di Manuel Barbera (b.manuel@inrete.it).
La grande famiglia austronesiana (etichetta formata col lat. auster
'vento del Sud' + il greco nêsos 'isola') ha una distribuzione immensa,
comprendendo la maggior parte delle isole dall'Oceano Indiano al Pacifico, ossia
praticamente dall'Africa (Madagascar) alla Nuova Zelanda al Perù (Isola di Pasqua, politicamente appartenente al Chile),
con al centro la Malesia, buona parte dell'arcipelago Indonesiano, le Filippine e
Taiwan; altrettanto enorme è il numero di lingue che ne fanno parte, ben oltre il
migliaio (il più recente calcolo, quello dell'Éthnologue,
le stima in 1257), quasi il 20% delle lingue parlate nel mondo ma con solo lo 0,1%
della popolazione mondiale (dati approssimati da
Éthnologue).
[tav. 1]
Le lingue austronesiane, dal Madagascar all'America via oceano Indiano e Pacifico.
Le lingue indigene di Taiwan (violetto) da sole si oppongono al grande gruppo,
tripartito (W verde, C giallo e blu E), maleo-polinesiano; all'interno del gruppo maleo-polinesiano orientale
le lingue polinesiane sono una famiglia molto omogenea, tipo lingue romanze. L'Australia
e gran parte della Nuova Guinea (ed isole limitrofe) restano al di fuori.
Adattato da Merritt Ruhlen, A Guide to the World's Languages,
Volume 1: Classification, Stanford (California), Stanford University Press, 1987, p. 160.
Infatti, l'unica lingua austronesiana tra le prime 20 al mondo per numero di parlanti
è il giavanese con 85 milioni (undicesima; per farvi un'idea delle proporzioni,
ricordate che l'italiano è diciannovesimo con circa 60 milioni), che pur avendo anche
tradizione scritta e prestigio letterario assai antichi non è neppure una lingua
nazionale, facendo parte della Repubblica Indonesiana , la cui lingua "ufficiale"
è una particolare standardizzazione del malese detta bahasa Indonesia
(cioè 'lingua dell'Indonesia'). Inoltre, oltre al giavanese, solo sei delle oltre
mille lingue austronesiane hanno più di 10 milioni di parlanti: il malese-indonesiano
(39 con il bahasa Malaysia di Malesia ed il bahasa melayu di Singapore,
Brunei e S. Tailandia; da solo il bahasa Indonesia raggiunge i 23), il
sundanese (con 34, parlato nella parte occidentale dell'isola di Giava),
il filipino-tagalog (con 25; cioè la lingua ufficiale delle Filippine e la lingua
vernacolare che è alla base dello standard), il cebuano (con 16; un'altra lingua,
non ufficiale delle Filippine, parlata in gran parte di Mindanao e molte isole centrali),
il malgascio (con 15; ufficiale nel Madagascar) ed il madurese (con 14,
di nuovo in Indonesia, nell'isola di Madura); ben quattro dunque sono concentrate
in Indonesia (che non a caso è la quarta nazione più popolosa del mondo) e due nelle
Filippine. La maggior parte delle lingue, quindi, ha dimensioni assai modeste, anche
quando standard come ad es. l'hawaiiano (1 migliaio nello stato USA delle Hawaii,
in Polinesia) od ufficiali di stato come ad es. il marshallese (59 migliaia
nella Repubblica delle Isole Marshall, in Micronesia). Molte lingue (tra cui purtroppo
tutte quelle di Taiwan) sono peraltro in pericolo di estinzione.
Nonostante l'enorme dispersione, e la presenza di singole lingue o gruppi di lingue particolarmente aberranti (soprattutto in Melanesia), la famiglia è relativamente uniforme (più del sinotibetano o dell'indoeuropeo stesso), ed è stata una delle prime ad essere individuata. In generale, infatti «for speakers of Austronesian languages, there has been, for millennia, an intuitive recognition of the connections among related languages. These intuitions are a key part of the capacities that have allowed speakers of different Austronesian languages to communicate with one another, that have facilitated the migration of individuals and groups among different speech communities and that have fostered mutual interrelations among speech communities» (James J. Fox, Current Developments in Comparative Austronesian Studies, in Symposium Austronesia. Pascasarjana Linguististik dan Kajian Budaya Universitas Udayana, Bali 19-20 August 2004, 2004, online come PDF). Il primo, germinale, riconoscimento della unità genealogica maleo-polinesiana, infatti, o meglio di alcune sue costituenti, è fin precedente a quello della famiglie uralica (Sajnovics 1770) ed indoeuropea (Jones 1785), parendo risalire ad alcune osservazioni fatte nel 1603 dal navigatore olandese Frederick de Houltman sulle somiglianze di malese e malgascio. I primi dati resi disponibili in Occidente su lingue austronesiane, anzi, sono ancora precedenti e risalgono alle liste raccolte nel 1521 da Antonio Pigafetta (1491 c. - 1531?) in Indonesia e Filippine al séguito della spedizione di Magellano, e poi pubblicati nella sua Relazione del 1524; «the first scholar», però, «credited with recognition of linguistic relations among distant Austronesian languages was the Dutch scholar Hadrian Reland, who in 1706 [per Blust 2009, cit. infra, pp. 21 e 506, è invece nel 1708] postulated a common 'Malayan' language stretching from Madagascar through Java, Borneo and Maluku and eastward» (Fox 2004 cit.). Il gruppo ha avuto anche la fortuna di essere studiato da uno dei più grandi linguisti del primo Ottocento, Wilhelm von Humboldt (1767–1835), che ha dedicato un'opera fondamentale al giavanese "classico", letterario ed antico, (kawi) ed alla sua genesi culturale, confrontandolo con altre otto lingue: malgascio, malese, buginese, tagalog, tongano, tahitiano, hawai'iano e maori. Sicché non è strano trovare in vecchi testi di glottologia l'affermazione che si tratta di una delle famiglie meglio studiate nel mondo. E l'affermazione, visti i recenti progressi (soprattuto negli ultimi vent'anni) fatti tanto nella descrizione di nuove lingue (specie in Melanesia ed Oceania) quanto nella grammatica comparativa, riesce anche oggi perfettamente giustificata: ricordiamo almeno, oltre all'imponente sintesi di Robert Blust, The Austronesian Languages, Canberra, Australian National University - Research Shool of Pacific and Asian Studies, 2009 "Pacific Linguistics" 602, la recente presenza online del versatile Austronesian Basic Vocabulary Database di Robert Blust, Russel Gray, Simon Greeenhill e Cordelia Nickelsen.
[tav. 2]
Frontespizio del primo volume del classico sudio di Wilhelm von Humboldt Über die
Kawi-Sprache auf der Insel Java, uscito postumo in tre volumi tra il 1836 ed il 1839.
Propriamente «Kawi (literally 'poetry') refers to both a special register
of Old (and sometimes Middle) Javanese and the script aksara jawa by which
it is represented. In contemporary Java, the kawi speech register is used
only in wayang shadow puppet dramas [...]. Most kawi genres are literary
and aesthetic [...], but thr script is used for almanacs as well. In Bali kawi
is a more productive literary medium; it is still the language of traditional ritual
and in law courts» (Joel K. Kuipers - Ray McDermott, Insular Southeast Asian
Scripts, in The World's Writing Systems, edited by Peter T. Daniels and William Bright,
New York - Oxford, Oxford University Press, 1996, pp. 474-484, p. 477).
Se l'unità genealogica del gruppo è quindi da tempo riconosciuta,
è, semmai, la sua articolazione interna ad essere discussa. Comprensibilmente, se
vogliamo, dato il grandissimo numero di lingue, tra cui molte assai "piccole" e mai
o solo recentemente descritte in modo scientifico. Ma prima di entrare nel merito,
iniziamo a familiarizzarci con la struttura generale della famiglia e con i suoi
principali raggruppamenti, vedendo in primo luogo uno schema relativamente dettagliato.
[tav. 3]
Una classificazione generale "compatta" delle lingue austronesiane che riflette il consenso
di massima più recente nella comunità scientifica. La struttura generale è quella di Blust
(riprodotta più recentemente in Robert Blust, The Austronesian Languages,
Canberra, Australian National University - Research Shool of Pacific and Asian Studies,
2009 "Pacific Linguistics" 602), ma si è tenuto conto anche di Adelaar (cfr. The
Austronesian Languages of Asia and Madagascar edited by Alexander Adelaar and
Nikolaus P. Himmelmenn, London - New York, Routledge, 2005 "Routledge Linguistic Series"),
Ross (cfr. Malcom D. Ross, The Integrity of the Austronesian Language Family:
from Taiwan to Oceania, in Past Human Migrations in East Asia. Matching Archaeology,
Linguistics and Genetics edited by Alicia Sanchez-Mazas, Eoger Blench, Malcom D. Ross,
Ilia Peiros and Marie Lin, London - New York, Routledge, 2008 "Routledge Studies in
the Early History of Asia" 5, pp. 161-181), Lynch (cfr. Pacific Languages: an Introduction,
Honolulu, University of Hawai'i Press, 1998 e The Linguistic History of South
Vanuatu, Canberra, Australian National University - Research Shool of Pacific and
Asian Studies, 2001 "Pacific Linguistics" 509) e Tryon (cfr. Comparative Austronesian
Dictionary. An Introduction to Austronesian Studies edited by Darrell T. Tryon,
Parts 1-4, Berlin - New York, Mouton de Gruyter, 1995 "Trends in Linguistics Documentation" 10),
semplificando liberamente. Nello schema si sono rappresentate coi grafi a forcella la trama
principale (su cui cfr. infra) e le ramificazioni considerate ormai (a vario titolo)
sicure o collaudate, coi grafi a rastrello quelle ancora in corso di definizione od incomplete;
se qualche tentativo è stato fatto per rappresentare la distribuzione geografica e
la cronologia relativa delle varie "speciazioni" linguistiche, nessun tentativo
è stato fatto per rappresentare la cronologia assoluta, ricavabile (se mai possibile)
solo da considerazioni extralinguistiche (cfr. infra).
Come vedete, anche semplificando al massimo e non entrando nell'articolazione
interna dei singoli gruppi, la complessità è da urlo, e per orizzontarsi nello schema
generale, od almeno per provare meno mal di mare (che trattandosi di oceani ed isole è
particolarmente da evitare...), è forse bene guardarne al contempo una versione semplificata,
praticamente la sua sola ossatura, come nella ravola seguente; anche familiarizzarre con la
geografia (alcune delle cartine seguenti sono allo scopo abbastanza dettagliate) può giovare.
[tav. 4]
Il medesimo schema di classificazione proposto nella tavola precedente ridotto alla
mera ossatura (solamente raggruppamenti).
I raggruppamenti di ordine inferiore (in realà gia spesso di media
profondità, e con articolazione interna ancora a volte, specie in area melanesiana
ed indonesiana, non pefettamente calettata) sono perfettamente sicuri, e così molti
intermedi, soprattutto l'Oceanico ed il Polinesiano; i problemi sono nella scansione
delle strutture più alte: quello che è certo è che tutto il blocco
maleo-polinesiano si contrappone alle poche rimanenze delle lingue indigene di Taiwan,
che (come che siano da raggruppare) hanno pertanto una importanza
capitale per la ricostruzione del protoaustronesiano.
