Introduzione alla linguistica generale.

Materiali integrativi al corso di Didattica delle lingue moderne.

di Manuel Barbera (b.manuel@inrete.it).


1. Il linguaggio.


1.2 Caratteristiche generali del linguaggio umano.

(b). Chomsky: sintassi e competenza.


1.2.0 Chomsky e la grammatica generativa.


Il pensatore e linguista che dopo Saussure è stato più determinante ed influente per la linguistica contemporanea è probabilmente l'americano Noam Chomsky (1928-...): si può infatti ben dire che dopo il 1957 (data del suo primo libro, Syntactic Structure) il panorama della linguistica non sia più stato lo stesso, e la sua teoria, la "grammatica generativo-trasformazionale" (o semplicemente "grammatica generativa"), nelle varie forme che ha assunto nel suo ormai quasi mezzo secolo di vita, è presto diventata il paradigma di riferimento per tutta la comunità scientifica.
Abbiamo detto "nelle varie forme" perché è in realtà difficile parlare della grammatica generativa come di UNA teoria, perchè tale è stata la continua evoluzione dal 1957 ad oggi che si dovrebbe parlare di MOLTE teorie successive, e non basterebbe un corso intiero a tracciarne la storia. Dovremmo, pertanto, limitarci a considerare solo DUE forme della teoria, in quanto particolarmente importanti ed attuali: (1) l'ultima forma organica proposta, che è quella de The Minimalist Program, London (England) - Cambridge (Massachusetts), MIT Press, 1995, detta appunto teoria minimalista; e (2) la forma della teoria tuttora più diffusa tra i linguisti e cui è più spesso fatto riferimento, che è quella proposta in Lectures on Government and Binding, Dordrecht, Foris, 1981, detta appunto teoria GB, ossia Government and Binding Theory 'Teoria della reggenza e del legamento'.

A differenza dello strutturalismo nato con Saussure, che si costruiva a partire dalla significazione (ossia sulla teoria dei segni) e dalla semantica (ossia sulla teoria del significato), fondandosi sulla comunicazione e sulla convenzione sociale, la grammatica generativa di Chomsky si concentra soprattutto sulla sintassi (ossia sulle regole di combinazione dei costituenti) e sulla matrice biologica, individuale, del linguaggio. Come vedremo, inoltre, le due impostazioni presuppongono anche due filosofie radicalmente diverse.
Ma, al di là delle differenze teoriche, e delle nostre eventuali preferenze filosofiche per l'una o l'altra teoria, tanto Saussure quanto Chomsky, e le rispettive tradizioni linguistiche, hanno messo in evidenza caratteristiche del linguaggio comunque fondamentali per la linguistica e che possono (e devono) essere integrate in una descrizione efficiente dei fatti delle lingue.

Questo si può fare anche tenendo sempre presente che, al di là dei risultati linguistici e scientifici utilizzabili in sé (indipendentemente dalle posizioni filosofiche "pre-linguistiche" che li hanno suscitati), il programma chomskyano è fondamentalmente altro e molto più di una semplice teoria linguistica: è, infatti, anche una teoria filosofica forte sul linguaggio, teoria che, naturalmente, si può accettare o meno, ma di sicuro non ignorare. Chomsky, non a caso, è forse il linguista che ha più interagito con la filosofia e le pratiche dei filosofi contemporanei ("analitici" e soprattutto "cognitivi"), che (d'accordo o contrari che fossero) comunque non hanno mai potuto trascurarlo.
La sua inclinazione filosofica si è infatti espressa in una nutrita serie di pubblicazioni che hanno sempre affiancato la sua produzione più tecnicamente linguistica: al di là degli interventi politici (molto radicali e di larga diffusione) che non ci interessano in questa sede, dei suoi numerosi scritti di filosofia del linguaggio dobbiamo tenerne presenti almeno due. Il primo è Cartesian Linguistics. A Chapter in the History of Rationalist Thought, New York, Harper & Row, 1966. In esso, al di là di una lettura originale della storia della linguistica del Settecento (che viene "riletta" in funzione delle problematiche della linguistica contemporanea), si profila una strategia costante nella teorizzazione linguistica di Chomsky: saltare la glottologia (diacronica) dell'Ottocento e lo strutturalismo (sincronico) del Novecento, rivalutando invece il pensiero (non solo linguistico) del Settecento. Il secondo, recente, è New Horizons in the Study of Language and Mind, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 2000, una raccolta organica di saggi che costituisce probabilmente la lettura più illuminante (e caldamente consigliabile) sul pensiero di Chomsky e sul dibattito filosofico attuale di cui è parte integrante.

Quello che ci riproponiamo nei seguenti paragrafi è, dopo avere chiarite un poco i presupposti del pensiero chomskyano (in base soprattutto ai citati New Horizons), presentare brevemente quelle caratteristiche che Chomsky ha individuato nel linguaggio umano, cui accennavamo, e che costituiscono le fondamenta linguistiche della teoria generativa. In ciò fare, ci atterremo soprattutto alla forma "GB" della grammatica generativa, dato che il programma minimalista non è ancora generalmente accettato dalla più parte dei linguisti generativi, forse perché ancora in fieri e poco chiaro. Non entremo tuttavia nello specifico di come è strutturato e funziona in concreto il meccanismo descrittivo della GB, dato che è già efficacemente spiegato nel manuale di Graffi - Scalise. Le questioni, inoltre, della teoria generativa che più hanno interazioni col piano biologico (cognitivismo, apprendimento del linguaggio), dobbiamo rimandarle ad altro capitolo, cfr. ¶ 1.4, quando avremo un poco spiegato, appunto, le basi biologiche del linguaggio; e solo allora potremo anche tentare un qualche bilancio critico del generativismo (cfr. § 1.4.6).


1.2.1 Le basi filosofiche: internismo vs esternismo, la naturalizzazione della mente.


Nel paragrafo 1.1.8, tracciando un bilancio sulle posizioni delineatesi tra fine Ottocento ed inizio Novecento riguardo alla teoria del significato, notavamo che alla linea Saussure-Wittgenstein si contrapponeva la linea che partiva da Frege. Avevamo, ossia, «da una parte una concezione antropologica per cui il significato è funzione dell'uso, e dall'altra una posizione "platonica" per cui il significato è funzione di una verofalsità possibile a priori, ossia insita nei segni stessi che rimandano ad una realtà esterna indipendentemente dall'uso che ne fa una comunità» (§ 1.1.8): per Frege «l'umanità [deve avere] un patrimonio comune di pensieri che trasmette di generazione in generazione» (Frege, Senso e denotazione, in La struttura logica del linguaggio, a cura di Andrea Bonomi, Milano, Bompiani, 1995 [1973], p. 12). Orbene, Chomsky si colloca precisamente sulla linea "platonica" di Frege (Chomsky, per la verità, con la sua solita mossa di rifarsi al Settecento saltando i precedenti più diretti, si riallaccia esplicitamente a Cartesio), solo precisando in senso biologico, genetico la natura di quel "patrimonio comune di pensieri" che in Frege restava piuttosto vago. Avremo modo di approfondire in seguito (cfr. § 1.4.5) la soluzione "innatista" di Chomsky; ora quello che ci preme è chiarirci bene la contrapposizione generale tra le due possibili impostazioni.

Usando molto alla buona una terminologia comune in filosofia, chiameremo le posizioni "antropologiche" del tipo di quelle di Saussure e Wittgenstein (il significato è funzione della comunità che lo usa, il linguaggio è pubblico) esterniste e le posizioni latamente "platoniche" del tipo di quelle di Frege e Chomsky (il significato dipende da concetti che sono dati - idealisticamente o biologicamente - all'interno delle nostre menti, il linguaggio è individuale) interniste. La distinzione tra internismo ed esternismo, in realtà, è stata tracciata in molti modi in filosofia ed ha assunto accezioni anche contrastanti, spesso intrecciandosi con la ancora più problematica nozione di "realismo": una definizione, molto tecnica, ma di carattere sufficientemente generale da comprendere la più parte delle accezioni (inclusa la nostra) potrebbe essere la seguente proposta da Alberto Voltolini, Internalism & Externalism (disponibile online): «Taken in their simplest versions, externalism and internalism are the conceptions according to which, pending on the broad vs. the narrow identification of an intentional state, the content of such a state can legitimately be conceived only either as relational or as non-relational respectively. For externalists, the representational content of an intentional state depends on a reality lying outside the subject of such a state. For internalists, no external object or event which lies or occurs outside a subject’s brain (or at most its body) is relevant for the individuation of the content of an intentional state.» Come vedete, nella definizione "buona" si parla di "stati intenzionali" in generale (ricordate la nozione di intenzionalità?), e di come il loro contenuto sia determinabile solo in funzione di fattori esterni al soggetto o solo in base a condizioni interne alla mente del soggetto medesimo. Naturalmente, vi possono poi essere molti modi e fattori (interni o esterni) in base ai quali il contenuto di uno stato mentale può essere individuato (quasi tutti chiaramente descritti nell'articolo cit. di Voltolini), il che dà ragione della molteplicità di accezioni in questione.


un' interpretazione umoristica della mente internista e dell'esternista

[tav. 1]
Una simpatica rappresentazione dei concetti di internismo ed esternismo tratta dalla utilissima pagina di Alberto Voltolini su Internalism & Externalism.

