 2009 "Pacific Linguistics" 605, pp. 205-222, p. 220).
[tav. 26]
L'ipotesi in 23/25 famiglie inclusa la "Trans New Guinea" secondo Ross: si noterà
l'enorme progresso rispetto alla cartina precedente. L'oscillazione tra 23 e 25 nelle
famiglie postulate dipende dalla riunione o meno in una "Extended West Papuan" delle
tre famiglie West Papuan, East Bird's Head e Yava, di cui vi sono
troppo pochi indizi; l'oscillazione tra 9 e 10 delle "lingue isolate" (non rappresentate nella mappa) dipende dalla
affiliazione ipotetica dello Yele (cfr. infra) alla famiglia West New Britain,
che è molto improbabile. Dalla cartina restano tagliati (per mere ragioni di spazio)
il gruppo di Halmahera settentrionale delle lingue West Papuan, nonché larga
parte di quelle orientali: le due famiglie dell'isola Bougainville sono recuperabili
dalla cartina seguente (tav. 28a),
dalla Nuova Britannia è tagliata l'estremità orientale (Gazelle Peninsula)
con la maggior parte della famiglia East New Britain (in particolare le lingue
baining), e completamente al di
fuori restano le Isole Solomone, con la famiglia Central Solomons. In bianco
zigrinato sono le aree disabitate o popolate da parlanti lingue austronesiane.
Adattato da Malcom Ross, Pronouns as a Preliminary Diagnostic for Grouping Papuan Languages, in Papuan
Past: Cultural, Linguistic and Biological Histories of Papuan-Speaking Peoples,
edited by Andrew Pawley, Robert Attenborough, Jack Golson and Robin Hide, Canberra,
Pacific Linguistics: Research School of Pacific and Asian Studies - The Australian
National University, 2005 "Pacific Linguistics" 572, pp. 15-65, p. 34 = Map 5 e p. 31
= Map 4). È disponibile anche una versione in grande formato.
Naturalmente vi
sono molte lingue ancora non studiate (l'ambiente è spesso selvaggio, molte aree sono - od
erano fino a poco fa - ferme all'età della pietra, con cannibalismo ancora relativamente
diffuso ...), ma la diversità linguistica è talmente radicale da essere difficilmente
solo un riflesso della nostra imperfetta conoscenza. Qualche macrofamiglia, oltre alla
Trans New Guinea, esisterà senz'altro e si potrà forse nel futuro dimostrare
(penso soprattutto alla West Papuan ipotizzata da Malcom D. Ross nel 1996
per le lingue dell'Irian Jaya), ma i grandi "macro-phyla" à tout faire come
l' "indopacifico" (inglobante tutte le lingue Papua, quelle delle Andamane, dell'Australia
e gli sconosciuti resti della Tasmania) di Greenberg e Ruhlen sono per ora, ed io credo
resteranno anche anche in futuro, solo favole di lumpers farneticanti. Anche
da un punto di vista genetico quasi tutti i genetisti concordano che le popolazioni
Papua non costituiscano una unità compatta, ma siano il frutto di un patchwork
di componenti distinte; su quante le opinioni divergono, ma la tesi più frequentemente espressa è
che vi siano almeno quattro gruppi genici distinti, di cui uno (diffuso nelle Highlands,
indipendente dalla distribuzione linguistica) più prossimo a quello australiano.
La glottodiversità presente in questo territorio è infatti
sterminata e vi sono comprese alcune tra le lingue-monstre più interessanti
del mondo (per il linguista, ovviamente...), anche se la "media" è molto meno
eccezionale di quello che uno si aspetterebbe: sono pur lingue umane ...