Quello che invece non è sicuro è, in primo luogo, se le nove famiglie individuate da Robert Blust in cui si organizzano
la quindicina di lingue aborigene superstiti a Taiwan, le uniche ancora studiabili e
le sole che ho riportato nella tavola dettagliata
precedente (sappiamo che all'epoca dei primi contatti ve ne erano altre, di molte delle quali
non sappiamo molto più del nome, e di cui non potremo mai più scoprire nulla; la cartina
della tavola seguente è comunque più abbondante in informazioni) siano
(1) altrettanti rami indipendenti dell'austronesiano, (2) dipendano piuttosto da un intermedio
Proto-Formosano, come taluni postulano, o (3) siano variamente raggruppabili altrimenti,
come altri ancora hanno proposto (cfr. ad es. la proposta di ripartizione riportata nella
didascalia della tavola
con lo schema filogenetico generale di Ross. Argomenti davvero solidi (inconfutabili innovazioni comuni)
che portino a raggruppare in qualche modo le varie famiglie non ne sono stati però,
nonostante le molte proposte, finora addotti, sicché è più corretto lasciare tutto come sta.
[tav. 5]
Taiwan, Urheimat di tutta la famiglia austronesiana, con rappresentati i territori
che le sue lingue aborigene (almeno quelle che conosciamo) si presume occupassero prima dell'arrivo dei cinesi.
Taiwan, infatti, è stata ripopolata dai cinesi a partite dal XV secolo d.C.,
ma comprende(va) ancora una quindicina di lingue aborigene (individuate già da
J. H. Klaproth nel 1822), oggi minoritarie e ristrette alle zone interne dell'isola,
tutte senza scrittura; alcune si sono recentemente estinte ed altre sono in serio
pericolo di estinzione. Liberamente modificata a partire dalla tabella di Wikipedia EN
"Distribution of Formosan languages before Chinese colonization" (2008-08-29, first
version; 2008-08-29, last version) basata a sua volta sulla classificatione di Blust 1999,
distribuzione secondo Tsuchida 1983 e denominazioni dell'Ethnologue.
Analogamente, all'interno del Maleo-Polinesiano, se affatto sicura è la divisione
linguistica tra Indonesia occidentale ed Indonesia centroorientale più Oceania, più difficile è substanziare
linguisticamente questa divisione; il gruppo oceanico-centroorientale (e soprattutto
i suoi sottogruppi Proto South Halmahera / West New Guinea (SHWNG) and Proto Oceanico)
è abbastanza sicuramente discendente da una protolingua comune individuata da innovazioni
distintive (anche se non così cospicue come i suoi due sottogruppi SHWNG ed OC); non così
il gruppo occidentale, che pare definirsi solo negativamente e consistere, in ultima
analisi, di rami indipendenti.
Connesso a questi due problemi è anche quello della presunta unità Filippine-Formosa.
È evidente fin ad una ispezione superficiale che le lingue di Formosa e delle Filippine
sono più "simili" tra loro di quelle di Sumatra e Giava, tanto nel sistema grammnaticale
(soprattutto la struttura del verbo, ben contrastabile col tipo, complesso e peculiare,
del filippino e quello, assai più semplice, del malese) quanto nel lessico, con il Borneo
che fa in qualche modo da cerniera tra i due tipi. Ma ciò non ha alcuna importanza
ai fini di una classificazione filogenetica, come ben spiega Ross: «The Formosan-Philippine
hypothesis essentially says that the Formosan and Philippine languages look so similar
that they must form a subgroup. This position, however, neglects the methodological
point [...] that a subgroup is defined by shared innovations. If the Formosan-Philippine
hypothesis is to be taken seriously, than it needs to be shown that Formosan and Philippine
languages reflect a set of innovations that other Austronesian languages do not share, i.e.
that there is evidence for a shared Proto Formosan-Philippine node. Such evidence
has not been offered. Instead, it is likely that the similariries among Formosan
and Philippine languages are shared retentions of Proto-Austronesian features, an
inference which causes no difficulty under the Malayo-Polinesian hypothesis» (Malcom D.
Ross, The Integrity of the Austronesian Language Family: from Taiwan to Oceania,
in Past Human Migrations in East Asia. Matching Archaeology, Linguistics and Genetics
edited by Alicia Sanchez-Mazas, Roger Blench, Malcom D. Ross, Ilia Peiros and Marie Lin,
London - New York, Routledge, 2008 "Routledge Studies in the Early History of Asia" 5, p. 173).
Queste conclusioni, condivise (con poche minori differenze) da Malcom Ross e Robert Blust, cioè da due dei massimi
specialisti viventi di lingue austronesiane, sono così condensabili nello schema proposto
da Malcom Ross nel 2008 e riprodotto in tavola seguente:
[tav. 6]
Lo schema di classificazione proposto da Ross senza postulare un Proto-Formosano ed un
Proto_Maleopolinesiano Occidentale, la cui esistenza non è assicurata da sicure
innovazioni comuni (da Malcom D. Ross, The Integrity of the Austronesian Language Family:
from Taiwan to Oceania, in Past Human Migrations in East Asia. Matching Archaeology,
Linguistics and Genetics edited by Alicia Sanchez-Mazas, Eoger Blench, Malcom D. Ross,
Ilia Peiros and Marie Lin, London - New York, Routledge, 2008 "Routledge Studies in
the Early History of Asia" 5, pp. 161-181, p. 171). I 9 rami indipendenti presenti a Formosa sono
probabilmente irriducibili e riconosciuti da quasi tutti (la riduzione a 3 soli,
Atayali [sic], Tsou e Paiwan, operata da Greenberg e Ruhlen, che poggia
solo su una petitio principii e non ha basi linguistiche, è di fatto ignorata
da tutti gli specialisti); la consistenza e calettatura dei rami dello spazio linguistico
maleopolinesiano occidentale è invece in piena lavorazione ed ancora molto variabile:
il calcolo di 20~25 gruppi dato da Ross è volutamente ipercauto e tradizionale; quello
in 12 dato da noi nelle tavole precedenti, basato sulla letteratura più recente, accoglie
anche proposte non diventate ancora standard.
Una considerazione ulteriore, stimolata dalla tavola precedente,
è relativa al punto di domanda apposto al EMP, quasi che il Proto-Maleopolinesiano
orientale non costituisse un reale nodo della filogenesi austronesiana. Perché?
La domanda è metodologicamente assai interessante e ruota attorno al concetto di
linkage, al cui proposito vale la pena di riportare diffusamente la
perspicua spiegazione che ne offre il più volte citato Ross 2008 : «The divergence of
sister-languages is often "a gradual and untidy affair" (Pawley 2002) which result
in innovation-linked subgroups (=linkages) rather than innovation-defined subgroups
discussed [...]. An innovation-linked subgroup is a groip if languages with a network
of overlapping innovations. That is, no innovation is shared by all the languages
in the subgroup. Instead, for example, languages A, B and C share innovation X, languages
B, C, D and E share innovation Y, and languages A, C and E share innovation Z. Innovation
linked subgroups may arise via a dialect network form gradual diversification within
a speech community, or from division within an existing linkage. In this case the new
linkage has no discrete protolanguage (Pawley - Ross 1995)» (p. 174); «Central Malayo-Polynesian
languages form an innovation-linked group, i.e. there was never a a Proto Central
Malayo-Polynesian (Blust 1993). Instead they are simply what was left of the CEMP
group after the communities ancestrals to Proto South Halmahera / West New Guinea
(SHWNG) and Proto Oceanic had separated from it» (p. 176).
Scendendo dalla "tecnica" classificatoria della logica filogenetica,
ad aspetti più culturali, etnico-genetici e linguistici, nonché alla caratterizzazione
di singoli gruppi, vi sono molti altri fili che varrebbe la pena di seguire. Ci limiteremo
a pochi di particolaree interesse od importanza.
Una prima questione riguarda la diffusione della scrittura e cultura sanscrita indiana che definisce un'area di influenza insulare grossomodo coincidente con quella maleopolinesiana occidentale, ossia Indonesia e Filippine, che si assomma a quella Asiatica sudorientale continentale che già avevamo notato a proposito di mon-khner e daico. Molte di queste lingue e culture, spesso con lingue letterarie di grande prestigio (ad esempio balinese, batak, rejang, buginese e soprattutto giavanese, cfr. la tavola infra) hanno, tra l'altro, giocato un ruolo di speciale rilievo nella nascita della tradizione scientifica austronesianistica (vedi ad esempio la stessa monografia di Humboldt, con il suo significativo accenno nel sottotitolo alla geistige Entwickelung [sic] 'evoluzione spirituale').
[tav. 7]
Un romanzo tradizionale giavanese: frontespizio in kawi (giavanese) e latinica (olandese)
da un'edizione otttocentesca curata dal grande orientalista olandese Karel Frederik Holle.
Paleograficamente, si tratta sempre di forme localizzate della
tipizzazione Pallava (cfr. la tavola
finale del § 1.6) della brahmi di cui abbiamo già spesso parlato (diffusa nel VIII
secolo d.C. in tutto il Sudest asiatico a partire dall'India
meridionale: cfr. il paragrafo sulla brahmi
nel capitolo sulle scritture), diffuse prevalentemente dal grande flusso commerciale
delle spezie che attraversava le Molucche, veicolato principalmente dal malese.
Di queste varietà grafiche abbiamo una ricca e diversificata costellazione
di forme antiche epigrafiche nonché di forme letterarie grandi e piccine, oggi spesso
erose dal bahasa indonesia (per le varietà diffuse in Indonesia) e dal filipino
(per le varietà diffuse nelle Filippine), entrambi scritti in latinica; e mutatis
mutandis analoghe sorti sta subendo il continentale cham, a favore però
di un'altra tradizione scrittoria derivata dalla brahmi, quella cambogiana del khmer
almeno per il cham occidentale; tra l'altro, accanto al malese e javanese, la tradizione brahmi
epigrafica cham è la più antica di Indocina, risalendo al VII secolo, laddove le iscrizioni
pre-angkoriane khmer (perlopiù in lingua pali) partono di solito dall'VIII secolo
(per la paleografia cham cfr. R. C. Majumdar, La paléographie des inscriptions
du Champa, in "Bulletin de l'École française d'Extrême-Orient" XXXII (1932) 127-139).
[tav. 8]
L'inizio di un rituale funerario in cham di Phan-Rang (cham orientale, Vietnam), contenente il sillabario cham (da Antoine
Cabaton, Nouvelle récherches sur les Chams, Paris, Ernest Leroux, 1901
"Publications de l'École Française d'Extrème-Orient" 2, p. 161; Cabaton è anche
il coautore di un dizionario con introduzione grammaticale tutt'ora fondamentale:
Étienne Aymonier - Antoine Cabaton, Dictionnaire C^am - Française, Paris,
Imprimerie National - Ernest Leroux, 1906 "Publications de l'École Française
d'Extrème-Orient" 7).
Una prima, interessante, postilla a questa "storia indiana" è la storia del malese,
lingua che nel Sudest asiatico ha giocato un ruolo chiave, le cui
comunità (e varietà dialettali) costellano tutta l'Indonesia seguendo la mappa di
quel commercio, da quelle standard del bahasa malaysia (ufficiale in Malesia,
dove per un breve periodo è stato anche chiamato bahasa melayu),
al bahasa indonesia (ufficiale in Indonesia), al bahasa melayu (ufficiale
in Singapore e Brunei) ad un largo numero di varietà "minori" sparse tra Sonda e Molucche
(l'Éthnologue ne attesta ben 54).