Non possiamo, chiaramente, approfondire troppo il problema. Possiamo però soffermarci a notare come l' "internismo" chomskyano si differenzi da quello di Frege per il diverso modo in cui i concetti all'interno delle nostre menti sono concepiti: idealisticamente (Frege) o biologicamente (Chomsky). La differenza è in realtà molto rilevante, e con conseguenza di vastissima portata (al di là del fatto paradossale che in Chomsky si coniugano istanze platoniche e posizioni realistiche), dato che comporta una radicale naturalizzazione degli stati mentali.
Cosa vuole dire questa strana espressione? Dobbiamo prendere la cosa un po' da lontano. Molto spesso, quando una disciplina nuova inizia a prendere forma si trova di fronte al problema di far riconoscere il proprio status scientifico. Molto spesso la strategia è stata quella di mostrare come le proprie teorie fossero esprimibili ("riducibili") anche nel linguaggio di un'altra disciplina già sicuramente scientifica (di solito la fisica): così, ad esempio, nel Sette-Ottocento la chimica dovette essere "ridotta" alla fisica, prima di poter tornare a camminare con le proprie zampe, ecc. ecc. Quest'operazione, tecnicamente chiamata riduzione, è stata tentata molte volte nella storia della scienza, ma raramente con risultati di lunga durata (al di là dell'ammissione nel club delle "scienze buone" delle neoscienze che vi si sono sottoposte). Chomsky, per rendere la linguistica una scienza alla pari di tutte le altre, opera anche lui una riduzione: riduce gli stati mentali in generale e quelli linguistici in particolare, che sono lo specifico oggetto della scienza linguistica, ad oggetti "naturali", fisici e reali, alla pari degli oggetti della fisica e delle altre scienze "forti". Questa particolare riduzione è appunto la "naturalizzazione" del mentale. Nel fare ciò Chomsky, tra l'altro, è in compagnia di un buon numero di filosofi "cognitivi" che pure mirano alla naturalizzazione della mente, ossia alla sua riduzione agli stati fisici indagabili da psicologi e neurologi (e quanto questo comporti dal punto di vista della psicologia lo vedremo meglio più avanti, nel quarto capitolo). Quello che voglio sottolineare, però, è come con questa mossa Chomsky rinunci del tutto a quella che da Brentano (cfr. il § 1.0.4) in poi è la principale caratteristica degli stati intenzionali (tra cui i segni linguistici!): la loro inesistenza oggettiva (o meglio: la non esistenza degli oggetti negli stati mentali, che quindi non sono essi stessi oggetti), la famosa "inesistenza intenzionale". Ma questa rinuncia alla più radicale specificità degli stati linguistici, naturalizzati e normalizzati alla stregua degli oggetti di qualsiasi altra scienza, è davvero un gioco che vale la candela? Il giudizio è difficile, ed in effetti il dibattito, tanto tra i linguisti come, ancor più, tra i filosofi è tuttora aperto.


1.2.2 La ricorsività.


La ricorsività, o più correttamente "funzione ricorsiva", è propriamente un concetto matematico con il quale si definisce il dominio dei numeri naturali, che è un insieme infinito di unità discrete, ognuna delle quali non si può che definire ricorsivamente come la somma un unità al suo antecedente (se la serie dei numeri naturali è infinita, come potremmo definirli tutti in modo diretto?).
La «idea of "infinite use of finite means"» viene da Chomsky, con la sua usuale mossa di ricavarsi gli antenati nel periodo precedente la glottologia otto-novecentesca, fatta risalire a Wilhelm von Humboldt (1767–1835), poliedrica figura di diplomatico, studioso e linguista (lo incontreremo anche più avanti, come padre nientemeno che della linguistica austronesiana !).
L'esigenza di spiegare (nei termini, almeno, che saranno poi di Chomsky) «l'apparente paradosso [...] - per usare le parole di Andrea Bonomi, Le immagini dei nomi, Milano, Garzanti, 1987, p. 35 - che un insieme finito di mezzi, quali sono appunto i dispositivi grammaticali di una qualsiasi lingua, producono un insieme virtualmente infinito di enunciati» risale, in realtà, al filosofo Edmund Husserl (1859-1938), il padre della fenomenologia che, nelle sue Logische Untersuchungen 'Ricerche logiche' (1900-1901) «individua questa capacità generativa nell'iterabilità delle regole grammaticali» (ibidem; è degno di nota il fatto che le Ricerche logiche anticipano la prospettiva chomskyana anche nella concezione di una "grammatica universale" formale, "generativa" ed a regole). Analogamente, in grammatica generativa, l'accento è sempre sulla capacità delle regole della lingua di generare (non a caso la teoria è detta "generativa") ricorsivamente sempre nuove frasi.

La ricorsività investe ogni aspetto della lingua, anche se i generativisti la evidenziano prevalentemente come capacità di generare infinite frasi semplici (ad es. "Tizio dorme", "Caio mangia la zuppa", "Piove"), e come possibilità teoricamente illimitata di incassare frasi dipendenti (ad es. "[Sempronio compra la casa [che ha fatto il muratore [che viene dal paese [che è nella valle [che è bagnata dal fiume [che nasce dal monte [dove mia nonna raccontava [che ...]]]]]]]]": uno decide di fermarsi solo per ragioni pratiche, ma teoricamente potrebbe proseguire all'infinito).
Naturalmente, possiamo aggiungere noi, ciò è vero, evidentemente, anche per il lessico (il dizionario dei "segni" elementari della lingua, aspetto che interessa di meno alla prospettiva chomskyana): possiamo sempre introdurre lessemi nuovi per nuovi oggetti (pensate ad esempio ai frutti "esotici" entrati in occidente: non conoscendo la Bromelia ananas non avevamo certo una parola per designarla, ma questo non ci ha impedito di introdurla quando ne abbiamo avuto bisogno, nella fattispecie prendendola indirettamente dal guaraní, la lingua indigena del Paraguai) o per nuovi concetti (pensate a molti "nuovi" concetti introdotti dalla scienza come cibernetica, topologia, ecc.).


1.2.3 La dipendenza dalla struttura, il principio di proiezione e la teoria X-barra.


Quando diciamo "Pippo chiama Topolino" non diciamo la stessa cosa di "Topolino chiama Pippo" in quanto il significato delle due proposizioni è chiaramente diverso, ma quando diciamo "2+3" e "3+2" il significato, "5", non cambia. Il linguaggio umano, ossia, è caratterizzato da una dipendenza dalla struttura ("Structure Dependency"), laddove il linguaggio dell'addizione aritmetica è "indipendente" dalla struttura. Molti linguaggi "artificiali" (cfr. più avanti), compreso quello dell'aritmetica e compresi molti linguaggi informatici di programmazione, sono in effetti "structure independent": non così il nostro linguaggio naturale.
Se, però il linguaggio umano è sempre dipendente dalla struttura, a tutta prima la "struttura" in questione non sembra essere sempre la stessa. Se confrontiamo, ad esempio, in italiano e giapponese la composizione di una frase semplice od il modo in cui viene costruita una incassatura (l'abbiamo vista a livello di frase nel paragrafo precedente), una volta eliminate le combinazioni agrammaticali (tipo "del padre la casa di Taro") e insensate (tipo "una mela mangia Taro") in entrambe le lingue, otterremo il quadro seguente:


Taro mangia una mela ....|.... Taro una mela mangia
Taroo ga tabesan ringo o ....|.... Taroo ga ringo o tabesan

[La casa [del padre [di Taro]]] ....|.... [[[di Taro] del padre] la casa]
[ie [otosaan no [Taroo no]]] ....|.... [[[Taroo no] otosaan no] ie]

[tav. 2ab]
Il diverso modo di costruire una frase semplice (a) ed una "incassatura" (b) in italiano e giapponese. Le costruzioni agrammaticali (marcate con un asterisco nella tradizione chomskiana) nella tavola sono scritte in grigio.

La tavola evidenzia come l'ordine dei costituenti immediati sia diverso (in giapponese il verbo è in posizione finale, in italiano centrale) e come le incassature vengono diversamente impostate (in italiano sono costruite a destra, in giapponese a sinistra).
Uno potrebbe, pertanto, limitarsi a pensare che il solo fatto di essere dipendente da una struttura possa essere costitutivo del linguaggio umano, e non che la struttura sia poi questa piuttosto che quella. Chomsky, invece, pensa di potere andare più in là, e sostiene che in realtà alcuni principi della struttura del linguaggio sono universali, in particolare (1) il "principio di proiezione" e (2) la "teoria X-barra", che ne costituisce una sorta di corollario. Non sono concetti semplici e ci contenteremo di darne un'idea: per una esposizione più completa è meglio rifarsi ad una esposizione sistematica di grammatica generativa (come ad esempio quella che c'è in G. Graffi, Sintassi, Bologna, il Mulino, 1994).
Per principio di proiezione si intende, molto alla buona, che le proprietà degli elementi lessicali si proiettano sempre nella sintassi: ad es. alcuni verbi hanno la proprietà, definita a livello di lessico, di accompagnarsi sempre a due nomi (tipo "picchiare": "Topolino picchia Gambadilegno") altri ad uno solo (tipo camminare: "Pippo cammina") e questa proprietà deve essere rispecchiata dalla ( = "si proietta in") sintassi. Più formalmente, dunque, il principo suona "Le rappresentazioni di ogni livello sintattico sono proiettate dal lessico".
La teoria X-barra (il nome molto formalizzato e matematizzante è tipico dello stile chomskyano, tutt'altro che agevole per i non iniziati), invece, ci dice quale schema sintattico debbano poi assumere tutti i costituenti proiettati conformemente al principio precedente. Lo schema è quello della struttura sintagmatica, in cui ogni sintagma deve avere una testa ("X" è la tradizionale etichetta matematica per una variabile, che nella fattispecie può essere un costituente di qualsiasi tipo, ad es. un verbo, "V", un nome, "N", ecc.), e che la struttura è la medesima ad ogni livello (indicato dal numero delle "barre" sulla "X" - nella pratica le barre vengono di solito rappresentate con apici, più semplici da gestire tipograficamente). Lo schema generale è dunque il seguente:


La sintassi X-barra di Chomsky

[tav. 3]
Rappresentazione della sintassi X-barra della grammatica generativa. Riprodotto da Giorgio Graffi, Sintassi, Bologna, il Mulino, 1994, p. 162.