Fonologicamente, ad esempio, vi sono probabilmente comprese sia la lingua con l'inventario fonologico più piccolo (12) del mondo sia quella con il più grande (90), ma la media è relativamente "normale", e può essere data sulla ventina di consonanti e cinque vocali. Il sistema base per il consonantismo può essere considerato quello del fore (tavola seguente, a), una lingua goroka (TNG) delle Eastern Highlands, con soli tre ordini di occlusive, con parziale allineamento delle nasali, e ricco sistema allofonico. Le addizioni possono essere (1) nel raddoppio delle serie con affiliazione completa delle nasali (come in yimas, una lingua pondo della famiglia Lower Sepik; tav. sg. b) od introduzione di una serie sonora (come in kâte, una lingua huon: tav. sg. c), (2) nell'aumento degli ordini, con l'inserimento delle palatali (come in yimas, b), o con l'introduzione di tratti fonologici più rari, come le biocclusive (come in kâte, c), cioè consonanti con due occlusioni contemporanee, una anteriore (bilabiale) ed una posteriore (dorsovelare). Da notare la scarsità generale di fricative e la ordinaria limitazione delle liquide a solo due. Il sistema base per il vocalismo, invece, è di solito triangolare a tre gradi, con 5 vocali, spesso allargate a 6 (come, diversamente, in fore e kâte: a e c) o ridotte a 4 (come in yimas: b), ma di solito mai eccedente le 7~8 unità. C'è inoltre segnalata in iatmul, una lingua ndu del basso Sepik (Lower Sepik - Ramu, Papua), una questione simile a quella del caucasico W kabard: il sistema apparentemente a 7 unità /i e ï ë a u o/ pare riducibile in base a regole allofoniche a 3 /ï ë a/, e di lì fino a 2 sole /ë a/ e quindi addirittura alla vocale unica (cfr. Foley 1986 cit. 48-52). Quanto, infine, alla prosodia, è forse l'area ancora meno sicura, ma vi sono tanto lingue accentuali quanto lingue tonali, ma queste ultime di solito con sistemi modesti, perlopiù con soli due toni.
[tav. 27abc]
Alcuni sistemi fonologici caratteristici e diffusi nelle lingue Papua: (a) fore (goroka),
(b) yimas (lower Sepik) e (c) kâte (huon). In nero sono dati i fonemi, espressi coi grafi IPA,
tra quadre in grigio i principali allofoni. Dati reinterpretati da
William A. Foley, The Papuan Languages, Cambridge - London - New York -
New Rochelle - Melbourne - Sydney, 1986, pp. 53 e 55 (a: fore), 56 e 61 (b: yimas)
e 53 e 61 (c: kâte).
La lingua con il sistema fonologico più piccolo (12 fonemi) e con meno consonanti
(sole 6) del mondo è, appunto, il rotokas, una lingua dell'isola
Bougainville (Papua orientale), parlata da c. 4 migliaia di parlanti in 28 vilaggi
della zona centrale e montagnosa dell'isola (cfr.
l'Éthnologue
e Irwin B. Firchow- Jacqueline Firchow, The Rotokas People of Bougainville Island,
SIL International, 2008 "SIL e-Book" 12; per la posizione geografica dell'isola
cfr. nel capitolo precedente la cartina della Melanesia,
ed in questo quella di Papua)
e facente parte con altre 3 lingue della piccola famiglia linguistica Bougainville N
(cfr. l'Éthnologue).
Nell'area circostante dell'isola (soprattutto più a nord) è stanziata anche una dozzina
di lingue austronesiane, e tale è stato a volte creduto anche il rotokas, parte
per il suo modesto inventario fonologico e parte per i molti prestiti austronesiani
che vi sono presenti.
[tav. 28ab]
(a) La situazione linguistica dell'isola Bougainville, divisa tra tre famiglie linguistiche
non collegate: austronesiana, bougainville N (cui apparetiene il rotokas) e bougainville S
(la meglio studiata e di più solida ricostruzione). Da Bethwyn Evans, Beyond Pronouns:
Further Evidences fron South Bougainville, in Discovering History
Through Language: Papers in Honour of Malcom D. Ross, edited by Bethwyn Evans, Canberra,
Pacific Linguistics: Research School of Pacific and Asian Studies - The Australian
National University, 2009 "Pacific Linguistics" 605, pp. 73-101, p. 75, appena ritoccato nei colori.
(b) Il sistema fonologico più piccolo del modo: quello del rotokas. In nero i fonemi, tra
quadre in grigio gli allofoni e le varianti dialettali, ed in blu i grafemi
dell'ortografia standard. Dati da Jackie Firchow, Organised Phonology Data:
Rotokas Language [ROO], Wakunai – North Solomons Province, SIL, 1992,
http://www.sil.org/pacific/png/abstract.asp?id=299, e John Lynch, Pacific Languages:
an Introduction, Honolulu, University of Hawai'i Press, 1998, pp. 88 e 314.
La lingua con il sistema fonologico più grande (90 fonemi)
del mondo è, invece, forse lo yélî dnye, noto anche più
semplicemente come yele o rosselese, la lingua isolata dell'isola
Rossel, nell'estremità est dell'arcipelago Louisiade (Milne Bay, New Guinea: cfr.