Il malese antico, di cui sono note attestazioni epigrafiche a partire dal Settimo secolo,
è la varietà fortemente sanscritizzata che ben ci saremmo aspettati: veicolo di cultura buddhistica, centrata nel
regno di Malayu (ed in quello precedente, meno noto, di Çrîvijaya) in Sumatra
orientale, scritta di solito nella medesima forma di brahmi alla base della scrittura proto-kawi
del giavanese.
[tav. 9abc]
Epigrafe malese trovata il 17 novembre 1920 a Talang Tuwo (Palembang, Sumatra NE)
e poi trasferita al museo di Batavia: è uno dei pochissimi testi
del Settimo secolo dell'inizio del regno sumatrano di Çrîvijaya ed è anche in assoluto
tra «les plus anciens textes malais connus, et, avec les inscriptiones chames, les
plus anciens textes écrits dans une langue de la famille malayo-polinésienne»
(Georges Coedès, Les inscriptions malaises de Çrîvijaya, in "Bulletin de
l'École française d'Extrême-Orient" XXX (1930) 29-80, p. 30). Riprodotto da Coedès 1930 cit.:
(a) facsimile, Pl. III, p. 38; (b)
trascrizione e traduzione, pp. 39-42. Per un'idea sul progredire della conoscenze su
questo cruciale regno malese, cfr. prima Georges Coedès, Le royaume de Çrvîjaya,
in "Bulletin de l'École française d'Extrême-Orient" XVIII (1918) 1-36, poi Hermann
Kulke, "Kadtuan rvijaya" - Empire or kraton of rvijaya ? A Reassessment of the
Epigraphical Evidence, "Bulletin de l'École française d'Extrême-Orient" LXXX (1993)
159-180 ed infine Pierre-Yves Manguin, Sriwijaya, entre texte historique et
terrain archéologique : un siècle à la recherche d'un État évanescent, in "Bulletin
de l'École française d'Extrême-Orient" LXXXVIII (2001) 331-339.
Con l'espansione dell'Islam in Oriente, che metterà capo alla creazione del
Sultanato di Malacca (1402–1511), il malese diventa di nuovo la lingua vettore di questa
nuova cultura, si arricchisce di molti prestiti arabo-persiani e, soprattutto di una nuova
scrittura, questa volta arabica, detta jawi, che è stata la normale veste
del malese fino a tempi recenti. Oggi in Malesia è ancora tollerata anche se è stata
soppiantata ufficialmente dalla scrittura latinica, detta rumi, la sola invece
usata per il bahasa indonesia, la varietà ufficiale creata come standard
per la nuova Repubblica Indonesiana dalla costituzione del 1950; la jawi, però
è ancora ufficiale, sia pure accanto alla rumi, nel Brunei.
[tav. 10]
L'alfabeto arabico (jawi) del malese da un vecchio classico ottocentesco (Herbert
Henry Hudson, The Malay Orthography, Singapore, Kelly & Walsh, 1892, p. 14.
Una seconda postilla riguarda la sorte delle moltissime scritture "minori" di origine brahmi-pallava,
in moltissime comunità linguistiche (anche di dimensioni minime) di Sonda minori, Molucche e Filippine,
nelle quali la diffusione della scrittura era capillare come raramente in altre aree.
Oggi tutte queste antiche scritture, che hanno spesso lasciato il passo alla latinica
od all'analfabetismo, sopravvivono ancora per usi speciali, a volte per noi abbastanza curiosi.
Un esempio significativo di ciò può essere offerto dal hanunóo, una lingua e cultura
delle montagne dell'isola di Mindoro nelle Filippine (cfr. Joel K. Kuipers - Ray McDermott, Insular Southeast Asian
Scripts, in The World's Writing Systems, edited by Peter T. Daniels and William Bright,
New York - Oxford, Oxford University Press, 1996, pp. 474-484, pp. 481-3), dove la scrittura
tradizionale (lo standard nelle Filippine, come abbiamo più volte detto, è ormai la latinica) è usata prevalentemente
per scrivere poesie d'amore: la poesia ed il corteggiamento sono infatti il centro
della vita sociale tradizionale hanunóo (e di simili culture in altre isole dell'area),
sicché essi hanno un alfabetismo "tradizionale" altissimo (sopra il 70%), accompagnato
da un analfabetismo "nazionale" in tagalog-latinica altrettanto alto (una situazione
tutto sommato abbastanza simpatica ...).
Una questione connessa alla diffusione sociale delle "lingue poetiche"
tipo quella in uso presso gli hanunóo è quella dei cosiddetti linguaggi di cortesia.
In quasi tutta l'area austronesiana (sostanzialmente esclusa la sola Melanesia) è
diffusa la presenza di differenti speach levels basati su correlate gerarchie sociali.
Le modalità variano molto (come molto variano le strutture sociali su cui si appoggiano)
dall'Indonesia alla Polinesia, ma una caratteristica strutturale peculiare è quasi ubiqua,
quella che ci fa parlare di linguaggi di cortesia piuttosto che di forme
di cortesia. Livelli diversi, infatti, non comportano solo comportamenti distinti
( => pragmatica), come spesso in Occidente, o categorie morfosintattiche
apposite ( => grammatica), come spesso in Oriente (si pensi, paradigmaticamente,
al koreano od al giapponese), ma soprattutto la scelta tra vocabolari differenziati
( => lessico). Per tutta la questione ben informa Robert Blust, The Austronesian Languages,
Canberra, Australian National University - Research Shool of Pacific and Asian Studies,
2009 "Pacific Linguistics" 602, pp. 118-129.
samoano ordinario | samoano cortese | 'traducente inglese' |
7ua pê le maile | 7ua mate le ta7ifau | 'the dog is dead' |
fafano ou lima | tatafi ou 7a7ao | 'wash your hands' |
7ua tipi le ma7i | 7ua ta7oto le ñaseñase | 'the patient is having an operation' |
[tav. 11]
Linguaggio ordinario e linguaggio cortese in samoano (Polinesia). Si
noti come le forme grammaticali (poche e facilmente indovinabili: 7ua 'articolo
definito', le 'articolo indefinito' ed ou 'tuo') non cambino, mentre
invece è il lessico a cambiare sistematicamente (pê : le 'cane'; maile:
ta7ifau 'morto'; ecc.). L'esempio è tratto da George Bertram Milner, The
Samoan Vocabulary of Respect, in "Journal of the Royal Institute of Great Britain and
Ireland" XCI (1961)2 296-317, riprodotto anche in Robert Blust, The Austronesian Languages,
Canberra, Australian National University - Research Shool of Pacific and Asian Studies,
2009 "Pacific Linguistics" 602, p. 125. Rispetto alla fonte translittero per comodo
di visualizzazione web il grafo dell'occlusiva glottale con il comune "7", il macron della
lunga col circonflesso, ed il consueto grafo della n velare con la ñ.
Il sistema più famoso è però quello del giavanese, vuoi perché
forse il più complesso, vuoi per l'importanza culturale e demografica della lingua
in questione (che ne ha fatto il modello di riferimento almeno per balinese, madurese,
sundanese e sasak): «Javanese culture is notorius, even among other Indonesians, for
its complex patterns of social etiquette» (Blust 2009 cit., p. 118). «Among the
priyayi, the cultural elite of coutly noble class of Java, a traditional
system governing accetable patterns of personal interaction has gone beyond mere
courtesy to acquire the status of an aesthetic ideal. A fundamantal distinction
governing all judgements of behavior in Java is the contrast of alus and
kasar. Behaviour that is alus is refined, controlled, quiet and subdued;
behavior that is kasar is the opposite. [...] The way that verbal behavior
is made to satisfy the alus ideal in Java is through the use of proper "speach
levels" or, as they are sometimes called, "speach styles" [...] defined largely by
lexical choice» (Blust 2009 cit. ibidem). Complessivamente il lessico "variabile"
non è quantitativamente ingente rispetto al lessico totale, ma investe il vocabolario
di base ed i termini a più alta occorrenza; inoltre è accompagnato anche da importanti
alternanze nel sistema grammaticale. «Javanese speach levels are named. The basic
distinction is between ngoko and krama» (Blust 2009 cit. ibidem);
il livello ngoko è quello più vicino all'ideale alus, e quello krama
al comportamento kasar (pue senza identificarvisi); in mezzo sta un livello
"medio" detto madya (appunto 'medio'). A questi tre livelli si aggiungono due
ulteriori set di vocabolario, chiamati krama inggil e krama andhap, con valori
dall'onorifico al deferenziale, e che si possono (devono!) usare con tutti e tre
i registri, generando un sistema di elevata complessità. Si noti, tra l'altro, che
il numero di alternanti di un medesimo morfema (lessicale o meno) è variabile caso
per caso (ad esempio il pronome di seconda persona ha quattro varianti, ma il morfema
di passivo solo due, e così molte unità lessicali come 'riso', 'gatto' ecc.), e che
se molte forme krama sono derivabili dalle loro corrispondenti ngoko
con semplici ed evidenti regole fonologiche, altre sono unità lessicali distinte
e fonologicamente irrelate.
livello-stile | giavanese | 'traducente inglese' | contesto |
ngoko | aku wis mañan sëgane | 'I have eaten the rice' | Miyen aged 15 to her younger sister |
krama | kula sampun nëdha sëkulipun | 'I have eaten the rice' | Miyen to her uncle |
krama+inggil | barak sampun dhahar sëkulipun | 'father has eaten the rice' | Miyen to her uncle about her father |
ngoko+inggil | barak wis dhahar sëgane | 'father has eaten the rice' | Miyen to her sister about her father |
madya | kula mpun nëdha sëkule | 'I have eaten the rice' | the old servant to Miyen |
[tav. 12]
Livelli e/o stili di linguaggio in giavanese. Gli eesempi sono tratti da Stuart Robson,
Javanese Grammar for Students, Victoria (AU), Monash University Press, 2002
(revised edition), p. 13, riprodotto anche in Robert Blust, The Austronesian Languages,
Canberra, Australian National University - Research Shool of Pacific and Asian Studies,
2009 "Pacific Linguistics" 602, p. 1195. Al solito, rispetto alla fonte translittero per comodo
di visualizzazione web lo schwa con "ë" ed il consueto grafo della n velare con la ñ.
Si noti la diversità totale (ogni morfema!) tra le due varianti "basiche" ngoko
e krama.