In effetti, se volete provare a sostituire, constaterete che tutte le diverse strutture del giapponese e dell'italiano sono rappresentabili nello schema X-barra. La prescrizione di entrambi i principi (proiezione ed X-barra) è molto generale, e potremmo anche dire, seguendo una argomentazione tipica della filosofia della scienza, che le due leggi "proibiscono poco" e quindi non sono molto potenti; però è anche vero che finora non è stata descritta nessuna lingua umana che le falsifichi.
In altri termini, la teoria X-barra dice in effetti molto poco sulla natura costitutiva del linguaggio che il programma chomskiano vuole portare in luce; è però molto utile per consentire l'analisi sintattica diretta (individuazione dei sintagmi elementari, altrimenti detta "analisi in costituenti immediati" o "chunking") di qualsiasi lingua data (per le modalità più in dettaglio cfr. il § 7.2, pp. 166-174, del manuale di Graffi - Scalise). È cioè un formalismo particolarmente utile a chi, come noi, studia delle lingue, ma non stupisce che nel programma minimalista, l'ultima versione del programma chomskiano, sia stato lasciato completamente cadere, dato che ci è di scarso aiuto per definire quel linguaggio che è l'oggetto di studio privilegiato di Chomsky.


1.2.4 I livelli del linguaggio: semantica, morfologia, sintassi, fonologia e discorso.


Il principio di proiezione, per cui le proprietà degli elementi lessicali si proiettano sempre nella sintassi, può essere preso anche come la base di una teoria modulare del linguaggio: il linguaggio, ossia, si articolerebbe in più livelli distinti, o "moduli" separati ma interrelati tra loro. Moduli tra cui andrebbero riconosciuti almeno quelli più profondi del lessico (semantica) ed anche (per Chomsky) della sintassi e quello più superficiale della fonologia. In effetti tutta la storia della grammatica generativa è caratterizzata dai concetti di struttura profonda e struttura superficiale, che vengono però articolate in una serie di modalità via via diversi a seconda dei diversi modelli chomskiani (alla turbinosa evoluzione del programma generativo, impossibile qui da seguire nel dettaglio, abbiamo più volte accennato) e dei molti modelli alternativi proposti dai generativisti "eretici" (o comunque di non stretta osservanza chomskiana). Questo, almeno, fino alla promulgazione del programma minimalista, in cui anche questo caposaldo della teoria generativa viene lasciato sostanzialmente cadere.


Il principio di proiezione nella Standard Theory (Aspects 1965) di Chomsky

[tav. 4]
Rappresentazione della struttura modulare del linguaggio, in base al principio di proiezione, secondo la cosiddetta "Standard Theory" (N. Chomsky, Aspects of the Theory of Syntax, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1965). Riprodotto da Ray Jackendorff, Foundations of Language. Brain, Meaning, Grammar, Evolution, Oxford (GB) - New York (USA), Oxford University Press, 2002, p. 109.
Riportiamo qui solo il modello comprensibile più immediatamente (cioè senza ricorrere ad illustrazioni apposite) tra i vari proposti da Chomsky, rinunciando a presentare quello della teoria GB perché troppo complesso. Un utile prospetto dei vari modelli proposti da Chomsky si può comunque trovare in Jackendorff 2002, cit., nel capitolo 5 The Parallel Architecture, pp. 107-151.


Ma nel merito del programma minimalista non è qui il caso di entrare; proveremo invece a presentare un modello multi-livellare, basato sul principio di proiezione, abbastanza ricco da abbracciare tutte le tradizionali parti della linguistica. Si tratta, badate bene, di un modello ideale, ipersemplificato ed "ingenuo" (e che pertanto non coincide con alcuno specifico modello di Chomsky) che rende conto dei tradizionali "livelli" (che corrispondono poi ai tradizionali capitoli in cui si scandisce ogni grammatica descrittiva di una lingua data) come proiezioni della struttura profonda del lessico (che identifichiamo con la semantica tout court, rinunciando ereticamente al "sintassicentrismo" caratteristico di Chomsky).


livelli glossa contenuto
Semantica significato lessicale e relazionale lessico e relazioni logiche di base (ruoli-theta, Caso, ecc.)
Morfologia formazione dei segni linguistici, dai minimi ai complessi morfemi ("parole", POS, caso, ecc.)
Sintassi combinazione dei segni linguistici sintagmi e frasi (struttura sintagmatica e frasale)
Fonologia significante, seconda articolazione fonemi
Discorso struttura informazionale testo e co-testo (tema/rema, topic/comment, noto/nuovo, ecc.)
Fonetica parole, esecuzione la realtà acustica dell'atto linguistico
Contesto mondo la situazione in cui entra l'atto linguistico

[tav. 5]
I diversi livelli in cui si scompone il linguaggio. I livelli "extralinguistici", cioè nel mondo e non più negli stati mentali, nella tavola sono scritti in grigio.
Si noti che alla fonte di ogni proiezione sta il lessico (come anche nel modello di Chomsky in Tav. 4) con le relazioni fondamentali che ogni entrata lessicale richiede, ma che in questo schema la sintassi occupa un ruolo distinto che è proiezione di quello semantico (a differenza del modello di Chomsky in Tav. 4). Inoltre la morfologia, in questo schema, occupa una posizione semplicemente di interfaccia più che di livello autonomo di proiezione (il che giustifica l'esistenza di lingue con morfologia ridottissima, come il cinese o l'inglese stesso, a fronte dell'inesistenza di lingue con una sintassi od un lessico analogamente ridotti).
Infine, alcune annotazioni terminologiche. Con Caso maiuscolo si sogliono indicare le relazioni sublogiche (secondo le chiamava Hjelmslev, cfr. quanto detto sui sistemi di casi locativi nel § 2.2.5) di causa, locazione, direzione, ecc., relazioni di fatto "prelinguistiche" o comunque presupposte da ogni lingua, perché presupposte dagli stati di cose esistenti nel mondo medesimo (il termine discende dalla traduzione latina casus del greco ptôsis, che però in Aristotele indicava anche le flessioni verbali, "casi del verbo", cfr. il passo del De interpretatione che avevamo visto all'inizio delle lezioni, e che vi invito per l'ennesima volta a rileggere); con caso minuscolo l'espressione esplicita che tali categorie possono ricevere (o non ricevere!) nella morfologia di una lingua data. Per POS, acronimo dell'inglese Part Of Speech, che ha ormai soppiantato il latino Pars Orationis) si intende, molto approssimativamente, la classe (nome, verbo, aggettivo ...) cui una parola di una lingua viene assegnata. Co-testo, infine, nella tradizione della linguistica testuale indica l'universo (mentale!) del discorso, per distinguerlo dal contesto che è invece l'universo (fattuale!) del mondo in cui l'atto linguistico, una volta effettuato, entra.


Alla fonte della proiezione, quindi, sta il lessico con le relazioni fondamentali che richiede: anche in un dizionario materiale (cartaceo od elettronico che sia), infatti, oltre che in quello mentale, a fianco del significato di un lemma, sono indicate le reggenze (es.: chiedere qualcosa a qualcuno) e/o le classi di accordo (es: genere maschile). Le categorie relazionali di solito richieste da un predicato (cioè da un elemento che può formare una frase) sono tipicamente quelle che la tradizione generativa chiama "ruoli-theta" o "ruoli tematici" (con una etichetta invero ambigua, dato più spesso si parla di struttura tematica e di tema per il livello del discorso!), cioè le classi di azionalità "agente", "paziente" e "stato".

Questo modello di organizzazione multi-livello del linguaggio può servire a chiarirci definitivamente una nozione fondamentale (in sé, ma anche indispensabile per affrontare lo studio di una lingua straniera) come quella di soggetto, per poi a mettere alla prova tale comprensione con le diverse soluzioni e strategie poste in campo dalle lingue del mondo. E ne abbiamo davvero bisogno, perché, anche se ne siamo inconsapevoli ed anzi ci illudiamo perlopiù del contrario, abbiamo in realtà, tradizionalmente, delle idee piuttosto confuse in materia. Purtroppo, infatti, la prima definizione di soggetto che istintivamente ci viene in mente (che è poi quella che tutte le nostre maestre delle elementari, nella loro beata incoscienza, ci hanno ahinoi sempre inculcato) è che "il soggetto è colui che fa l'azione". Bastano tuttavia pochi esempi per convincerci che spesso ciò non funziona: i soggetti delle frasi italiane Pietro soffre e Milano si trova in Lombardia tutto sembrano fare meno che "fare un'azione", e precisamente Pietro patisce anziché promuovere una azione, e Milano lungi dal fare qualsiasi azione si trova piuttosto in uno stato.
La ragione di questo pasticcio è che si sono scambiate categorie di livello semantico (ruoli azionali o "ruoli-theta") con categorie di livello sintattico: la nozione di agente è a livello semantico e quella di soggetto a livello sintattico. Una definizione più corretta di soggetto che non esca dal livello pertinente sarebbe pertanto qualcosa del tipo "il primo argomento di un predicato", "il partecipante minimo di un predicato" o simili, in cui comunque nessun riferimento è fatto al supposto ruolo agentivo espletato dal soggetto.

Ad analoghi fraintendimenti è spesso esposta la nozione di tema, che, cosa grave specie in chi studia lingue orientali (cinese e giapponese), non viene sempre chiaramente distinta da quella di soggetto, anche questa volta per una non esplicita discriminazione tra i diversi livelli cui le due nozioni si riferiscono: quello del discorso (tema) e quello sintattico (soggetto). Nella frase italiana (normale nel parlato, dove è accompagnata da una speciale intonazione, ma riprovata nello scritto) Gigi, i ladri gli hanno svaligiato la casa a livello sintattico il "soggetto" è i ladri e lo sfortunato Gigi è semplicemente "fuori sintassi" (non a caso la grammatica normativa vieta questo tipo di frasi, che chiama anacolute, cioè agrammaticali, perché semplicisticamente le ritiene costruite con "due soggetti"!), ma a livello del discorso la struttura informazionale di questa frase vuole che il "tema" (ciò di cui si parla, l'argomento del discorso) sia Gigi, mentre i ladri e quello che hanno fatto siano l'informazione nuova (il rema) che viene fornita: struttura sintattica e struttura informazionale non coincidono.
Questa possibile non coincidenza, non frequente nell'italiano scritto sorvegliato, è invece frequente ed anzi perfettamente inserita nelle regole grammaticali di lingue come il cinese ed il giapponese (sia pure con modalità tra loro molto diverse). Càpita infatti di trovare linguisti che ne parlano come di lingue che non esprimono tanto la categoria del soggetto (assurdo: se una lingua ha sintassi, come per forza deve avere, come potrebbe non esprimere un soggetto?) quanto quella del tema, e del pari trovare tradizioni linguistiche che chiamano questi "temi grammaticalizzati" come "soggetti", gettando i lettori in comprensibile confusione. Siete quindi avvisati!