James E. Henderson, Phonology and Grammar of Yele, New Guinea, [Canberra],
Australian National University, 1995 «Pacific Linguistic Series» B-112 e Peter Ladefoged
- Ian Maddieson, Recording the Phonetic Structure of Rndangered Languages. Fieldwork
Studies of Targeted Languages IV, [Berkeley], 1996 «UCLA Working Papers in Phonetics»
93, pp. 1-7), parlata da 3750 persone di cui 400 monolingui (dati del 1998: cfr.
l'Éthnologue).
Secondo taluni, infatti, supererebbe la
caucasica occidentale ubykh
(81 fonemi), precedente detentrice del primato, che in futuro potrebbe venirle strappato,
pare, forse solo da qualche lingua khoisan dell'Africa, come il !xóõ, una
lingua, appunto, khoisan parlata tra il Botswana SW e la Namibia E, la cui interpretazione
fonologica è però per ora assai ardua: cfr. Anthony Traill, Phonetic and Phonological Studies
of !Xóõ Bushmans, Hamburg, Helmut Boske Verlag, 1985 «Quellen zur Khoisan-Forschung» 1.
La caratteristica dello yele è di associare, nelle sue 57 consonanti, ad un numero di ordini
/ punti di articolazione modesto e classico (4: [bi]labiale, [lamino]alveolare,
[apico]postalveolare, [dorso]velare) un numero esorbitante di serie / modi di (co)articolazione,
tra cui alcune decisamente "strane" come le biocclusive di cui di solito sono note
solo le velo-labiali, /kp/ (come in kâte, cfr. supra), ma di cui lo yele,
unica al mondo, presenta una serie completa anche di (apico)alveolo-labiali /tp/ e
(lamino)postalveolo-labiali /t,p/ ; le 33 vocali sono invece date da un sistema base
di undici vocali (5 anteriori, 2 centrali e 4 posteriori) triplicato per nasalità e
lunghezza. È da notare, però (ed è questa la ragione del condizionale...), che se
"contiamo" il sistema vocalico come siamo soliti 11+2 (anziché 11×2, come fanno
di solito i papuanisti), lo yele si troverebbe ad avere "solo" 57+11+2=70 fonemi,
lasciando così il primato all'ubykh.
[tav. 29]
Lo yele dell'isola Rossel: collocazione geografica dell'arcipelago Lusiade. Da James
Hendersson, Phonology and Grammar of Yele, Papua New Guinea, Canberra,
Pacific Linguistics: Research School of Pacific and Asian Studies - The Australian
National University, 1995 "Pacific Linguistics" B-112, p. viii.
Tanto la lingua come anche la cultura dell'isola Rossel sono in realtà affatto peculiari,
ben al di là della mera fonologia: «Rossel canoes, houses, song styles, traditional
dress and ornament are all distinctively alien to the surrounding peoples, and the
language is regarded as unlearnable by outsiders» (Stephen C. Levinson, The Language
of Space in Yélî Dnye, in Grammars of Space. Explorations in Cognitive Diversity,
edited by Stephen C Levinson and David P. Wilkins, Cambridge - New York - Melbourne -
Madrid - Cape Town - Singapore - São Paulo, 2006, pp. 157-205, p. 157); lo yele è stato,
ad esempio, molto studiato dai linguisti cognitivi per il suo elaborato sistema di
posposizioni locative (cfr. ad es. Levinson 2006 cit.). L'alone di difficoltà ed
"inimparabilità" assoluta di cui ha fama (e non solo...) lo yele è probabilmente
dovuta soprattutto ad un'altra sua peculiarità: «in general, the genius of the language
may be summed up by the injunction: 'Lexicalize!'. It is thus paradigmatic tha 'the verb'
for giving should have eight roots [...] splitting even on the person of recipient.