Una questione riguarda la cosiddetta biogeografia: una
delle zone geologicamente chiave della crosta terrestre, infatti, cade direttamente nel
cuore dell'Austronesia, nella zona maleopolinesiana centrale. È proprio qui infatti
che la grande placca asiatica (Sunda Shelf) si scontra con quella australiana
(Sahul Shelf): durante l'era glaciale, da un lato Asia (Malesia ecc.) ed isole maggiori
della Sonda (Sumatra, Giava, ecc.) erano un unico continente (lo stretto di
Malacca non era ancora mare), e dall'altro lato Australia più Papua e Molucche meridionali
(Aru) costituivano un'altro continente (lo stretto di Torres era ancora un lembo di terra),
che i geologi di solito chiamano Sahul. L'individuazione della singolarità
biogeografica della zona intermedia tra l'una e l'altra placca, costituita da isole
vulcaniche e mari profondi che profondi erano anche in epoca glaciale (tali quindi
da impendire la circolazione di animali) è merito precipuo del naturalista, esploratore
e geografo britannico Alfred Russel Wallace (1823 – 1913), noto soprattutto per il
ruolo involontario di "rivale" di Darwin nella formulazione della teoria evoluzionistica,
ma al di là di ciò indubbio padre della biogeografia e personaggio in sé assai interessante
(cfr. Penny van Oesterzee, Where Worlds Collide: the Wallace Line, Cornell
University Press, 1997). Di tale zona intermedia tra Asia e Sahul, oggi denominata
in suo onore Wallacea, Wallace ha identificato il confine occidentale,
che fu detto Linea di Wallace; è una linea assai precisa che, passando attraverso gli stetti
di Lombok (pure largo solo 35 Km!) e Makassar, divide nettamente i due biota: ad occidente
si trovano ancora i grandi mammiferi placentati asiatici (tigri, rinoceronti, scimmie antropomofe, ecc.); i
placentati scarseggiano invece nella Wallacea, mentre si trovano i primi, pochi, marsupiali,
che sono normalmente endemici nel Sahul. Come ben dice la Wikipedia
«The distributions of many bird species observe the line, since many birds refuse
to cross even the smallest stretches of open ocean water. Some volant (flying) mammals
(i.e., bats) have distributions that cross the Wallace Line, but non-volant species
are almost always limited to one side or the other of the line, with a few exceptions
(e.g., very mobile rodents such as the Hystrix genus). Various taxa in other groups
of plants and animals show differing patterns, but the overall pattern is striking
and reasonably consistent».
[tav. 13]
La Wallacea ed il territorio maleopolinesiano centrale (modificato da Penny van Oesterzee,
Where Worlds Collide: the Wallace Line, Cornell University Press, 1997, p. 35);
in rosso la linea di Wallace che divide la Wallacea dall'Asia; in verde invece la linea
di Lyddeker, che divide la Wallacea dal Sahul, individuata nel 1895 dal naturalista
e geologo inglese Richard Lydekker (1849 - 1915).
Questa lunga premessa per dire che questo confine biogeografico gioca anche un ruolo
linguistico fondamentale nella ricostruzione del protoaustronesiano (cfr. Robert Blust,
The linguistic Value of the Wallace line, in "Bijdragen tot de Taal-, Land-
en Volkenkunde" CXXXVIII (1982) 231-250; anche Blust 2009 cit., pp. 715-6). «Perhaps
nowhere else can an artifact of geological history provide clues to linguistic subgrouping,
but the non corrispondence of linguistic subgroups and biotic zones makes this possible
with the Wallace Line» (Blust 2009 cit., p. 715). Un discreto numero di termini
ricostruibili per il proto-Austronesiano (PAN) ed il proto-Maleopolinesiano (PMP), in
quanto comuni a Formosa ed Indonesia, riguardano mammiferi placentati, che essendo
sconosciuto ad Est della linea di Wallace, depongono per una Urheimat di PAN e PMP
ad Ovest di tale linea.
«In crossing the Wallace line AN speakers would the have encountered
marsupials for the first time. If this happened through separate migrations into
eastern Indonesia and the western Pacific there would be no basis for expecting
that the terms for marsupials mammals would be cognate, since they would have beeen
independently invented (or borrowed) at different times and in different places»
(Blust 2009 cit., pp. 715). Il che non è avvenuto in almeno due casi, per i bandycoot
(specie di toponi marsupiali) ed i cuscus (specie di scimmiette marsupiali, grosse
più o meno come criceti), costituendo così la prova principe (anche se non la sola)
per ricostruire il nodo CEMP: «if terms for placental mammals are assigned to PAN
and PMP, terms for marsupial mammals must be innovativa, and since no basis for
convergence is apparent it is simplest to attribute these innovations to a single
speech community that was ancestral to the CMP, SHWNG and OC languages» (Blust,
2009 cit., pp. 716).
'EN meaning' | AN | MP | CEMP | CMP | OC |
'monkey' | *luCuñ | *lutuñ | --- | --- | --- |
idem | --- | *ayuñ | --- | --- | --- |
'barking deer'' (Muntiacus reevesi) | *takeC | --- | --- | --- | --- |
'stag' | *saladeñ | *saladeñ | --- | --- | --- |
'wild buffalo' | *quaNuañ | *quanuañ | --- | --- | --- |
'serow' (Capricornis swinhoei et Sumatrensis) | *Sidi | --- | --- | --- | --- |
'pig' | *babuy | *babuy | --- | --- | --- |
'pangolin' (Manis, 8 spp.) | *quaRem | *quaRem | --- | --- | --- |
'squirrel' | *buhet | *buet | --- | --- | --- |
'bandicoot' (Peramelidae, 6 genn.) | --- | --- | *mansa/er | mender (Banda Elat), ... | medal (Takia), ... |
'cuscus' (Phalanger, 7 spp.) | --- | --- | *kandoRa | kadola (Watubela), ... | kandora (Nggela), ... |
[tav. 14]
Nomi per i mammiferi placentati ricostruibili per il proto-austronesiano (AN) ed
il proto-maleopolinesiano (MP) vs. mammiferi marsupiali (in blu)
ricostruibili per il proto-maleopolinesiano centrorientale (CEMP). Da Blust 2009 cit.,
pp. 715-6. Al solito, rispetto alla fonte translittero per comodo di visualizzazione
web il consueto grafo della n velare con la ñ.
Se la distribuzione biogeografica del biota complessivo è di grande
aiuto per la classicazione delle lingue austronesiana, non così è la scansione di questo
immenso spazio di solito corrente in geografia. Se, infatti, l'area maleopolinesiana
occidentale corrisponde abbastanza ai raggruppamenti geografici tradizionali di Indonesia
(più Filippine), con le "eccezioni" delle Molucche e dela migrazione africana dei malgasci
dal Borneo neridionale al Madagascar (cui abbiamo già più volte accennato, ma su cui torneremo),
non così vanno le cose in Oceania: le tre consuete partizioni in Melanesia, Micronesia
e Polinesia non sembrano corrispondere a confini linguistici.
In Micronesia, ad esempio, sono comprese le Isole Marianne e Palau, le cui lingue, il
chamorro ed il palauano, sono propriamente degli "outliers" delle lingue
filippine, ed è compresa anche Yap, il cui yapese è considerato un ramo indipendente
dell'oceanico. Se poi pensiamo alla Polinesia, il gruppo linguistico polinesiano
orientale corrisponde bene alla unità geografica, ma tutti i numerosi "outliers"
cadono al di fuori, e si trovano perlopiù in Melanesia. Melanesia che, presa nel suo complesso,
è l'unità più inconsistente, in quanto divisa tra diversi gruppi linguistici austronesiani e molti più (circa 750 lingue,
raggruppabili al minimo in 30 famiglie indipendenti + molte lingue isolate) gruppi "non-austronesiani",
o, come comunemente si dice con un'etichetta puramente geografica papua, su cui
torneremo brevemente anche in séguito.
[tav. 15]
L'Oceania geografica: Micronesia, Melanesia e Polinesia (da John Lynch Pacific Languages: an Introduction,
Honolulu, University of Hawai'i Press, 1998, p. 24).
Ciò è probabilmente dovuto alla natura artificiosa e non puramente
geologica di tale distinzione, che risale all'esploratore francese Jules Sébastien
César Dumont d'Urville (1790 - 1842) che nel 1831 «proposed a division of the Pacific
into the four ethnic regions still often used when people talk about the art and
anthropology of the islanders: Polynesia ('Many Islands'), Micronesia
('Little Islands'), Malaysia ('The Malay Islands', that is, Island Southeast Asia),
and Melanesia ('Black Islands')» (John Terrell, Prehistory in the Pacific
Islands. A study of Variation in Language, customs, and human biology, Cambridge -
New York - Port Chester - Melbourne - Sudney, Cambridge University Press, 1988 (1986-1), p. 15).
La divisione, quindi, poggia più su ragioni antropologiche (e di un'antropologia
molto vecchia maniera) che geologiche; e poggia abbastanza male.
Infatti l'antropologia fisica stessa nell'Austronesia
è assai problematica: la distribuzione dei tipi morfologico-genetici non sempre
segue quella culturale, ed entrambe paiono sostanzialmente irrelate con la linguistica;
certo, il rimappaggio completo dei tre elementi non è mai da ritenersi automatico,
né lo è in alcuna parte del mondo (per quanto il procedere di conserva sia la
situazione statisticamente più frequente); ma anche ciò concesso, resta che lo scollo tra
etnografia e linguistica è nell'Austronesia particolarmente eclatante.
Il tipo fisico "normale" (1) nell'Austronesia occidentale (Indonesia occidentale e Filippine
più Taiwan) è quello di solito definito come «"modified Mongoloid" type. Skin color
varies from olive to moderately dark brown. Hair is dark brown to black, and straight
to wavy, with occasional crispness even in areas (like Java) where contact with early
populations is not generally assumed. Eyes are dark brown to black, and ordinarily lack
the Mongolian eye fold» (Blust 2009 cit., p. 9).
Qui e là, però, di solito in zone residuali e poco accessibili, restano delle
sopravvivenze di un tipo morfologico completamente diverso (2): i cosiddetti
negritos, di cui parleremo anche a proposito delle lingue
austroasiatiche,
caratterizzati da bassa statura (paragonabile ai pigmei
d'Africa), pelle scura e capelli ricci o lanosi.
[tav. 16]
Per farsi un'idea diretta del tipo somatico negrito, ricorro ad una vecchia foto
dei primi del secolo scorso (da William Allen Reed, Negritos of
Zambales, Manila, Bureau of Public Printing, 1904 "Department of Interior -
Ethnological Survey Publications" 2.1 ), che, al di là del sapore rétro e coloniale
oggi di comicità involontaria (notate sulla sinistra le fattezze e la testa a pinolo
del bell'esemplare della presunta "razza superiore"...), dà una buona idea delle sembianze
di un negrito "puro" (sulla destra) e di "sangue misto" (al centro).
La diffusione "moderna" dei negritos è limitata a tre aree certe:
(1) nelle Filippine, (2) nel
sud della Malesia e (3) nelle Isole Andamane. Oltre a
queste aree certe ci sono segnalazioni non controllabili anche altrove, tra cui le più
verosimili sono nel Borneo (dove «the archaeology of Niah Cave in Northern Sarawak
has revealed a pre-Neolithic population extending back over 40.000 years» (Blust 2009
cit., p. 8) che potrebbe essere identificabile con ancestrali negritos) ed in Taiwan (dove
«there are reports of "little black men", presumably Negritos, distributed widely on
the West side of the Central Mountains, who disappeared abaout 100 years ago», secondo
riferisce Isidor Dyen, The Austronesian Languages of Formosa, in Current
Trends in Linguistics, edited by Thomas A. Sebeok, volume 8 Linguistics in
Oceania, The Hague, Mouton, 1971, pp. 168-199, p. 171, cit. in Blust 2009
cit., p. 8; racconti parzialmente confermati dalla attestazione archeologica di
insediamenti pre-neolitici in Taiwan). Nelle (1) Filippine, negritos
sono attestati soprattutto a Luzon, in qualche isola Bisaya, come Negros e Panay,
oltre che in Palawan e Mindanao. In tutti i casi questi negritos «were traditionally (and in some cases
still are) foragers living in cultural symbiosis with the dominant agricultural
Filipinos» (Blust 2009 cit., p. 8). Linguisticamente, parlano lingue austronesiane
di tipo filippino non diversamente dagli altri filippini, anche se pare vi siano tracce
di un comune sostrato linguistico non-austronesiano (cfr. Lawrence A. Reid, Possible
non-Austronesian Lexical Elements in Philippine Negrito Languages, in "Oceanic
Linguistics" 33 (1994) 37-72).