1.2.5 Le interfacce morfologiche semantica - sintassi: accusativa, ergativa, agentiva, ternaria e direttiva.


In questo paragrafo ci allontaneremo completamente da Chomsky, che pure è il filo principale del capitolo, per una digressione, breve ma importante, che nasce spontanea dall' osservazione (tangenziale rispetto al percorso chomskiano ma per noi fondamentale) che abbiamo appena fatto nel capitolo precedente: la nozione di soggetto pertiene al solo livello sintattico e va distinta da quella di ruolo agentivo al livello semantico. Per mettere (come accennavamo) alla prova la nostra comprensione di ciò, ci proponiamo ora di amplificare l'argomentazione, esaminando quali delle combinazioni teoriche tra ruolo agentivo e ruolo sintattico, e con che interfaccia morfologico, si trovino di fatto usate nelle lingue del mondo. L'argomento, oltre che interessante in sé, è, infatti, particolarmente utile proprio per acquisire sicurezza sulle nozioni di soggetto ed oggetto.

Partiamo dalla considerazione di quattro tipi di predicati esemplari, usando per lo scopo quattro verbi latini (il latino, avendo caso morfologico esplicito sul nome ci consente di verificare l'interfaccia morfologico più immediatamente dell'italiano, in cui non si ha marca morfologica di caso): uno che richiede in sintassi due argomenti, soggetto ed oggetto (cioè un verbo transitivo tipico), e tre che richiedono un argomento solo, il soggetto, (cioè tre tipici verbi intransitivi): edere 'mangiare' [TR = transitivi], ire 'andare' [ITR1 = intransitivi attivi], dole:re 'soffrire' [ITR2 = verba patiendi vel eventi] e iace:re 'giacere' [ITR3 = stativi].


verbo es. latino liv. semantico liv. morfologico liv. sintattico
TR Petrus edit assum
Petr-us Pietro-NOM ed-it mangiare-IND.PR.3s ass-um bistecca-ACC
'Pietro mangia la bistecca'
A - P Nom - Acc S - O
ITR1 Petrus it
'Pietro va'
A Nom S
ITR2 Petrus dolet
'Pietro soffre'
P Nom S
ITR3 Petrus iacet
'Pietro giace'
St Nom S

[tav. 6]
L'interfaccia cosiddetto "accusativo" o "nominativo - accusativo" tipico di molte lingue tra cui l'italiano ed il latino: quattro esempi rivelatori in latino. A livello semantico "A" sta per agente, "P" per paziente e "St" per stato; a livello morfologico "Nom" sta per caso nominativo e "Acc" per caso accusativo; a livello sintattico, infine, "S" sta per soggetto e "O" per oggetto.


È questo il tipo di interfaccia che viene normalmente chiamato accusativo o "nominativo-accusativo". Come evidente dal fascio di esempi di tavola 6 in latino (e così in italiano ed in genere nella maggior parte delle "nostre" lingue europee) si verifica un accordo sistematico tra morfologia e sintassi che non considera i diversi ruoli semantici di fondo: la morfologia, in altre parole, rappresenta le relazioni sintattiche (tutti i soggetti sono sempre marcati con uno stesso caso) e non quelle semantiche (i pazienti, ad esempio, possono essere sia al caso nominativo sia al caso accusativo).
Questo tipo di mapping tra livelli è per noi ormai talmente scontato, che tendiamo istintivamente a considerarlo l'unico naturale (se non additittura l'unico possibile). Ma così non è.

Una soluzione, infatti, affatto diversa dall'accusativa e quasi altrettanto frequente nelle lingue del mondo, anche se rara in Europa dove è tipica solo del Basco, è l'interfaccia che viene chiamato ergativo o "ergativo-assolutivo". L'ergatività, su cui la bibliografia linguistica è oggi immensa, è una caratteristica che è stata descritta scientificamente soprattutto da Robert Malcom Word Dixon, che l'ha individuata dapprima nelle lingue australiane, di cui è il massimo conoscitore (cfr. l'articolo fondante R. M. W. Dixon, Ergativity, in "Language" LV (1979) 59-138 ed ora il più recente volume, dallo stesso titolo, R. M. W. Dixon, Ergativity, Cambridge, Cambridge University Press, 1994; assai utili anche i saggi raccolti in Studies in ergativity edited by R. M. W. Dixon, Amsterdam, North-Holland, 1987). Senza cercare di strafare con una casistica troppo minuziosa, un piccolo fascio di esempi diagnostici in basco può facilmente introdurci a questa struttura:


verbo es. basco liv. semantico liv. morfologico liv. sintattico
TR zaldiak gizona ikhusi du
zaldi-a-k cavallo-ARTdef-ERG ikhusi du V gizon-a-Ø uomo-ARTdef-ABS
'il cavallo ha visto l'uomo'
A - P Erg - Abs S - O
ITR1 gizona joan da
gizon-a-Ø uomo-ARTdef-ABS joan da V
'l'uomo è partito'
A Abs S
ITR2 autoa konpontzen ari dira
auto-a-Ø auto-ARTdef-ABS konpontze-n riparazione-INES ari dira V
'la macchina è (lett. sta subendo) in riparazione'
P Abs S
ITR3 Hemen dago unibertsitatea
Hemen qui dago V unibertsitate-a-Ø università-ARTdef-ABS
'qui c'è l'università'
St Abs S

[tav. 7]
L'interfaccia cosiddetto "ergativo" o "ergativo - assolutivo" tipico di quasi tutte le lingue caucasiche, delle lingue australiane, delle Maya (Messico e Guatemala), delle Salish (W USA e Canada), del chukchee (Siberia NE), ecc., ma raro in Europa: alcuni esempi diagnostici in basco. Per semplificare glosso la sola morfologia nominale, dove è chiaramente visibile il gioco del caso morfologico, omettendo di analizzare il verbo (glossato semplicemente "V", verbo) che, spesso perifrastico, presenta comunque regolare accordo, prevalentemente prefissale, con i nominali esterni, perché la sua struttura è molto più complessa e meno intuitiva. Gli esempi dell'uomo e del cavallo sono quelli ormai famosi usati da André Martinet nella sua Syntaxe générale, Paris, Armand Colin, 1985, p. 201, e di lì spesso riportato nella letteratura secondaria.
Le sigle sono le medesime della tavola 6, cui si aggiungano "Erg" per caso ergativo, "Abs" per caso assolutivo e "Ines" per caso inessivo (cioè il caso dello stato generico ed in luogo).
Significativo e curioso è che per rendere conto di questa situazione le grammatiche tradizionali di basco, almeno fino al primo terzo del secolo scorso, in mancanza di nozioni teoriche migliori (come appunto l'ergatività), dicevano che il basco è una strana lingua in cui le frasi si trovano normalmente solo al passivo ...


In generale, in un sistema ergativo i soggetti dei predicati monoargomentali sono trattati diversamente da quelli dei biargomentali; in altri termini, i soggetti dei transitivi sono marcati in un modo (ergativo), ed i soggetti degli intransitivi (quali che siano i loro ruoli agentivi) sono marcati in un altro modo ancora che è anche lo stesso degli oggetti (assolutivo: o meglio sono perlopiù tutti lasciati non marcati). Gli oggetti (secondo partecipante) dei transitivi si trovano così ad essere marcati come i soggetti (partecipante unico) degli intransitivi. La coincidenza tra livello morfologico e livello sintattico, quindi, non è più perfetta come nella struttura accusativa, ma è invece migliorata la vicinanza tra livello semantico e sintattico, in quanto il soggetto dei transitivi (l'unico marcato come "ergativo") è normalmente (che vale a dire "è statisticamente più frequente che sia") un "agente" sul piano semantico.

In realtà, va detto, non si trovano quasi mai delle situazioni di ergatività (od accusatività) davvero pure: quasi sempre tutti i sistemi presentano dei margini più o meno anomali. Lo stesso basco, ad esempio, è a volte incerto nel trattare alcuni stativi ed alcuni verba patiendi come intransitivi (ITR3 e ITR2 col soggetto all'assolutivo), come di regola ci si aspetterebbe, o piuttosto come transitivi (TR col soggetto all'ergativo): ad es. hankak mina ematen dit 'la mia gamba duole' (hanka-k gamba-ERG). D'altra parte, non sarà inutile ricordare che anche il modo con cui le relazioni logiche vengono categorizzate nella grammatica di una lingua rientra in quella sfera d'arbitrarietà cui ogni langue soggiace: in italiano, ad esempio, passeggiare è intransitivo laddove in latino era transitivo (cfr. latino bos rura [ACC] perambulat ed il corrispondente italiano il bue passeggia per i campi).
Quando poi queste "eccezionalità" si trovano ad investire una sezione consistente e regolare della grammatica di una lingua (cioè non sono più delle "eccezioni"!) si parla di split ergativity. Casi tipici di split ergativity sono ad esempio situazioni in cui i pronomi hanno marca accusativa ed i nominali ergativa (dyirbal ed altre lingue australiane studiate da Dixon), od in cui si ha marca ergativa nei tempi perfettivi ma non negli imperfettivi (come ad es. in hindi).