Consequently, in all sort of areas of the grammar where one might expect systematic
inflection, derivation or alternation, one find instead suppletion or the handling of
functional shifts through multiple lexemes» (Levinson 2006 cit. p. 159); la questione
della prevalenza del lessico sulla grammatica, vi ricordo en passant, era
stata uno dei cavalli di battaglia dei primi studiosi di lingue amerinde, algonchine
nella fattispecie, ed era servito a creare il mito delle "lingue primitive"; per
le lingue algonchine fu un errore dovuto alla incomoprensione delle regole
grammaticali di formazione delle parole, raffinatissime (altro che assenti!), per lo
yele, invece, pare proprio vero - il che non significa che vada riesumato anche il mito
della primitività, che, antropologicamente, speriamo morto e sepolto. La morfosintassi
dello yele è infatti peculiare (potremmo qualificarla come "isolante fusiva"), ma comunque
verosimilmente incapace di spiegare da sola (come invece nelle lingue algonchine)
le alternanze paradigmatiche della lingua: «the morphology is very reduced by virtue
of the fact that most inflectional functions are indicated by particles or free morphemes,
which subsume multiple grammatical categories (like person / number / aspect / tense)
in single pormanteau morphs» (ibidem); ci sono poche eccezioni: «there are a few bound morphemes [...]»,
«inflectional functions are also frequently, but irregularly, indicated by root suppletion [...]»,
e «derivational is highly restricted to a few lexically restricted functions [...]» (ibidem);
per il resto «free morphemes perform many of the function of derivation, e.g. postpositional
mbiy:e acts like a general adverbializer. Thus, the pattern is to indicate case,
agreement, plurality of nominals, etc., in such (usually) postpositional particles and
clitics» (ibidem). A parte ciò, la sintassi riserva minori sorprese, l'ordine
delle parole essendo fondamentalmente libero ma con tendenza al SOV, con verbo finale
come la maggioranza delle lingue papua, e con interfaccia chiaramente ergativo.
Essendoci un po' diffusi sullo yele, tralasceremo di dare ulteriori indicazioni sulla morfosintassi delle lingue papua in genere, anche perché non sono molte le generalizzazioni possibili, trovandosi molti tipi diversi: non molto di comune si può, infatti, dire al di là che sono di norma lingue a verbo finale (a differenza delle austronesiane, di solito a verbo iniziale o mediano), spesso con morfologia, prevalentemente agglutinante (ma le eccezioni qui già non mancano, come abbiamo visto), estremamente ricca specie nel verbo.
Quanto (4) all' Australia,
all'epoca del primo contatto con gli europei, che risale alla prima spedizione (1768-1771)
di Cook (James Cook 1728 - 1779), vi erano probabilmente almeno 200 lingue
(L'Éthnologue ne numera addirittura 264),
di cui una cinquantina sono ormai estinte, ed un altro centinaio sono sull'orlo
dell'estinzione, anche se negli ultimi anni sembra esserci stata un parziale arresto
nel processo, dovuto anche all'introduzione di una politica più tutelante. Solo una
cinquantina di lingue, comunque, sono oggi in uno stato di salute relativamente
buono (cioè ancora imparate dai bambini, con comunità di madrelingua di centinaia
di parlanti e buona latitudine d'uso): cfr. Robert Malcolm Ward Dixon, The Languages
of Australia, Cambridge - London - New York - New Rochelle - Melbourne - Sydney,
Cambridge University Press, 1980, p. 18 (un'introduzione classica, un po' invecchiata
ma ancora utile).
A differenza che per le lingue di Papua, l'unità genealogica delle lingue australiane
sembra abbastanza probabile (è accettata ad es. dall'Éthnologue
cit., ed anche da Dixon, il maggiore specialista, che ne ha anche fornito una parziale
ricostruzione dell'ipotetica protolingua), anche se una dimostrazione assolutamente rigorosa non è ancora stata
fornita (molte famiglie sono però ormai abbastanza assestate) ed è probabile che non
lo verrà mai: i fenomeni di diffusione areale (l'Australia è rimasta isolata per
circa 10.000 anni, cioè da quando si è formato lo Stretto di Torres tra la l'australiana
Cape York Peninsula e la Western Province della Nuova Guinea) e la cattiva attestazione
dei tre quarti delle lingue australiane rendono l'impresa quantomeno ardua; quello
che è abbastanza certo è che non esistono collegamenti genealogici fuori dell'Australia
(anche se non sono mancati i soliti lumpers), in particolare con le varie
famiglie di lingue Papua o con le lingue austronesiane, che pure sono le più vicine.
Si tratta di lingue spesso estremamente complesse, con ricche morfologie e sintassi ergativa ma che costituiscono certamente un'area linguistica ben definita: «about three quarters of the languages of Australia are typologically very similar. They have similar phonemic inventories [...] arranged in the same basic phonotactic patterns [...]. Morphologically they work entirely in terms of suffixes; the function of a noun phrase in a sentence - subject, object, instrumental etc. - is shown by case inflections on the words of the noun phrase. Pronouns typically show a singular/dual/plural distinction, and similar pronominal forms recus throughout these language. A number of the most frequent lexemes also recur in the same or very similar forms [...]» ben riassume Dixon 1980 cit. p. 220, caratteristiche cui vanno aggiunte solo l'assenza di toni, la prevedibilità della sede dell'accento, di solito sulla prima sillaba (cioè la sua non-distintività fonologica), ed in sintassi l'ergatività (di solito split ergativity). Questo grande gruppo di lingue tipologicamente assai simili è stato chiamato pama-nyungan «after the words for 'man' at its north-eastern and south western extremes, e rappresenta probabilmente anche un raggruppamento genealogico (cfr. ancora la classificazione dell'Éthnologue).