[tav. 17]
Distribuzione dei negritos nelle Filippine (adattato da Reed 1899, p. 24 e Reid
1987, p. 42, citt. infra). Per i dati antichi, cfr. William Allen Reed,
Negritos of Zambales, Manila, Bureau of Public Printing, 1904 "Department
of Interior - Ethnological Survey Publications" 2.1 ed anche A. B. Meyer
The Distribution of the Negritos in the Philippine Islands and Elsewhere,
Dresden, Stengel & Co, 1899, p. 24; per una visione moderna, cfr. Lawrence
A. Reid, The Early Switch Hypothesis: Linguistic Evidence for Contact between
Negritos and Austronesian, in "Men and Culture in Oceania" 3 (1987) 41-59.
In verde marcio i nomi delle principali isole dell'arcipelago filippino; le zone
annerite sono quelle fornite da Reed all'inizio del Novecento, quelle
marcate in rosso sono invece quelle indicate alla fine del secolo da Reid, da cui
traggo anche i nomi delle 24 lingue attualmente note. Si noterà la restrizione
dei territori negritos, ma anche la "comparsa" di varietà sconosciute ai tempi di Reed.
I termini variamente diffusi ayta, agta, atta, alta,
atta ed ata (spesso globalmente resi come aeta) rispecchiano
un protofilippino *qaRtaq 'negrito' (cfr. Reid 1987 cit. p. 43) da un PAN
*qa(R)(CtT)a 'outsiders, alien people' (cfr. Robert Blust, A note on PAN
*qa(R)(CtT)a 'outsiders, alien people', in "Oceanic Linguistics" XI (1972)
166-171).
Nell'area (2) malese meridionale, poi, la
presenza dei negritos si intreccia con quella degli orang asli di cui
parleremo a proposito delle lingue austroasiatiche;
qui l'intreccio di aspetti di antropologia fisica, etnicità culturale e linguistica
sono ancora più aggrovigliati: linguisticamente, infatti, una parte, degli
orang asli parla dialetti malesi (austronesiani) ed una parte lingue asli
(austroasiatiche arcaiche), ma pur riconoscendosi od essendo riconosciuti culturalmente
tutti come orang asli, vi sono comprese popolazioni con tipi morfologici tanto negritos,
quanto ordinariamente "malesi" (orientali-indonesiani), e quanto variamente "misti".
In altre parole, sembra essere accaduto che la popolazione originaria negrita, antecedente
sia l'arrivo dei parlanti austroasiatici (asli) sia di quello dei parlanti austronesiani
(malesi), si sia linguisticamente assimilata agli uni od agli altri, a volte anche ibridandosi
(con matrimoni misti) insieme, ma mantenendo (a volte fino ad oggi) i tratti culturali
arcaici di cacciatori-raccoglitori; d'altro canto, anche popolazioni di origine
austoasiatica od austronesiana hanno seguito il percorso inverso, mantenendo ossia
la propria lingua, ma assimilandosi culturalmente ai negritos (cioè diventando anch'essi
dei cacciatori-raccoglitori), ed a volte ibridandovisi insieme; dalla convergenza
di questi due gruppi di processi interattivi si sarebbe prodotta la complessa situazione
attuale. Nell'area (3) andamana, infine (cfr. più diffusamente
oltre), i negritos originari
(oggi praticamente estinti in quasi tutto l'arcipelago fuorché nel suo estremo lembo
meridionale) non hanno subito simili processi ibridativi, mantentenendo addirittura delle lingue
individuali, irrelate con le altre note al mondo.
[tav. 18]
I negritos hanno avuto grande impatto nell'immaginario occidentale e molta letteratura
di avventura ne ha tratto spunto: il caso forse più famoso è quello delle avventure a fumetti
del personaggio creato da Lee Falk nel 1936, Phantom, noto al pubblico italiano
attraverso le traduzioni Nerbini come L'Uomo Mascherato o L'Ombra Che Cammina,
dalla cui prima storia (in italiano I pirati Singh) riproduco una bella tavola.
I pigmei bandar presso cui regna sono una sorta di summa o, se vogliamo, di "ipernegritos",
improbabili ma caratteristici: abitano nelle isole della Sonda (come nessun gruppo
negrito a noi noto), sono temuti anche dagli indigeni normali, e sono cannibali
(come nessun negrito che conosciamo, ma come molte popolazioni papua e melanesiane erano
fino a non molto fa); pur essendo, però, va tra l'altro detto, la creazione originaria di Lee Falk
un prodotto chiaramente di ambiente coloniale, pure non ne condivide molti dei più distruttivi luoghi comuni.
Dopo il tipo indonesiano-orientale (modified mongoloid), l'altro tipo più comune
(3) è quello che potremmo chiamare melanesiano o
papua, diffuso in parte delle Molucche ed, appunto, soprattuto in Papua e Melanesia.
In realtà, non si può parlare di "un" tipo unico, quanto piuttosto di un complesso
cluster di tipi diversi, variamente sovrapposti ed ibridati, che manifestano pertanto
una grande «wealth of variation. Among peoples who are commonly characterised as Melanesian,
skin colour ranges from reddish brown (Mekeo, Motu, Hula, Keapara, Kilivila and similar
people in Southeast New Guinea), to coal black (Buka, Bougainville, and other parts
of the Western Solomons). Hair is naturally black to brown, reaching reddish-brown
in some areas [...]. [...] hair form is not kinky, but ranges from wooly (Bismark
Archipelago) to bushy (Fiji). Eyes are dark brown, and the Mongolian fold occurs
in some areas (as the North coast of New Guinea). Stature is variable, from relatively
short in much of Central and Western Melanesia, to nearly the Polynesian norm in Fiji
and New Caledonia. [...] The attempts of some writers to distinguish a "Melanesian"
from a "Papuan" physical type appear groundless, although there are clear somatic
differences between highland and lowland populations in New Guinea that are independent
of linguistic affiliation» (Blust 2009 cit., p. 10). Inoltre, qui il «mismatch of
linguistic affiliation and physical type» (per dirla col solito Blust 2009 cit., p. 9)
raggiunge prevedibilmente il culmine. A Halmahera nelle Molucche settentrionali, ad esempio,
molte lingue papua (cioè non-austronesiane, cfr. oltre,
prevalenti nel Nord dell'isola) come ternate, tidore e galea sono parlate da popolazioni
di tipo indonesiano, mentre quasi tutte le lingue austronesiane del Sud dell'isola
sono parlate da popolazioni di tipo papua; e scambi lingua-somatica od ibridazioni di
vari gradi e tipi sono comuni in tutte le Molucche, dove complessivamente prevale
il tipo indonesiano, e Nuova Guinea, dove prevale il tipo Papua. Il tipo melanesiano è invece
quasi universale, ovviamente, in Melanesia: nelle Bismarck (incl. Admiralties, St. Mathias
e New Ireland e New Britain comprese) e nelle Salomone (incl. Bougainville, New Georgia,
Guadalcanal e Santa Cruz) di nuovo lingue Papua ed AN si alternano; in Vanuatu (le Nuove
Ebridi di un tempo), Loyalties e Nuova Caledonia, invecece, salvo le intrusioni
recenti, le lingue austronesiane ed il tipo fisico melanesiano sono pressoché
esclusivi. Pressoché, perché molte popolazioni che parlano le cosiddette lingue polinesiane
outliers in Melanesia hanno caratteristiche più polinesiane che melanesiane.
[tav. 19]
Tipici melanesiani d'antan in una preziosa foto degli anni Dieci scattata
dall'esploratore, fotografo e cineasta Martin Johnson, autore con la moglie Osa di alcune
delle testimonianze (foto e filmati) più interessanti sull'antropologia di Vanuatu e Solomone.
Si tratta di uno dei primi contatti pacifici (cioè non finiti con grigliata mista di esploratori ...)
con una delle tribù allora considerate (non a torto) più feroci delle Nuove Ebridi (oggi Vanuatu):
i Big Nambas (Big Numbers nelle vecchie fonti) della parte nordoccidentale di Malakula
(la seconda isola per grandezza dell'arcipelago, nella parte settentrionale), parlanti
l'omonima lingua AN (posizione completa nella tassonomia
filogenetica precedentemente illustrata: AN/MP/CEMP/EMP/O/CEO/RO/NCVanuatu/MalekulaInt/MalekulaC)
che oggi, secondo il solito Éthnologue,
ha ancora 3.350 parlanti. Ritratti sono al centro il re dei Big Nambas Nagapate con la signora
Johnson, che, per quanto appetitosa, evidentemente non è stata pappata dagli ancora assai gourmands
Big Nambas. Vanuatu, in effetti, vantava un bel record di missionary stews (per dirla
con Eliot), ed era ancora una delle zone più cannibaliche e primitive del globo.
Oggi (ahimé) non più. Da: Martin Johnson, Cannibal Land, Adventures with a Camera
in the New Hebrides, with illustrations from the author's photographs, Boston -
New York, Houghton Mifflin Company, 1922.
L'altro tipo fisico più diffuso (4)
è infatti quello polinesiano: «as noted repeatedly by ealy European voyagers,
Polynesian differ strikingly in physical type from most peoples of Melanesia in at
least two respects: they are much taller, with lighter skins and straighter hair.
Young mens often have powerful builds, and not only do both sexes tend to corpulence
as they age, but over much of Polynesia corpulence was istitutionalised as a cultural
value» (Blust 2009 cit., p. 11). Anche qui, comunque, non mancano (anche se su
dimensioni molto minori) gli incroci di antropolgia e cultura (ad es. «Fijians are usually
described as phisically Melanesians, but they are culturally closer to Polynesians,
vary considerably in skin color, and are far taller than most Melanesian populations
further West», ibidem) o lingua (ad es. «Rotumans are physically similar
to Polynesians, but speak a non-Polynesian language», ibidem); ed agli outliers
polinesiani in Melanesia abbiamo già accennato.
L'ultimo tipo fisico diffuso (5) è infine quello micronesiano:
«In general Micronesians differs sharply in physical type from typical populations
in Melanesia. They are sometimes described as intermediate between Southeast Asians
and Polynesians, since they tend to be larger than most Southeast Asians, but are shorter and
darker than most Polynesian groups. The Palauan phenotype shows possible contacts
with Western Melanesia, but this is not true of any other Micronesian population» (Blust 2009 cit., p. 11).
Anche l'antropologia culturale nell'Austronesia non è meno
problematica della fisica, la cui distribuzione, come dicevamo, non sempre
segue, così come non segue quella linguistica: «il rimappaggio completo - come abbiamo
già detto, ma giova ripeterlo - dei tre elementi non è mai da ritenersi automatico,
[...] ma anche ciò concesso, resta che lo scollo tra etnografia e linguistica è
nell'Austronesia particolarmente eclatante». Comunque, anche al di là di ciò, la varietà
culturale è enorme: «AN-speaking societies cover a wide range of echological adaptations
and level of control over their environment» (Blust 2009 cit., p. 11); in alcuni casi
si tratterà di evoluzioni provocate da contatti esterni, come nel caso del
chamico
continentale o di molte culture della melanesia occidentale, per le quali è stato spesso
invocato un (peraltro misterioso) fattore papua; in altri di evoluzioni interne locali,
come nella oceania remota,
dove le popolazioni austronesiane furono i primi abitatori.