verbo es. wargamay (normale: ergativo con nominali) liv. semantico liv. morfologico liv. sintattico
TR maalndu ganal ngunday
maal-ndu uomo-ERG ganal-Ø rana-ABS ngunday V
'the man is looking at the frog'
A - P Erg - Abs S - O
TR ganalndu maal ngunday
ganal-ndu rana-ERG maal-Ø uomo-ABS ngunday V
'the frog is looking at the man'
A - P Erg - Abs S - O
ITR1 maal gagay
maal-Ø uomo-ABS gagay V
'the man is going'
A Abs S

verbo es. wargamay (split: accusativo con pronomi) liv. semantico liv. morfologico liv. sintattico
TR ngali ganal ngunday
ngali-Ø noi.due-ABS=NOM ganal-Ø rana-ABS ngunday V
'we two are looking at the frog'
A - P Nom - Abs S - O
TR ganalndu ngalinya ngunday
ganal-ndu rana-ERG ngali-nya noi.due-ACC ngunday V
'the frog is looking at us two'
A - P Erg - Acc S - O
ITR1 ngali gagay
ngali-Ø noi.due-ABS=NOM gagay V
'we two are going'
A Nom S

[tav. 8ab]
Un esempio classico di split ergativity tratto da una delle lingue australiane su cui Dixon edificò la categoria medesima, il wargamay, una lingua pama-nyungan del Queensland orientale della medesima sottofamiglia del dyirbal caro a Dixon: qui lo split è attivato dalla scelta tra nominali liberi o pronomi come teste dei sintagmi nominali (SN); la morfologia è marcata solo sui SN, mentre i verbi sono non marcati; l'ordine delle parole, tra l'altro, è assolutamente libero. I dati sono tratti da John Lynch, Pacific Languages: an Introduction, Honolulu, University of Hawai'i Press, 1998, pp. 199-200.
Come bene commenta Lynch 1998 cit., p. 200, «These sentences show that, although the name ganal 'frog' [come anche il nome maal 'uomo'] behaves ergatively, the pronoun ngali 'we two' behaves accusatively. It has the same form (ngali) when it is subject either of an intransitive or a transitive verb, but a different form (ngali-nya) when it is the object of a transitive verb. In this respect it behaves exactly like it equivalent we/us in English».


Si possono anche trovare semplicemente tracce di ergatività in lingue normalmente accusative come persino in latino (la coincidenza di Nom=Acc nei neutri sembra rimandare ad un antico assolutivo: un neutro, tendenzialmente, raramente ricoprirà il ruolo di "agente" = "soggetto" di un transitivo).
Globalmente, comunque, più dei tre quarti delle lingue del mondo hanno strutture accusative, ergative e, più spesso, miste.

Esistono però anche altre soluzioni possibili al problema. Tra queste la più diffusa è un interfaccia, analiticamente individuato solo negli anni '90 dalla illustre americanista Marianne Mithun (cfr. M. Mithun, Active/Agentive Case Marking and its motivations, in "Language" LXVII (1991) 510-546 e M. Mithun, The Languages of Native North America, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 1999, pp. 213-221) che qui chiameremo agentivo (le etichette "attivo/stativo" e "agente-paziente" più che dei sinonimi vanno considerati dei sottotipi, come vedremo tra poco). Anche questa volta sarà un fascio diagnostico di esempi a guidarci in questa nuova matassa; la lingua prescelta è lo haida, una lingua isolata parlata nelle isole Queen Charlotte fino, a Sud, alla costa della British Columbia (Canada) ed a Nord all'Alaska di cui sopravvivono circa una sessantina di parlanti; in haida le marche morfologiche di caso non sono espresse direttamente nel nome o nel verbo ma sono affidate a degli elementi pronominali indipendenti:


verbo es. haida liv. semantico liv. morfologico liv. sintattico
TR la hlaa qinggigaan
la 3.PZ hlaa 1S.AG qing-gigaan see-PAST
'I already saw him'
A - P Ag - Pz S - O
ITR1 hlk'in xha giyu hlaa qaydaan
hlk'in woods xha DIST giyu toward.FG hlaa 1S.AG qayd-aan go-PAST
'I went up into the wood'
A Ag S
ITR2 haawnu dii xwigaan
haawnu there dii 1S.PZ xwi-gaan cold-PAST
'I was cold there'
P Pz S
ITR3 dii cinGa st'iga
dii 1S.PZ cin-Ga grandfather-REFERENCE st'iga sick
'my grandfather is sick'
St Pz S

[tav. 9]
L'interfaccia cosiddetto "agentivo" tipico di molte lingue americane, tra cui il guaraní (Perù), le lingue Pomo (California), Sioux (USA CE), Caddo (USA CE) ed Irochesi (USA NE): alcuni esempi diagnostici in haida (NW Canada e Alaska). Gli esempi sono tratti da Marianne Mithun, The Languages of Native North America, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 1999, pp. 213-217 e 414-417; le grafie delle diverse fonti usate dalla Mithun e le minuzie dialettali sono state qui uniformate (date le finalità più didattiche che scientifiche di questa presentazione) e l'ortografia è stata in genere adattata alle esigenze dell'HTML (pertanto "hl" sta per "l tagliata", "aa" per "V capovolta", cioè il grafo IPA della posteriore bassa non arrotondata, "ng" per il grafo IPA della "n velare", "7" per il grafo IPA della occlusiva glottale, "dj" per "j con pipa", "xh" per "x con pipa" e "G" per "g con pipa)".
Le sigle sono le medesime della tavola 6, cui si aggiungano "Ag" per caso agentivo e "Pz" per caso pazientivo oltre a "FG" per Foreground (primo piano, topic) e "DIST" per Distance.


Abbiamo a che fare questa volta, come ben evidente dagli esempi precedenti, con una struttura completamente diversa da quelle accusative od ergative che abbiamo visto prima: là la morfologia si accordava con la sintassi (in modo esclusivo nelle lingue accusative, ed in modo parziale nelle ergative), qui invece si ha accordo perfetto con la semantica (laddove nelle lingue ergative si aveva accordo parziale) a completa esclusione della sintassi. Le categorie (sintattiche) di soggetto ed oggetto risultano perciò completamente refrattarie alla morfologia delle lingue agentive la cui «grammatical categorization [is] based on the semantic role of the partecipant» (Mithun 1999 cit. p. 215).
Come migliore dimostrazione di ciò, si veda il primo esempio della tavola seguente (Tav. 9), che illustra come neppure la combinazione "A-P = S-O" in queste lingue sia indispensabile, potendo un verbo transitivo tranquillamente avere come argomenti due pazienti. Certo, che i partecipanti del verbo 'amare' debbano essere entrambi "pazienti" può risultare non molto intuitivo, e, al di là della "differenza antropologica" coinvolta in simili valori, questo ci porta a qualche ulteriore riflessione linguistica.

In effetti, il sistema descritto sarebbe semplice non fosse che proprio la definizione esatta di quali siano i ruoli agentivi di base (agente, paziente, stato) non è sempre così ovvia come (per semplicità espositiva) abbiamo inizialmente assunto: ed è ormai tempo di introdurre alcune precisazioni, soprattutto per quanto riguarda l'individuazione della categoria di agentività. L' "agente", infatti, sembra essere principalmente legato alle nozioni di iniziazione e/o controllo di un'azione. Per usare le parole di Mithun 1999 cit. p. 215-6 «In most contexts, istigation and control coincide. One who dances normally instigates and controls the dancing. In the relatively rare situations in which instigation and control do not cooccur, languages differ in their categorization. In some the instigation is criterial; in other it is the control. One who hiccups, for example, might be seen as the instigator of the hiccups, but not in control. [...] In Haida, instigation generally takes precedence over control». Lingue agentive in cui, invece, sia la categoria di controllo ad avere predominio sono tipicamente le lingue Pomo.
Questo in parte spiega la natura di pazienti dei due partecipanti del verbo 'amare' nello strano esempio transitivo di Tav. 9: innamorarsi non è visto come uno stato mentale cui uno può deliberatamente dare inizio: càpita, ed il "capitare" è in qualche modo fuori della facoltà del soggetto di iniziarne l'azione, anche se può poi (sperabilmente) "prenderne controllo". Analogamente in Haida pronomi agentivi (anziché pazie ntivi) occorrono con stativi (ITR3) come 'essere sospettosi', 'essere seduti', 'essere in qualche posto', come nel secondo esempio da Tav. 9: «states like these differ from those like 'be dizzy' or 'be sad' [come l'es. 4 della Tav. 8] in that they are seen as instigated by the person involved». Questa interpretazione è appoggiata anche dal ricorrere di pronomi agentivi in qualche verbo che denota eventi (normalmente ITR2) come 'cadere', 'inzupparsi', 'avere i crampi', ecc. come nel terzo esempio di Tav. 9.


verbo es. haida liv. semantico liv. morfologico liv. sintattico
TR daang dii kuyaadang
dang 2S.PZ dii 1S.PZ kuyaadang love
'I love you'
P - P Pz - Pz S - O
ITR3 gwayay gu 7u hlaa 7idjinni
gway-ay island-the gu on 7u FG hlaa 1S.AG 7idj-inn-i exist-PAST-old
'I was out on the islands'
P Ag S
ITR2 K'yuwaast dii dlawiigann
K'yuw-aa-st trail-the-from dii 1S.PZ dlawii-gann fall-PAST
'I fell off the walk'
A Pz S

[tav. 10]
L'interfaccia cosiddetto "agentivo" in haida: casi "eccezionali" caratteristici.
Le sigle e le convenzioni ortografiche sono quelle usate nella tavola 8, ed altrettanto vale per le fonti impiegate.