[tav. 30]
La distinzione tra lingue pama-nyungan e non pama-nyungan, con nomi e
localizzazioni di una manciata delle principali lingue australiane. Da John Lynch,
Pacific Languages: an Introduction, Honolulu, University of Hawai'i Press,
1998, p. 39.
Fonologicamente la "australianitudine" si riflette in alcune
caratteristiche costanti:
(1) grande importanza delle
coarticolazioni laminali e apicali (indicate nell'IPA rispettivamente con un rettangolino
vuoto e con un rettangolino privo del lato superiore, posti sotto il grafo), che
possono arrivare ad essere i soli tratti fonologici pertinenti per definire
gli ordini del sistema fonologico (come in watjarri e dyirbal);
(2) assenza della opposizione
di sonorità nelle occlusive, che presentano di norma un'unica serie, spesso
fonologicamente sonora a volte con allofoni sordi, o più raramente viceversa;
(3) allineamento alle occlusive
delle nasali, che costituiscono così un'unico fascio (come in molte lingue
caledoniane austronesiane)
di due serie, articolato di solito su sei ordini (come in guugu yimidhirr
o pitta-pitta), in talune aree ridotti a cinque (come
in generale nel "Western Desert", cfr. il watjarri),
caratteristica conservata anche dalle lingue che riducono ulteriormente
il numero di ordini fino al minimo di quattro del wargamay e simili;
(4) almeno due vibranti, di solito
una poli- o mono-vibrante (convenzionalmente
scritta rr) ed una continua, spesso retroflessa (scritta r);
(5) frequenza delle retroflesse,
cioè delle apico-postalveolari con la lingua ripiegata all'indietro, come nel siciliano
(cfr. beddu 'bello') ed in area indiana;
(6) sistemi vocalici di solito
con 3 membri (triangolari a due gradi, quindi) ed opposizione di durata.
[tav. 31abcd]
Quattro tipi di sistema fonologico rappresentativi delle lingue australiane proprie
(pama-nyungan). Accanto ai fonemi, espressi coi grafi IPA, è data in blu l'ortografia
standard (quando in uso effettivo, come per il guugu yimidhirr) o quella degli australianisti,
ed in grigio i principali allofoni. Sono rappresentati un sistema a sei ordini
(c: pitta-pitta, ed analogamente nel W Queensland il
kalkatungu ed il warluwarra, l'aranda nel S Northern Territory al centro del continente,
l'arabana nel South Australia, il yinyjbarnrdi nel Western Australia, ecc.; il anindilyakwa
della Groote Eylandt, una lingua non pama-yungan isolata della Groote Eylandt
nel nord arriva a sette ordini, aggiungendo un ordine di labiovelari, con un sistema
per il resto identico tranne tre sole laterali e due rotiche ed un sistema vocalico
di difficile interpretazione, con due o quattro vocali fonologiche), a cinque o sei
ordini (c: guugu yimidhirr, qui rappresentato nell'ipotesi
massima, ma in cui l'ordine lamino-palatale è rappresentato da poche coppie minime,
ed è assente in molti dialetti/lingue vicini, come il guugu yalandji immediatamente a sud),
a cinque, di solito con due ordini apicali ed uno laminale (c:
walmatjarri, western desert, nel madhi-madhi del S Wales, nel warlpiri del Northern
Territory, ecc.), ed a quattro, con un ordine per coarticolazione, labiale,
dentale, laminale e dorsale (c: wargamay, e molte lingue
del E Queensland come il dyirbal e lo yidiny).