In genere tutte queste culture sembrano accomunate almeno dall'appartenenza ad una fase
"neolitica" della civilizzazione, cioè in primo luogo con economie di tipo agriculturale.
Si sono volute, però, trovare alcune eccezioni a ciò in pochi gruppi legati invece
ad una economia di sussistenza, principalmente di due tipi: (1)
sparute popolazioni di cacciatori-raccoglitori; (2) i cosiddetti
"zingari di mare" o sea gypsies; significativamente, praticamente nessuna di queste
popolazioni corrisponde fisicamente al tipo "arcaico" negrito, e solo alcune (sea
gypsies) hanno tratti linguisticamente aberranti.
Tutti i gruppi (1) di cacciatori-raccoglitori che sono stati
finora segnalati si sono (spesso dopo lunghe polemiche) rivelati casi di devoluzione,
cioè di regressione da agricoltori a raccoglitori, e non di conservazione di tratti
arcaici. Il caso più celebre è quello dei tasaday "scoperti" nel 1971 nelle foreste
centrali di Mindanao, la cui pretesa paleoliticità (furono afddirittura sbandierati
come i "Filippini originari") male si accorda col fatto che parlano una "normale"
lingua filippina fortemente affine al Blit Manobo, parlato in Mindanao da una popolazione
sedentaria ed agriculturale anche fenotipicamente simile ai Tasaday (nessuno dei due,
cioè, è di tipo negrito). Oltre alle Filippine, anche il Borneo ha vantato i suoi
cacciatori-raccoglitori nei penan/punan: il caso è meno conclamato, ma anche qui
la somiglianza linguistica e fenotipica coi loro vicini "moderno" parla in favore di
devoluzione. Nella Polinesia si è parlato dei moriori delle isole Chatham,
in cui la devoluzione è chiaramente legata ad adattamento ambientale. Culturalmente
più complessi, infine, ma non dissimili nelle conseguenze, sono infine i casi in Sumatra dei
kubu (che parlano un dialetto malese, e che abitano presso il sito dell'antica
Çrîvijaya, cfr. oltre)
e dei lubu (che parlano un dialetto del Madailing Batak).
Con (2) la comune etichetta di sea gypsies si
intendono due gruppi affatto diversi tra di loro: i sama-samau delle Filippine ed i
moken-moklen della costa birmano-tailandese nel mare andamano. Linguisticamente,
entrambi sembrano rappresentare almeno in parte (la posizione del moken, tra l'altro,
è ancora incerta) dei rami indipendenti ed arcaici del Maleopolinesiano occidentale, con tracce del fenotipo
negrito; e culturalmente entrambi presentano forme di nomadismo marittimo. Sono però
ben diversi in quanto i samalan sono da lungo tempo dediti al commercio ed agli scambi
interetnici, mentre i moken sono tradizionalmente schivi ed autosufficienti, e,
nel complesso, presentano tratti più arcaici. Concentrandoci su questi ultimi,
la situazione è in realtà assai più articolata, dovendosi distinguere almeno tre gruppi,
distribuiti tra l'arcipelago Mergui (Birmania), l'isola Phuket (Thailandia) e l'isola
Langkawi (Malesia): (a) nella zona più meridionale vi sono gli
«Urak Lavoi (Standard Malay 'Orang Laut'), who range between roughly Langkawi Island
and the southern end of Phuket Island, and who speak a phonologically aberrant dialct
of Malay» (Blust 2009 cit., p. 69); (b) a Nord degli Urak Lavoi
«in the Mergui Archipelago, are the Moken, a group that appears to have no close
linguistic ties with other AN languages» (ibidem); in terzo luogo, infine,
(c), «settled Moken have come in contact with Thai, and
like northern dialects of peninsular Malay have begun to acquire lexical tone. These
dialects are known as Moklen to distinguish them from the less contact-influenced
language of their relatives who continue to mantain a somewhat more isolated
nomadic life in houseboat communities in the Mergui Archipelago» (ibidem).
Larish 2005 (cit. infra) riferisce che moken e moklen sono ormai due lingue
distinte non intercomprensibili, e proponeva una affiliazione al gruppo maleo-chamico,
che non pare generalmente accettata.
[tav. 20]
La kabang, casa tradizionale dei moken, i cosiddetti "sea gypsies", in una
preziosa (anche se purtroppo tecnicamente non eccezionale, ed in parte controluce)
foto dei primi del secolo scorso, da Walter Grainge White, The Sea Gypsies
of Malaya. An account of the nomadic Mawken people of the Mergui Archipelago with
a description of their ways of living, customs, habits, boats, occupations, etc.,
etc., etc., London, Seeley, 1922. Linguisticamente, il testo oggi di riferimento,
con breve schizzo grammaticale e bibliografia, è Michael D. Larish, Moken and Moklen,
in The Austronesian Languages of Asia and Madagascar edited by Alexander Adelaar and
Nikolaus P. Himmelmenn, London - New York, Routledge, 2005 "Routledge Linguistic Series",
pp. 513-533.
Questa complicata situazione geografica ed antropologica ha una
parziale spiegazione in quella che pensiamo possa essere stata la preistoria
della diffusione delle popolazioni di lingua austronesiana, così come ricostruiamo
dai dati archeologici e linguistici.
«The Negritos of SE Asia are presumed to represent the survivors of a population that
reached this area during the Pleistocene at least some 40.000 years ago» (Blust 2009 cit., p. 9),
e verrebbero fatte coincidere con lo strato archeologico più antico, supponendo
un'antichità che pare linguisticamente incommensurabile (e per me tutto sommato improbabile)
anche per i "fossili linguistici" delle Andamane (cfr. infra).
In realtà la presenza di ominidi in Australasia risale (secondo le ultime datazioni)
al tardo Pleistocene Inferiore (Calabriano), con i resti di Homo erectus scavati
a Giava nel 1892 ed oggi ascritti ad oltre 1,2 milioni di anni fa; molto, inoltre,
non è ancora chiaro nella diffusione degli ominidi in quest'area, e la recentissima (2003)
scoperta a Flores dei resti di una specie di ominidi pigmoidi, databili a c. 13.000
anni fa, cioè alla fine del Pleistocene Medio (Ioniano), l'Homo Florensis,
ha ulteriormente complicato il quadro. Le prime testimonianze paleolitiche della presenza
di Homo sapiens sapiens in Australasia risalgono comunque alla metà del Pleistocene Medio,
e più precisamente a 47.000 anni fa: Tabon nelle Filippine C, Niah in Sarawak N,
Changpin in Taiwan E; tutte zone allora raggiungibili a piedi, dato che la placca
continentale era ancora tutta emersa. I discendenti di questi cacciatori-raccoglitori
sarebbero verosimilmente i negritos (le cui lingue sono però altra faccenda).
Più tarda è la cronologia del paleolitico in Papua e nella Melanesia: «radiocarbon dates
from Matenkupkum in New Ireland and Kilu on the island of Buka in the western Solomons, show
tha stone age people managed to reach these island with some type of watercraft more than
30.000 years ago» (Robert Blust, The Austronesian Languages, Canberra, Australian National University
- Research School of Pacific and Asian Studies, 2009 "Pacific Linguistics" 602, p. 25).
Sarebbero questi gli antenati dei papua e della componente etnica prevalente nella Melanesia,
ma in questo caso nulla fa pensare ad una unitarietà culturale o di popolazione.
L'apparizione delle prime popolazioni austronesiane è molto più tarda: dati archeologici,
linguistico-culturali (il lessico ricostruito, ad esempio, che comprende lessemi agriculturali,
ceramici e zootecnici: cfr. PAN *kuden 'terrina, pentola di coccio' [Blust
2009 cit., pp. 336-7], ecc.) e linguistico-geografici (lo spostamento via canoa, ad esempio,
e considerazioni geolinguistiche) convergono infatti a spostarne l'inizio ad epoca
neolitica. Ancora una volta, come già abbiamo visto per l'indoeuropeo
(per cui rappresentava solo una delle ipotesi principali), la comparsa di una protolingua
e l'espansione di una famiglia linguistica si trovano legati all'apparizione del neolitico.
[tav. 21]
Le principali culture neolitiche datate in Asia SE insulare ed in Oceania. Da Robert
Blust, The Austronesian Languages, Canberra, Australian National University
- Research School of Pacific and Asian Studies, 2009 "Pacific Linguistics" 602, p. 27.
I primi siti neolitici datati (cfr. la tavola precedente), sono
localizzati proprio dove considerazioni linguistiche ci avrebbero portato: a Taiwan
abbiamo una tradizione ceramica chiamata Tapenkeng dal VI millenio, e date poco più tarde
(inizio e fine V millenio) hanno le apparizioni del neolitico nelle Filippine ed in Indonesia.
D'altra parte, anche in epoca postglaciale, è sempre esistito un navigabile ponte di isole
tra Taiwan e l'Indonesia:
[tav. 22]
Il "ponte di isole" esistente tra Taiwan e le Filippine. Da Peter Bellwood - Eusebio Dizon,
Auastronesian Cultural Origins. Out of Taiwan via the Batanes Islands, and onwards
to Western Polinesia, in Past Human Migrations in East Asia. Matching Archaeology,
Linguistics and Genetics edited by Alicia Sanchez-Mazas, Roger Blench, Malcom D. Ross,
Ilia Peiros and Marie Lin, London - New York, Routledge, 2008 "Routledge Studies in
the Early History of Asia" 5, pp. 23-39, p. 27. In grigio i territori non ancora
sommersi durante il Pleistocene.
La prima apparizione di una popolazione neolitica nel Pacifico occidentale
si ha a vicino all'isola di Mussau nell'arcipelago di St. Mathias a metà del IV secolo.
Lo stile ceramico di questa cultura, detto Lapita, è caratteristico e traccia
tutta l'espansione di questa popolazione fino a Fiji ed alla Polinesia occidentale.
Questa colonizzazione neolitica austronesiana si sovrappone in Papua e tutta la
Melanesia occidentale alle culture di tradizione paleolitica già presenti in situ, ma
a partire dall'ultima delle isole Solomon non sembra più trovare altre popolazioni
preesistenti, e ne diventa così la prima occupatrice. «The Solomons chain thus appears
mark a critical boundary in the settlement of Pacific» (Blust 2009 cit., p. 26), cioè
il confine tra le cosiddette Oceania Prossima (in cui la navigazione tra un'isola
e l'altra può avvenire "a vista" ed in una sola giornata) ed Oceania Remota
(in cui la navigazione richiede più di un giorno ed avviene necessariamente "alla cieca").