Questa situazione descritta per lo Haida è abbastanza tipica di quasi tutte le lingue agentive, ed è propriamente quella che è stata anche chiamata "agente-paziente" per contrapporla a quella (lievemente diversa) "attivo/stativo", in quanto la categorizzazione grammaticale (morfologia) è basata sul ruolo semantico dei partecipanti piuttosto che sull'aspetto del verbo, come sarebbe in un sistema in cui si contrappongano veramente "attivo" e "stativo" (ed in cui non si dovrebbero, pertanto, avere gli splits appena discussi sugli ITR2 e soprattutto sugli ITR3, il cui "soggetto" dovrebbe sempre essere morfologicamente un pazientivo). In realtà sistemi "attivo/stativo" puri sembrano essere assai rari, la situazione più tipica essendo normali sistemi agentivi di tipo "agente-paziente", cui si sovrappone eventualmente una classe stabile di verbi stativi morfologicamente individuata (questo è ad esempio il caso delle lingue Irochesi).

Tutti i sistemi finora descritti risultano in un mappaggio delle varie categorie semantiche e sintattiche su sole due categorie morfologiche. «It has often been suggested that such mergers are optimally efficient, since in all of the sistems, whenever two core arguments could appear within the same clause (a transitive), they have distinct forms» (Marianne Mithun, The Languages of Native North America, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 1999, p. 228).
Esistono però anche altre possibili soluzioni logiche, con meno mergings e più categorie morfologicamente espresse. Di fatto, nelle lingue del mondo sembra attestata almeno un intefaccia ternario anziché binario, che è tipico del nez perce (autodenominazione nimí:pu:) una lingua Sahaptin un tempo diffusa nel Plateau, l'area tra Washington, Oregon ed Idaho, di cui restano oggi solo una sessantina di parlanti.
In nez perce il soggetto e l'oggetto dei transitivi (TR) hanno marche distinte (caso ergativo e caso accusativo), mentre i soggetti (partecipante unico) di tutti gli intransitivi (ITR1-3) sono ugualmente non marcati (casi assolutivo).


verbo es. nez perce liv. semantico liv. morfologico liv. sintattico
TR 7óykalom titóoqanm páaqa7ancix xxáxxaasna
7óykalo-nim 'all'-ERG titóoqan-nim 'people'-ERG páaqa7ancix 'they respect him' xxáxxaas-ne 'grizzly'-ACC
'All people respect Grizzly'
A - P Erg - Acc S - O
ITR1 xxáxxaas hiwéhyem
xxáxxaas-Ø 'grizzly'-ABS hiwéhyem 'he has come'
'Grizzly has come'
A Abs S

[tav. 11]
Alcuni esempi diagnostici in nez perce. Gli esempi sono tratti da Marianne Mithun, The Languages of Native North America, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 1999, pp. 228-29, e risalgono a Noel Rude, Studies in Nez Perce Grammar and discourse, University of Oregon, 1985, PhD. L'ortografia è stata ulteriormente normalizzata per comodità di html (ad esempio usando "7" per il grafo IPA della occlusiva glottale e "xx" per la "x" col punto sottoscritto, cioè la fricativa uvulare), e l'analisi morfologica è stata semplificata drasticamente per finalità didattiche, rinunciando (come giàavevamo fatto per il basco) ad analizzare i complessi verbali, bastandoci le marche sul nome.


A differenza dei sistemi precedenti rinunciamo a descrivere con un fascio dettagliato di esempi anche questo tipo, per limiti di spazio e di rilevanza. Oltre tutto il nez perce presenta una complessità ulteriore: nel nez perce anche il livello del discorso (come del resto, differentemente, accade anche in una lingua accusativa come il giapponese) entra pesantemente nel gioco della assegnazione del caso morfologico in quanto alcuni oggetti (pazienti di un evento semanticamente transitivo) non possono essere marcati come accusativi se non sono abbastanza topicali ed allora rimangono all'assolutivo come i normali partecipanti unici degli intransitivi (la strategia, se vogliamo, è opposta a quella del giapponese, dove è il soggetto [wa vs. ga] e non l'oggetto [o] ad essere sottodistinto per ragioni tematiche).
Come che sia, il ternario rappresenta una terza variazione sul medesimo tipo dell'accusativo e dell'ergativo, con l'unica differenza che tre marche anziché solo due (come necessario) sono chiamate a sostenere il gioco. Probabilmente, anzi, è proprio questa antieconomicità a spiegarne la rarità. Infatti sistemi ternari del genere sono rarissimi nelle lingue del mondo e pare che il nez perce ne rappresenti l'unico esempio chiaramente descritto, certo proprio per via della ridondanza di cui dicevamo. È comunque istruttivo come una così preziosa "rarità tipologica" sia attestata solo in una lingua in pericolo di estinzione: è anche la glottodiversità un bene prezioso del mondo che andrebbe difeso a spada tratta, non meno della biodiversità di cui la coscienza ecologica moderna sembra prevalentemente occuparsi.


Vedendo di tirare le fila del discorso che abbiamo fin qui fatto, i diversi tipi di intefaccia che abbiamo esaminato si potrebbero schematicamente disegnare al modo seguente:


Le interfacce semantica-morfologia-sintassi nelle lingue del mondo

[tav. 12]
Rappresentazione schematica dei principali tipi di interfaccia tra semantica, morfologia e sintassi presenti nelle lingue del mondo, per i quattro predicati diagnostici: TR (transitivi), ITR1 (intransitivi attivi), ITR2 (intransitivi verba patiendi ed eventi) ed ITR3 (stativi). Per ogni tipo le due colonne verticali rappresentano le relazioni sintattiche (S - O: soggetto ed oggetto), le sigle scritte nelle colonne le relazioni semantiche (A - P - St: agente, paziente e stato) e gli insiemi tratteggiati in colore, infine, identificano le relazioni casuali istituite dalla morfologia (NOM, ACC, ERG, ABS, AG, PZ: casi rispettivamente nominativo, accusativo, ergativo, assolutivo, agentivo e pazientivo).


Nonostante la loro relativa accuratezza, resta ancora fuori dai dati precentemente forniti e riassunti nella tavola 10 qui sopra un ùltimo, particolarissimo, tipo di interfaccia, il cosiddetto direttivo tipico soprattutto della ventina di lingue (più molte estinte o moribonde) della famiglia algonkina, parlate prevalentemente nel Canada centrale e meridionale (dove sono vitali, da E a W: naskapi, cree, ojibway, blackfoot, per menzionare solo le principali) e negli USA orientali (dove sono estinte) e centrosettentrionali (nei Great Lakes), dal Labrador alla Carolina, ma con importanti propaggini nel centro (Plains), con illinois e shawnee, e nel centro-ovest (Wyoming, Colorado), con cheyenne ed arapaho, e fin in California, col yurok ed il wiyot (estinti): complessivamente, si tratta forse della famiglia linguistica più grande del Nordamerica. A questo nucleo principale vanno aggiunte poche altre lingue americane come le tano (USA SW: New Mexico; la zona etnograficamente nota come dei pueblos) e l'isolato kutenai (British Columbia, Idaho e Montana); fuori dal Nordamerica vi sono pochissimi casi: nel Sudamerica la lingua più nota di questo tipo è il mapuche (o mapudungun) del Chile cui si può aggiungere il malandato movima della Bolivia e poco altro; nel resto del mondo vi sono solo le tibetiche (propriamente qiang) lingue rgyalrong del Sichuan occidentale, e si è parlato anche del jarawara nelle isole Andamane. Tra le lingue algonkine, tra l'altro, vi sono anche lingue molto vitali e con buon numero di parlanti come l'ojibway (c. 50.000) ed il cree (c. 67.000).
Fino ad ora abbiamo, quando possibile, cercato di scegliere per le nostre esemplificazioni lingue sì significative, ma in cui il meccanismo che vogliamo studiare fosse in qualche modo "visibile" in modo efficacie (usando per le lingue accusative il latino perché lingua con caso morfologico esplicito, per le ergative il basco limitato al solo sistema nominale ed il wargamay perché più "semplice" dell'affine dyirbal, per le agentive lo haida perché basato su clitici indipendenti); accettando di affrontare le lingue algonkine sembrerebbe che facciamo una scelta eccezionale, perché sono lingue straordinariamente complesse.

Si tratta, infatti, proprio di quelle lingue come mediamente uno si immagina le lingue native americane, quelle cioè cosiddette polisintetiche, in cui ad una o più frasi di una lingua occidentale corrisponde una parola sola, tipicamente un verbo; un'altro esempio di ciò è l'esempio dato più avanti, in cui all'inglese (fondamentalmente analitico, cioè in cui ad ogni morfema corrisponde una parola) è opposto il kalaallit oqaasii, eskimo groenlandese occidentale (polisintetico, appunto).
Il verbo algonkino, in effetti, è caratterizzato da due distinti processi morfologici: (1) quello della flessione (per cui ad un tema si affiancano, prima o dopo esso, circa una decina - dipende dalle lingue - di posizioni flessive, di cui indispensabili sono solo le marche personali), già in sé assai complesso, che determina quattro paradigmi (TA: transitivi animati; TI: transitivi inanimati; IA: intransitivi inanimati; II: intransitivi inanimati), molto articolati in ordini e modi; (2) la formazione delle parole, cioè la costruzione dei temi verbali sottoponibili a flessione: ed è questo il processo che genera le tanto temute parole-frasi.


La struttura del temata nelle lingue algonkine

[tav. 13a]
La struttura delle basi (temi) delle parole (principalmente verbi, ma non solo) algonkini; da H. Christoph Wolfart, Sketch of Cree, an Algonquian Language, in Handbook of North American Indians, Volume 17 Languages, Washington, Smithsonian Institution, 1996, pp. 390-439 (Fig. 2 a p. 425).
I temi primari possono essere costituiti da tre componenti, le iniziali, ossia le radici, la parte indispensabile di un tema (il morfema, in altri termini, che può comparire liberamente, cioè accompagnato dalle sole flessioni); le mediali, morfemi prevalentemente che denotano parti del corpo o che hanno valori di "classificatore" (che possono ricorrere in più classi di parole); e le finali, ossia i formanti che determinano in modo esplicito a quale classe di parole (verbo, tipo di verbo, nominale, ecc.) un tema appartenga. Questo procedimento ternario di formazione dei temi può essere replicato ricorsivamente teoricamente all'infinito, sia "concatenativamente" (A, nella figura, cioè sintagmaticamente) sia "verticalmente" (B, nella figura, cioè paradigmaticamente), generando quel numero elevatissimo e potenzialmente "aperto" di temi secondari.