Dati basati su: John B. Haviland, Guugu Yimidhirr, in R. M. W. Dixon and Barry J. Blake,
Handbook of Australian Languages, Vol I, Amsterdam, John Benjamins, 1979, pp. 26–180;
Barry J. Blake, Pitta-pitta, in R. M. W. Dixon and Barry J. Blake, Handbook
of Australian Languages, Vol I, Amsterdam, John Benjamins, 1979, pp. 182-242;
Robert Malcolm Ward Dixon, Wargamay, in R. M. W. Dixon and Barry J. Blake, Handbook
of Australian Languages, Vol II, Amsterdam, John Benjamins, 1981, pp. xxiv-144;
Wilfrid H. Douglas, Watjarri, in R. M. W. Dixon and Barry J. Blake, Handbook
of Australian Languages, Vol II, Amsterdam, John Benjamins, 1981, pp. 196-272;
Robert Malcolm Ward Dixon, The Languages of Australia, Cambridge - London -
New York - New Rochelle - Melbourne - Sydney, Cambridge University Press, 1980, p. 132-148;
John Lynch, Pacific Languages: an Introduction, Honolulu, University of Hawai'i
Press, 1998, pp. 91-93.
Il guugu yimidhirr merita una speciale attenzione, perché è la prima lingua australiana
con cui gli occidentali abbiano avuto contatti: nel 1770 l'Endeavour del Lt. James Cook
attraccò alla foce di un fiume che battezzò, appunto, Endeavour River (dove oggi sorge Cooktown),
in pieno territorio dei guugu yimidhirr, cui Cook si riferiva come New Holland
(natives / language / &C.). Nel giugno e nel luglio di quell'anno ebbe molti contatti
con gli indigeni e ne registrò un centinaio di vocaboli, tra cui molti (i più caratteristici)
poi diffusi dall'inglese nel resto del mondo. Tra questi spicca (in tutti i sensi)
il canguro: «notable among these was the name of a strange animal, which Cook describes
in his Diary: "its progress is by successive leaps or hops, of a great length, in
erect posture ... This animal is called by the natives Kanguroo", Cook's
rendering of the Guugu Yimidhirr word gangurru (a species of large black or
grey kangaroo) was one of the first contributions to world culture from an Australian
language» (Haviland 1979 cit., p. 27). Oggi la specie che i nativi chiamano tutt'ora gangurru
è assai rara, e non è il "canguro standard" che ci immaginiamo: questa è probabilmente
la ragione alla base delle molte leggende metropolitane, riportate come verità di Vangelo
anche da molti "rispettabili" dizionari, che vorrebbero che Cook si sia sbagliato
e che quello che aveva elicitato puntando il dito su una data bestia volesse dire 'non lo so' o
'buono da mangiare', risposte che più recenti ricercatori avrebbero ottenuto puntando
il dito ad altre specie di canguro, diverse da quella elicitata da Cook, ma più di quella
ormai ben più facili da incontrare e "disponibili all'indicazione", che però non erano
gangurru: cfr. John B. Haviland, A last look at Cook's Guugu-Yimidhirr
wordlist, in "Oceania" XLIV (1974)3, pp. 216–232.
Sulle altre caratteristiche non fonologiche sorvoleremo, bastando
la descrizione della split ergativity
che avevamo dato in precedenza nel § 1.2.5, cui rimandiamo.
Le lingue non pama-nyungan, tutte concentrate nel nord dell'Australia,
raccolgono tanto le fonologicamente aberranti (ma perlopiù neppure poi tanto: anche qui è
diffusa l'opposizione laminale : apicale, le due rotiche, ecc.) quanto le morfosintatticamente
"diverse" dal panorama che abbiamo disegnato. In questo "non-gruppo" sono raggruppate
convenzionalmente anche alcune lingue isolate (di cui l'affiliazione ad un ipotetico
"protoaustraliano" oltre che indimostrata pare implausibile), come il menzionatio yinyjbarnrdi
od il tiwi; la maggior parte delle lingue, però, sembra possa essere, sia pure più lontanamente,
collegabile geneticamente con le pama-nyungan.
La differenza principale di questo gruppo negativo rispetto all'altro è comunque proprio
morfosintattica, ed è lo spostamento da una morfologia suffissale caricata sul nome
ad una prefissale caricata sul verbo: «in many PN languages the verb bears no information
at all concerning the subject and object of the sentence; which noun phrase is subject and
which object is shown by the addition of case suffixes to the words in a phrase -
generally, a transitive subject bears the ergative suffix -nggu ~ -lu ~ -du,
while an intransitive subject or transitive object is left unmarked [...]. NonPN
languages differ in that the verb contains obligatory elements which indicate the person,
number and gender class of subject, object and indirect object. These cross-referencing
elements are prefixes in most nonPN languages and they are morphologically integrated
with other verbal elements» (Dixon 1980 cit. p. 223).
E se non fossimo ormai giunti al termine del nostro tempo e delle nostre forze
sarebbe bello sostarvi un poco: ma ciò basti.