[tav. 23]
Le lingue austronesiane di Melanesia (liberamente basato su John Lynch, Pacific
Languages: an Introduction, Honolulu, University of Hawai'i Press, 1998, p. 49):
in arancione i raggruppamenti primari; in rosso i raggruppamenti di secondo ordine
(tra questi si noti che almeno NNG e MM non sono che dei clusters, cioè discendono
da linkages, secondo avevamo definito il concetto,
piuttosto che da protolingue discrete); in blu i nomi di isole ed arcipelaghi;
in verde la distinzione tra Oceania Remota e Prossima; in neretto i nomi di stato
(compresa la Nouvelle-Calédonia, che è ancora territorio francese e non stato
indipendente, e l'Irian Jaya, che è una provincia dell'Indonesia); in nero i
confini linguistici e di stato; in courier nero, infine, i nomi di capitali (omettendo
per ragioni grafiche solo il nome di Nouméa, capitale della Nuova Caledonia,
comunque marcata, e Honiara, nell'isola di Guadalcanal, capitale delle Solomon Islands).
Taluni distinguono un'ulteriore unità nel WO, per altri invece parte del NNG, nell'estremità
settentrionale della costa dell'Irian Jaya, la Sarmi-Jayapura: nella tavola ne
abbiamo segnato l'ipotetico confine senza però apporvi il nome. Le lingue delle S.
Cruz. - Reef Islands, infine, fino a recente credute "papua", sembrano evadere il
limite all'oceania prossima di cui dicevamo, ma sono state recentemente dimostrate essere
una forma molto aberrante di Austronesiano Oceanico (cfr. Åshild Næss, Bound
Nominal Elements in Äiwoo (Reefs): A Reappraisal of the 'Multiple Noun Class Systems',
in "Oceanic Linguistics" XLV (2006) 269–296; Malcom D. Ross - Åshild Næss, An Oceanic
Origin for Äiwoo, the Language of the Reef Islands?, in "Oceanic Linguistics"
XLVI (2007) 456–498; Åshild Næss - Brenda H. Boerger, Reefs–Santa Cruz as Oceanic:
Evidence from the Verb Complex, in "Oceanic Linguistics" XLVII (2008) 185–212);
probabilmente sono un ramo oceanico indipendente, ma vista la novità della proposta non figurano
ancora nelle precedenti tavole tassonomiche.
Complessivamente, come si può vedere, colonizzazione neolitica e
ramificazione linguistica, sembrano seguire tracce abbastanza parallele e le grandi linee
di questa espansione out-of-Taiwan, come la teoria è stata chiamata non sono
quasi mai state dubitate (anche se v'è stata recentemente qualche voce di dissenso, che
però non convince: cfr. Michel Ferlus, Les premières expansions austronésiennes,
paper presented to The Eleventh International Conference on Austronesian Linguistics
| Onzième Conférence International de Linguistique Austronésienne. 22-26 juin 2009 -
Aussois, France, che ipotizza al contrario la priorità del Maleopolinesiano e l'arrivo degli
aborigeni taiwanesi da Sud via Filippine). Quello che è certo, però, è che Taiwan
è l'Urheimat austronesiana solo come primo centro diffusionale, in realtà
i neolitici colonizzatori di Taiwan dipendono a loro volta da un neolitico continentale,
anche se sul continente non ne è rimasta traccia: è stato spesso suggerito (a partire
da Peter Bellwood, Prehistory of the Indo-Malaysian Archipelago, Honolulu,
University oh Hawai'i Press, 1997 [2], pp. 208-213) che «the founding Neolithic
culture of Taiwan can most plausibly be derived from the rice-growing archaeological
cultures of the lower Yangzi River, which are well attested prior to 7.000 BP» (Blust 2009 cit., p. 28).
Il che spiegherebbe le isoglosse kadai-austronesiane (soprattutto nel lessico;
secondo la tesi di Benedict oggi in parte rispolverata da Sagart sarebbero prove di parentela
genealogica), austroasiatico-austronesiane (soprattutto nella morfologia; avevano
dato l'abbrivio all'ipotesi di connesione genealogica di Schmidt, cfr.
oltre, poi ripresa da Reid e Hayes),
e sino-austronesiane (al centro dell'ipotesi recente di Laurent Sagart, che coinvolgerebbe
anche le lingue daiche, che però non convince affatto) senza ricorrere a dubbie connessioni
genealogiche. Tra le aree di Austronesia deperdita, tra l'altro, dobbiamo
ricordare anche lo "strato austronesiano" presente in giapponese (cfr.
supra): anche
il Giappone era infatti raggiungibile via un ponte insulare (questa volta quello delle Ryukyu).
Naturalmente dei fenomeni migratori più recenti abbiamo tracce ben
più nitide. Ve ne sono almeno almeno tre ad interessarci: quelli (1)
del cham, (2) del polinesiano e (3)
del malgascio.
Quello (1) del "chamico" od austronesiano continentale, è forse il più
antico ma anche il più confuso. Quale che sia il rapporto con le lingue più orientali
di Giava (madurese e sundanese), Bali, Lombok (sasak) e Sumbawa, ed al di là della
espansione del malese, che abbiamo già seguito,
è indubbio che tutte le lingue austronesiane "continentali" siano una colonizzazione
secondaria rispetto alle insulari (e dunque non abbiano nulla a che fare con quella originaria
e continentale Austronesia deperdita cui abbiamo accennato). Il chamico, da
cui tutte (malese a parte, che è il prodotto di un ramo fratello) dipendono, infatti, è
strettamente legato con l'acehnese del Nord di Sumatra. Alla fine del Secondo secolo
aC. i cham stabilirono nel Centro-Sud dell'attuale Vietnam il potente regno di Cham Pa,
secondo è detto in vietnamita, forma nella quale è più comunemente noto (Campadesa
in cham, sinovietnamita Chiêm Thành), incuneato tra i regni Angkor dei khmer e quello
Ða.i Viê.t dei vietnamiti. Fondato nel 192 aC., è stato distrutto nel 1471
(in realtà, la capitale era caduta sotto i colpi dei vietnamiti già nel 1446, e poi
solo più o meno formalmente il regno sopravvisse nel Sud fino al 1832):
quasi tutte le altre lingue chamiche sono frutto di quella prima diaspora.
[tav. 24]
Stele del principe Nauc Glaun Vijaya, trovata nella pagoda vietnamita di Bu'u-so'n
(Biên-Hoa, 26 Km da Saigon) e databile al 1441 (con qualche dubbio: la data
cade su una zona poco leggible), pochi anni, dunque, prima della
caduta della capitale del regno (1446). Da Antoine Cabaton, L'inscription chame de Bien-Hoa,
in "Bulletin de l'École française d'Extrême-Orient" IV (1904) 687-690, p. 688.
Linguisticamente
sono lingue assai interessanti per vedere i mutamenti tipologici che possono trasformare
delle lingue basilartmente bisillache e senza toni e registri a contatto con lingue
a registri (per il concetto cfr. oltre
a proposito dell'austroasiatico) come il khmer, od a tono come il vietnamita, od a toni
e monosillabiche come le lingue daiche di Hainan. Anche se il legame austronesiano
con l'acehmnese era stato riconosciuto già nell'Ottocento, pure è stato fino a tempi
recenti corrente lipotesi che si trattasse di lingue austroasiatiche "miste": «The existence
of a connection between Acehnese and the mainland Chamic languages has been noticed for a long time.
As early as 1822, John Crawfurd recognized that Cham was Austronesian when he described
Cham as the "Malay of Champa". In 1891, G. K. Niemann recognized the genetic connection
between Acehnese and the mainland Chamic languages. However, around the turn of the
twientieth century, misled by typological similarites caused by contact with Mon-Khmer
languages and by material borrowed from Mon-Khmer, several scholars misanalyzed
the relationship: Schmidt
(1906) described the Chamic languages as "austroasiatische
Mischsprache" [an Austroasiatic mixed language]; Blagden (1929) recognized the unique
similarities between Acehnese and the other Chamic but suggested that these were
due to similar influences on both languages from Austroasitic sources; and Sebeok (1942)
claimed that these languages were Austroasiatic, a totally incorrect analysis»
(Graham Thurgood, The Historical Place Of Acehnese: the Known and the Unknown,
in First International Conference of Aceh and Indian Ocean Studies. 24 – 27 February
2007, organized by Asia Research Institute, National University of Singapore &
Rehabilitation and Construction Executing Agency for Aceh and Nias (BRR), Banda Aceh, Indonesia;
cfr. anche Graham Thurgood, From Ancient Cham to Modern Dialects. Two Thousend Years of
Language Contact and Change, [Honolulu], University of Hawai'i Press, 1999 "Oceanic
Linguistics - Special Publication" 28).
[tav. 25]
Le lingue austronesiane continentali: in rosso l'irraggiamento del malese, in arancione
l'acehnese, ed in giallo il chamico. Basato su Robert Blust, The Austronesian Languages,
Canberra, Australian National University - Research Shool of Pacific and Asian Studies,
2009 "Pacific Linguistics" 602, pp. 67-69 e 731.
Il caso (2) dell'espansione delle lingue polinesiane,
di quasi pari antichità, è più netto ed è particolarmente interessante da un punto
di vista metodologico, per almeno due ragioni. In primo luogo la ricostruzione
culturale e linguistica della protopolinesia ancestrale, che le tradizioni popolari (e quindi gli antropologi)
usulmente chiamano col termine hawaiki è stata oggetto nel 2001 di un lavoro magistrale
che usando una sapiente "triangolazione" di dati archeologici, antropologici e linguistici,
ha raggiunto risultati insperati e significativi: cfr. Patrick Vinton Kirch - Roger K. Green,
Hawaiki, Ancestral Piolinesia. An Essay in Historical Anthropology, Cambridge (UK)
- New York (USA) - Oakleigh (AU) - Madrid (ES) - Cape Town (SA), Cambridge University Press, 2001.
[tav. 26]
Hawaiki, ossia la Polinesia ancestrale, situata tra Tonga e Samoa, in due
aree già parzialmente distinte, dove erano arrivate le comunità prepolinesiane, neolitici
Lapita provenienti dalle Figi. Da Patrick Vinton Kirch - Roger K. Green,
Hawaiki, Ancestral Piolinesia. An Essay in Historical Anthropology, Cambridge (UK)
- New York (USA) - Oakleigh (AU) - Madrid (ES) - Cape Town (SA), Cambridge University Press, 2001, p. 59.
In secondo luogo la colonizzazione della Polinesia è metodologicamente
interessante perché lo schema dei raggruppamenti delle varie lingue
(cioè i loro rapporti genealogici) segue abbastanza fedelmente il modello diffusionale
delle rispettive popolazioni, come messo in luce dalle datazioni archeologiche al
radiocarbonio, almeno per quello che riguarda il "triangolo polinesiano" vero e proprio
(per le outliers polinesiane in Melanesia, invece, le cose non sono affatto chiare,
e si sta recentemente assistendo a vari tentativi di sistemazione: cfr. Blust 2009 cit.,
pp. 717-719).
[tav. 27]
Schema della diffusione delle popolazioni della Polinesia: i primi abitanti arrivarono
a Tonga dalle Figi intorno al 1200 a.C.; una prima espansione raggiunse le isole Marchesi
nel 300 d.C; una seconda espansione raggiunge la poninesia orientale, l'isola di
Pasqua nel 400 d.C e le Hawaii nel 500 d.C.; la nuova Zelanda è raggiunta nell'800 d.C;
vi sono tracce di una terza, più discussa e recente, dispersione secondaria. Riprodotto
da Colin Renfrew, Archeology and Language. The Puzzle of Indo-Europeans origins,
London, Jonathan Cape, 1987 (trad it. Archeologia e linguaggio, Roma - Bari,
Laterza, 1989, p. 316 (basato su The Prehistory of Polynesia edited by J. D.