La formazione delle parole in cree

[tav. 13b]
Esempi di formazione delle parole in una lingua algonkina, il cree; da H. Christoph Wolfart, Sketch of Cree, an Algonquian Language, in Handbook of North American Indians, Volume 17 Languages, Washington, Smithsonian Institution, 1996, pp. 390-439 (Fig. 2 a p. 425).
Nelle sigle usate per classificare i temi volta a volta formati V e N valgono, ovviamente, 'verbo' e 'nome', così come T e I 'animato' ed 'inanimato' e T ed I 'transitivo' ed 'intransitivo', che insieme formano, come abbiamo detto, la principale griglia classifiocatoria dei paradigni algonkini.

Anche se mi sembrava interessante accennarlo, possiamo prescindere da tutto ciò e prendere in considerazione della parole minime, cioè dei verbi costituiti solamente da un tema (semplice, perciò dato da una mera iniziale e dal minimo indispensabile di formanti tematici della finale) + flessione (costituita dalle sole marche personali). E dico verbi perché in queste lingue le distinzioni che ci interessano sono tutte marcate nel complesso verbale che (anche se può anche essere, come abbiamo visto, molto cospicuo) può essere, come dicevamo, ridotto al nudo scheletro di iniziale e finale tematiche + flessione personale. Gli esempi diagnostici che vi presenterò al modo solito, anziché del cree saranno nell'affine ojibway, ai nostri scopi forse più "leggibile" (cioè visivamente segmantabile):


verbo es. ojibway liv. semantico liv. sintattico
TR nbiinaa
n-ø-biin-aa 1-3-'portare'-FT(D)
'I bring him/her'
A - P S - O
TR nbiinigw
n-ø-biin-igw 1-3-'portare'-FT(D)
'S/he bring me'
A - P S - O
ITR1 nbooz
n-boo-izi 1-'salpare'-FT
'I am embarking'
A S
ITR2 nwaabmigoo
n-waabam-igwi 1-'veder'-FT(D=PS)
'I am seen'
P S
ITR3 nwiiniz
n-wiin-izi 1-'sporco'-FT(IA)
'I am dirty'
St S

[tav. 14]
Fascio diagnostico di esempi in una lingua "direttiva", l'ojibway: la prima persona -n. Gli esempi sono tratti da Marianne Mithun, The Languages of Native North America, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 1999, pp. 222-26, e risalgono a Richard Rhodes, The Morphosyntax of Central Ojibway Verb, University of Michigan, 1976, PhD. L'ortografia è stata ulteriormente normalizzata per comodità di html (ad esempio usando il grafo geminato per le vocali lunghe), e l'analisi morfologica è stata semplificata drasticamente per finalità didattiche. In particolare, comne ovvio, i numeri stanno per le persone ed FT per 'finale tematica', poi sottospecificata in IA 'intransitivo animato', PS 'passivo', ecc. (il valore di D lo sveleremo tra poco).
Il livello morfologico non è apparentemente dirimente, e quindi non lo si è marcato.


Ora, la stranezza è che sembra esserci apparentemente un'unica batteria di affissi pronominali, per qualunque dei ruoli semantici o sintattici che abbiamo fin qui esaminato: il prefisso di prima persona n- è usato tanto per S = A (TR nbiinaa 'io lo/a porto, ITR1 nbooz 'io mi imbarco'), come per O = P (TR nbiiniigw 'lui/lei mi porta'), come per S = P (ITR2 nwaabmigoo 'io sono visto') come per S = St (ITR3 nwiiniz 'io sono sporco'). Se è vero che ciò non crea particolari problemi laddove si ha partecipante unico (intransitivi e stativi: comunque è un soggetto sintattico), viene però da domandarsi come se la cavino nelle frasi transitive, dove non è irrilevante se, ad esempio, sono io che uccido te o tu che uccidi me.
Inoltre, la soluzione del problema non è demandabile ad eventuali nominali esterni, che sono sempre ugualmente (non) marcati:


verbo es. ojibway liv. semantico liv. sintattico
TR wgiinoondawaan wwiidgemaagnan
o-gii-noondaw-aa-an 3-PT-'ascoltare'-FT(D)-4 o-wiidgemaagan-an- 3-'moglie'-4
'He heard his wife (obviative)'
A - P S - O
TR wgiinoondaagoon wwiidgemaagnan 3-PT-'ascoltare'-FT(D)-3'
o-gii-noondaw-igo-an 3-'portare'-FT(D)-4 o-wiidgemaagan-an- 3-'moglie'-4
'His wife heard him'
A - P S - O

[tav. 15]
Esempi ulteriori in ojibway: la terza persona (o- al passato e come possessore) e la quarta persona (-an), con anche nominale esterno. Gli esempi sono sempre tratti da Marianne Mithun, The Languages of Native North America, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 1999, pp. 222-26, e risalgono a Richard Rhodes, The Morphosyntax of Central Ojibway Verb, University of Michigan, 1976, PhD, con le stesse avvertenze.
Nel primo esempio il soggetto è una terza persona coreferenziale (proximate, nella tradizione algonkinistica, cioè 3) e nel secondo una terza persona "altra", "nuova" non coreferenziale (obviative, nella tradizione algonkinistica, cioè 4); la distinzione tra terza e "quarta" persona è fondamentale nelle lingue algonkine (cfr. infra), ma quel che qui conta è che il nominale esterno, che sia soggetto od oggetto, è sempre e solo un ovviativo. Si noti, inoltre, che l'ordine delle parole non cambia: alla gestione della struttura testuale, al livello del discorso, basta la commutazione tra prossimato ed ovviativo. Un'ultima osservazione riguarda il morfema di 3, che, azzerato nel paradigna del non-passato, al passato riemerge ed è identico nel verbo e nel nome (dove sta per la persona del possessore: una 'moglie' è inerentemente la moglie di qualcuno, sennò non sarebbe una moglie).

Le marche personali, in altri termini, non sembrano recare alcuna distinzione di ruolo né semantico né sintattico; solo il discorso ha marca esplicità: le marche personali nelle frasi transitive "io ti picchio" e "tu picchi me" sono uguali identiche, eppure il significato tra le due proposizioni viene distinto. Come? Uno sguardo attento a cosa cambia nelle coppie transitive opposte può dare una risposta:


verbo es. ojibway liv. semantico liv. sintattico
TR 1/3 nbiinaa
n-ø-biin-aa 1-3-'portare'-FT(D)
'I bring him/her'
A - P S - O
TR 3/1 nbiinigw
n-ø-biin-igw 1-3-'portare'-FT(D)
'S/he bring me'
A - P S - O
TR 2/3 gniinaa
g-ø-biin-aa 2-3-'portare'-FT(D)
'You bring him/her'
A - P S - O
TR 3/2 gbiinig
g-ø-biin-igw 1-3-'portare'-FT(D)
'S/he bring you'
A - P S - O

[tav. 16]
Il FT "direttivo" (D) in ojibway: coppie transitive di opposta direzione. Gli esempi sono sempre tratti da Marianne Mithun, The Languages of Native North America, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 1999, pp. 222-26, e risalgono a Richard Rhodes, The Morphosyntax of Central Ojibway Verb, University of Michigan, 1976, PhD, con i soliti adattamenti.
Come evidente l'unica cosa che muta nelle coppie non sono le persone, ma i formanti tematici che, indicando la direzione dell'azione, chiameremo direttivi: il diretto -aa, e l'inverso (od "inversivo") -igw; i due morfemi sono così singolarmente privi di contenuto semantico, ma segnalano solo le possibilità combinatorie dell'accordo.


Se il direttivo è nient'altro che un commutatore tra situazione normale ed inversa, resta che la decisione di quale sia la situazione normale è indubbiamente speciosa. Se la soluzione dei predicati monoargomentali sembra più sintattica, peraltro, quella dei biargomentali pare in parte più semantica, o meglio contestuale, almeno in senso probabilistico. Cioè, in queste lingue si è stabilito che è statisticamente più frequente che un determinato partecipante, agisca su di un altro: ad esempio, ancora in ojibway, è considerato più frequente che l'ascoltatore (2 persona) agisca sul parlante (1 persona), e che (a sua volta) il parlante agisca su una terza persona tematica (cioè anaforica, presente nel discorso, la categoria che la grammatica algonkina distingue come proximate), e che a sua volta la terza persona tematica agisca su una terza persona rematica (cioè nuova e non topicalizzata, categoria che la grammatica algonkina distingue come obviative). Si ha cioè una gerarchia precisa (anche se ogni lingua ha le sue piccole deviazioni) su chi statisticamente è più normale che agisca su altro, che in ojibway è: ascoltatore (2) > parlante (1) > prossimo (3pr=3) > ovviativo (3ob=4). Se in un verbo transitivo l'identificazione del soggetto e dell'oggetto si configurano secondo l'ordine normale, allora il verbo presenta un suffisso cosiddetto diretto (in ojibway -aa e, per una sottoclasse di verbi cosiddetti "locali", cioè che coinvolgono solo parlanti e/o ascoltatori, -i); se l'ordine si discosta da quello considerato normale allora il verbo conterrà un suffisso inverso (in ojibway -igw e per i verbi locali -ini). Il primo ed il terzo esempio di tavola 16 andranno pertanto analizzati come direttivi perché prima il parlante e poi l'interlocutore agiscono su una terza (prossimata), mentre ilsecondo ed il terzo sono inversi perché è la terza (prossimata) ad agire su una prima e poi su una seconda.

Quello che è notevole osservare, nell'economia del nostro ragionamento, è che dopo un tipo (con tre sottotipi: accusativo, ergativo e ternario) in cui è centrale la sintassi ed uno in cui è centrale la semantica (agentivo), in cui tutti però il livello del discorso è largamente sottorappresentato (demandato al solo ordine delle parole, od alle trasformazioni passiva ed antiergativa), con l'inversivo abbiamo finalmente un tipo in cui è il discorso, l'organizzazione dell'informazione, ad essere centrale: non solo la dinamica di un testo algonkino si gioca molto intorno alla progressione tra prossimato (coreferenziale, dato, noto) ed ovviativo (nuovo), ma la scelta medesima tra diretto ed inverso, cioè la rappresentazione di quali siano gli argomenti / attanti centrali di una proposizione, dipende unicamente dalla prospettiva che assumono nell'economia del discorso, in base alla quale ogni lingua algonkina sceglie la sua scala di salienza (cioè di rilevanza nella prospettiva di quel che si dice).


1.2.6 Competenza ed esecuzione; spiegazione e descrizione: il realismo della grammatica generativa.


Ritornando al nostro filone principale dopo la lunga digressione del paragrafo precedente, non c'è forse scelta migliore per ricapitolare l'acquisito ed al contempo introdurre un'ulteriore precisazione (che poi ci proietterà verso l'ulteriore capitolo (1.4) con cui concluderemo la nostra esposizione) di un passo (b) in cui Chomsky sinteticamente ma efficacemente dà esplicitamente una definizione di cosa sia una grammatica generativa, e lo fa in una nota iniziale della sua Linguistica cartesiana; una trattazione più diffusa è nelle pagine iniziali del contemporaneo Aspects, ma soprattutto in Language and Mind del 1966 (e ne riporto in (d) i passi più significativi; ringrazio Davide Cambiaso per la selezione); una prima caratterizzazione (chiara ma implicita) di cosa vada inteso per generativo era comunque già in Sintactic Struture, e qui la riporto in (a)


Similarly, the set of 'sentences' of some formalized system of mathematics can be considered a language. The fundamental aim in the linguistic analysis of a language L is to separate the grammatical sequences which are the sentences of L from the ungrammatical sequences which are not sentences of L and to study the structure of the grammatical sequences. The grammar of L will thus be a device that generates all of the grammatical sequences of L and none of the ungrammatical ones. One way to test the adequacy of a grammar proposed for L is to determine whether or not the sequences that it generates are actually grammatical, i.e., acceptable to a native speaker, etc.

A generative grammar contains a system of rules that assign structural descriptions to the sentences of a particular language and thereby express a fundamental aspect of what the speaker of this language knows.

By a “generative grammar” I mean a description of the tacit competence of the speaker-hearer that underlies his actual performance in production and perception (understanding) of speech. A generative grammar, ideally, specifies a pairing of phonetic and semantic representations over an infinite range; it thus constitutes a hypothesis as to how the speaker-hearer interprets utterances, abstracting away from many factors that interweave with tacit competence to determine actual performance. For recent discussion, see Katz and Postal, An Integrated Theory of Linguistic Descriptions (Cambridge: M.I.T. Press, 1964); Chomsky, Current Issues in Linguistic Theory (The Hague: Mouton 1964); Aspects of the Theory of Syntax (Cambridge: M.I.T. Press, 1965).

Such a system - a generative grammar - provides an explication of the Humboldtian idea of "form of language," which in an obscure but suggestive remark in his great posthumous work, Uber die Verschiedenheit des Menschlichen Sprachbaues, Humboldt defines as "that constant and unvarying system of processes underlying the mental act of raising articulated structurally organized signals to an expression of thought". Such a grammar defines a language in the Humboldtian sense, namely as "a recursively generated system, where the laws of generation are fixed and invariant, but the scope and the specific manner in which they are applied remain entirely unspecified". (p. 62)
[...] it is reasonable to suppose that a generative grammar is a system of many hundreds of rules of several different types, organized in accordance with certain fixed principles of ordering and applicability and containing a certain fixed substructure which, along with the general principles of organization, is common to all languages. (p. 77)
The system of rules that specifies the sound-meaning relation for a given language can be called the "grammar" - or, to use a more technical term, the "generative grammar" - of this language. To say that a grammar "generates" a certain set of structures is simply to say that it specifies this set in a precise way. In this sense, we may say that the grammar of a language generates an infinite set of "structural descriptions," each structural description being an abstract object of some sort that determines a particular sound, a particular meaning, and whatever formal properties and configurations serve to mediate the relation between sound and meaning. (pp. 91-92)
To summarize: the generative grammar of a language specifies an infinite set of structural descriptions, each of which contains a deep structure, a surface structure, a phonetic representation, a semantic representation, and other formal structures. (p. 97)
A grammar of the sort described previously, which attempts to characterize in an explicit way the intrinsic association of phonetic form and semantic content in a particular language, might be called a generative grammar to distinguish it from descriptions that have some different goal (for example, pedagogic grammars). (p. 112)
In general, a set of rules that recursively define an infinite set of objects may be said to generate this set. Thus a set of axioms and rules of inference for arithmetic may be said to generate a set of proofs and a set of theorems of arithmetic (last lines of proofs). Similarly, a (generative) grammar may be said to generate a set of structural descriptions, each of which, ideally, incorporates a deep structure, a surface structure, a semantic interpretation (of the deep structure), and a phonetic interpretation (of the surface structure). (p. 112)
It is, however, important to be aware of the fact that the concept "generative grammar" itself is no very great innovation. The fact that every language "makes infinite use of finite means" (Wilhelm von Humboldt) has long been understood. (p. 113)
A perceptual model that relates stimulus and percept might incorporate a certain system of beliefs, certain strategies that are used in interpreting stimuli, and other factors - for example, organization of memory. In the case of language, the technical term for the underlying system of beliefs is "grammar," or "generative grammar." A grammar is a system of rules that generates an infinite class of "potential percepts," each with its phonetic, semantic, and syntactic aspects, the class of structures that constitute the language in question. The percepts themselves are first-order constructs; we determine their properties by experiment and observation. The grammar that underlies the formation of percepts is a second-order construct. To study it, we must abstract away from the other factors that are involved in the use and understanding of language, and concentrate on the knowledge of language that has been internalized in some manner by the language user. (pp. 149-150)

[tav. 17]
(a) La preliminare caratterizzazione indiretta di cosa sia una grammatica generativa contenuta a p. 13 di Noam Chomsky, Syntactic Structures, The Hague, Mouton, 1956 (cito dalla seconda edizione, comunque invariata, Berlin - New York, Mouton - de Gruyter, 2002).
(b) La definizione altrettanto indiretta di grammatica generativa contenuta a pp. 97-98 di Noam Chomsky and Morris Halle, Some Controversial Questions in Phonological Theory, in «Journal of Linguistics» 1 (1965) 97-138
(c) La definizione sintetica ma finalmente esplicita di grammatica generativa che Chomsky dà nella nota 2 di Cartesian Linguistics. A Chapter in the History of Rationalist Thought, New York, Harper & Row, 1966, p. 75.
(d) Le spiegazioni più effusive offerte nel coevo Language and Mind del 1966 (cito dalla terza edizione, Cambridge - New York - Melbourne - Madrid - Cape Town - Singapore - São Paulo, Cambridge University Press, 2006). Si notino i ripetuti richiami a Humboldt ed al tema della creatività del linguaggio.


Il passo (a) già da solo rappresenta una efficace ricapitolazione di tutti i capisaldi del programma generativo. Semmai da mettere a fuoco resta un ultimo, ma centrale, punto, da tenere contrastivamente in conto rispetto a quanto abbiamo detto di Saussure, ed è la particolare forma che qui assume l'opposizione tra astratto e concreto: competence 'competenza' e performance 'esecuzione' in Chomsky vs. langue e parole in Saussure. Le due coppie di termini, infatti, "sembrano" quasi equivalenti (e Chomsky medesimo, introducendole in Aspects cit., p. 4, ne dichiara apertamente anche se scontrosamente, secondo suo solito, la filiazione), ma in realtà non lo sono, e la loro differenza è rivelatrice delle differenze teoretiche di fondo delle impostazioni dei due studiosi.
La competenza, infatti, è qualcosa di individuale, biologicamente determinato, sganciato dalla storia fuorché per i lunghi tempi della genetica. La "langue" invece è convenzionale, radicata antropologicamente nell'uso di una comunità, e di natura prettamente storica, mutevole a seconda dei tempi dei luoghi e delle culture. Per un generativista è il solo oggetto della scienza linguistica; per molti linguisti strutturali (soprattutto sociolinguistici) non è pienamente affidabile perché le opinioni dei parlanti sulla propria lingua possono non essere corrette (per pregiudizi di vario tipo: educazione scolastica, modelli sociali, ecc.)
La esecuzione, invece, è completamente priva di interesse per un generativista, può essere giusta come sbagliata, ma non ci dice nulla sulla reale struttura del linguaggio. Per tutti gli strutturalisti, Saussure in testa, lo studio dei concreti atti di parole (i dati scientifici di partenza) era la base per tutto lo studio del linguaggio. È interessante notare che, dopo un trentennio di predominio del paradigma generativo, la linguistica computazionale abbia di fatto riportato lo studio del linguaggio a basarsi di nuovo sugli stessi dati materiali (corpora, ossia collezioni organizzate di atti di "parole") dei linguisti prechomskyani.

Queste considerazioni precisano anche una questione, in certa misura già implicita nella nozione di naturalismo che abbiamo abbozzato all'inizio (paragrafo 1.2.1), pure spesso non ben compresa, è che quindi giova esplicitare: l'assoluto realismo della teoria generativa, che non è un'ipotesi descrittiva ma una teoria esplicativa (usando la terminologia corrente nella tradizione generativa a partire da Aspects, cit., pp. 26-7: il programma generativo è fondare una teoria su come materialmente funziona la nostra mente (che in ciò abbia successo o meno è il gioco della scienza dimostrarlo, e non è qui pertinente) non su come la si possa al meglio descrivere.