Jennings, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 1979).
Il più recente, (3), è la migrazione dei malgasci,
risalente a circa l'800 dC; i suoi dettagli storici sono sconosciuti, ma la sua definizione
linguistica è sicura ormai da tempo. La austronesianità del malgascio, o, per essere
precisi, i suoi legami col malese, erano stati riconosciuti fin dal 1600 da Frederick
de Houtman (Spraeck ende woord-boeck in de Maleysche ende Madagaskarsche talen,
met vele Arabische ende Turcsche woorden [...]: noch de Declinatien van vele vaste
sterren, staende omtrent den Zuyd-pool, Amsterdam, J. Ez. Cloppenburch, 1603),
ma la sua precisa origine dal bacino del Barito nel Borneo (provincia indonesiana
del Kalimantan) fu dimostrata dal norvegese Otto Christian Dahl nel 1951 (cfr. Otto Christian Dahl,
Malgache et Maanjan: une comparaison linguistique, Oslo, Egede Instituttet,
1951 "Studies of the Egede Institute" 3; e cfr. il più recente Migration from Kalimantan
to Madagascar, Oslo, Norwegian University Press, 1991 "Institute for Comparative
Research in Human Culture"): il malgascio sarebbe infatti strettissimo parente del
ma'anjan, un linguaggio Barito del gruppo orientale. Interessante è anche che Humboldt
nel suo più volte ricordato Kawi Sprache lo connettesse invece alle lingue Filippine:
«more recently Blust (2005c) [= Robert Blust, The Linguistic Microhistory of the Philippines:
some speculations, in Current Issues in Philippine Linguistic and Anthropology,
Parangal kay Lawrence A. Reid, edited by Hsiu-chuan Liao and Carl Ralph Galvez Rubino, Manila,
Linguistic Society of the Philippines - SIL Philippines, 2005, pp. 31-68] has show that the
Sama-Bajaw languages of the Philippines have either borrowed from Barito languages
at least a millenium ago, or belong to a "Greater Barito" grouping that includes
Sama-Bajaw and Barito as primary branches» (Blust 2009 cit., p. 731); l' "errore"
di Humboldt ha così trovato la sua logica spiegazione.
Scendendo finalmente alle caratteristiche linguistiche
principali delle lingue austronesiane, v'è tutto sommato una uniformità insperabile
in una famiglia così vasta ed articolata, anche se singole lingue o gruppi di lingue
possono avere sviluppato caratteristiche fortemente aberranti e singolari, specie nelle
Molucche ed in area melanesiana - oceanica occidentale (dove di solito più o meno semplicisticamente
si addebita il fatto al "sostrato papua"), sudorientale e meridionale (aree appartenenti
già all'Oceania remota, per le quali quindi non si può invocare alcun effetto di sostrato).
In generale, però, si assiste ad una generale semplificazione (sia fonologica che
morfologica) che procede da Ovest (dove si possono indicare i due "tipi" areali
filippini e malesi) verso Est (estremizzabile nel "tipo" polinesiano orientale),
con le lingue di Taiwan (non imprevedibilmente) più vicine alle condizioni filippine
che a quelle oceaniche.
(1) Foneticamente le lingue austronesiane sono in genere abbastanza semplici: perlopiù non sono tonali, hannosistemi fonologici modesti e struttura sillabica semplice, con netta preferenza per le parole bisillabiche.
Già il protoaustronesiano, secondo la ricostruzione più recente, che è quella documentata al più volte citato Blust 2009, pp. 506-680, che raccoglie, discute ed organizza i risultati di una ricerca ormai plurisecolare, era una lingua con un sistema fonologico abbastanza semplice: 25 consonanti e sole 4 vocali (con 4 dittonghi), per un totale di 29 fonemi; assenti tono, registro, e durata; anche la distintività dell'accento è fortemente discussa. La struttura canonica di morfema radicale era bisillabica CV(C)CVCC, in cui la (C), quando presente, è una nasale omorganica con l'occlusiva seguente (fonte in larga parte del MP di occlusive prenasalizzate, ma quasi assente in Taiwan, ad es. *punti 'banana' ) o più raramente qualsiasi segmento eterorganico in antiche sequenze reduplicate (ad es. *pakpak 'sbattere le ali').
[tav. 28]
Il sistema fonologico protoaustronesiano, basato su Robert Blust, The Austronesian Languages,
Canberra, Australian National University - Research Shool of Pacific and Asian Studies,
2009 "Pacific Linguistics" 602, pp. 546-585. Nella parte superiore impagino fonologicamente
i simboli grafici correntemente usati per identificare i fasci di correspondenze
("protofonemi") identificati; nella parte inferiore fornisco l'interpretazione fonetica
indicativa e prevalente di tali corrispondenze col grafo IPA di riferimento. Fonologicamente
gli ordini sarebbero: palatale, dentale, alveolare, palato-alveolare, retroflesso,
palatale, velare, uvulare e laringale; le serie: occlusiva/affricata sorda e sonora,
fricativa sorda, nasale, laterale, vibrante ed approssimante.
In alcuni casi tra
identificazione formale e caratterizzazione fonetica v'è plausibilissima corrispondenza
(ad esempio per *p,*b,*k,*m,*n e*n, [n velare]), in altri
completa incertezza. Emblematico il caso della *j: il fascio di corrispondenze
è assolutamente sicuro ed unanimamente riconosciuto, ma il valore fonetico con cui
ipoteticamewnte sostanziarlo altamente misterioso, dato che i riflessi che se ne hanno
sono veramente disparati, ad esempio: c (sediq [finale]), d (paiwan, tagalog [finale], ecc.),
g (rukai, ilocano, ecc.), j (pamona/bare'e), k (palauano, toba batak),
l (kabakanabu, tagalog [mediale], ecc.), n (amis, kavalan, siraya),
n, (karo batak), 7 (chamorro), r (tetun, admiralty, ecc.),
s (maloh, buginese, ecc.), t (malese, rejang), x (nias), y
(sediq [interno]), ð (saisiyat, thao), z (pazeh [interno]), zero
(tsou, bunun, ecc.); la proposta di Blust di un'occlusiva velare palatalizzata sonora
è solo il minimo comune denominatore fonetico di una simile complessa equazione, ma non è
fonologicamente ottimale. Di dubbia interpretazione sono anche la *N, la *R (l'unica
cosa certa è che l'opposizione tra le due erre è tra polivibrante e flap), e la *D
retroflessa; è recente anche la proposta di separare dalla *R un fascio di
corrispondenze irregolari identificandolo col simbolo *L, possibilmente
un'affricata laterale. Si noterà, tra l'altro, che la tradizione austronesianistica
è di mantenere i grafi convenzionali senza "aggiornarli" costantemente all'ultima
nuova reinterpretazione fonologica del momento: una buona pratica tanto per ragioni teoriche
(consapevolezza che le ricostruzioni hanno valore formale e non realistico), quanto
per ragioni pratiche (comodiità di mantenere la pari leggibilità delle ricostruzioni
passate e presenti, senza smarrirsi tra le differenti simbologie).
I sistemi fonologici delle lingue attuali (mi baso soprattutto
su Blust 2009 e Lynch 1998 citt., salvo diversamente indicato), pur presentando
come vedremo oscillazioni anche forti, possono essere mediamente ben rappresentati
dal malese e dal tagalog, che dalla situazione protoaustronesiana non si distanziano
molto (situazioni simili ma più varie si trovano anche in Taiwan). Su questa "media"
l'oceanico ha portato avanti la sua consueta riduzione, portata alle sue estreme
conseguenze nel polinesiano orientale, che può essere ben rappresentato
dall'hawaiiano, con le sue sole 8 consonanti:
[tav. 29abc]
I sistemi fonologici di tre rappresentative lingue austronesiane (malese, tagalog e
hawaiiano) nelle rispettive ortografie standard.
I grafemi unitamente alla loro impaginazione sono in genere autoevidenti; si tenga
solo conto che c ty e j dy stanno per le affricate palatali (italiano
ci e gi) rispettivamente sorde e sonore, ed analogamente sy per
la fricativa e ny per la nasale; se i fonemi sono in nero, tra tonde ed in grigio
sono i foni usati solo nei prestiti. I sistemi (a) e (b) sono tipici delle Filippine
e dell'area occidentale; il ridottisimo (c) invece è tipico per la Polinesia.
Anche in area occidentale, comunque, la media non è sempre la
norma. Il caso più aberrante è senz'altro rappresentato dal cham (Tav. 47a - e dalle
altre lingue chamiche), dove il colpevole è certo il contatto con le lingue mon-khmer,
di cui ha assunto le caratteristiche salienti: oltre la ristrutturazione del sistema
consonantico in 5 serie di occlusive (sorde, sonore, sorde aspirate ed implosive)
su quattro (con escursione da tre a cinque) ordini, cui sono allineate una serie di
4 nasali e di 3 fricative, il ricco sistema vocalico (anomalo in austronesiano ma
normale in mon-khmer) ad 11 membri, la presenza di due registri (cfr. oltre nel capitolo seguente
per una trattazione-quadro della nozione), mormorato e chiaro, e la recente
tonogenesi di molte varietà orientali. Non è sempre però detto che il solo contatto
esterno con altre varietà sia l'unico fattore a determinare deviaziobni dal tipo
austronesiano più standard. Se infatti vocalismo e soprasegmentali del cham sono
senz'altro indotti dal mon-khmer, per il consonantismo anche sviluppi autonomi sono
possibili, trovandosi in area indonesiana spesso sistemi analoghi come quello del madurese
(Tav. 47b) o del giavanese (lingua che anzi secondo taluni avrebbe anche sviluppato una
sorta di registro "scuro"), pur a fianco di altrettanto autonome, ma più rare, semplificazioni
come quella dell' enggano (Tav. 47c) che sembrano già da austronesia orientale.
[tav. 30abc]
(a) Per il Cham vi sono molte oscillazioni sulla corretta interpretazione del suo
sistema fonologico, parte perché alcuni mutamenti (come la tonogenesi) sono tutt'ora
in atto: quello fornito è la mia ricostruzione a partire da tre fonti principali:
Graham Thurgood, Phan Rang Cham, in The Austronesian Languages of Asia
and Madagascar edited by Alexander Adelaar and Nikolaus P. Himmelmenn, London
- New York, Routledge, 2005 "Routledge Linguistic Series", pp. 489- 512; Phu Van Han
- Jerold Edmondson - Kenneth Gregerson, Eastern Cham as a Tone Language,
"Mon-Khmer Studies" XX (1992) 31-44; Robert Blust, The Austronesian Languages,
Canberra, Australian NationalUniversity - Research Shool of Pacific and Asian Studies,
2009 "Pacific Linguistics" 602, pp. 180-1. (bc) Schema del madurese e dell'enggano da
Blust 2009 cit., p 182. I grafi scelti sono spero autoevidenti (non fosse che per la
loro impaginazione); si tenga comunque sempre che il grafo c sta per l'affricata palatale
(e tale caratteristica identifica tutto il suo ordinee) ed il grafo col punto sottoscritto
vale retroflessione; sempre, inoltre, tra tonde ed in grigio i foni usati solo nei prestiti.
In area Sonda minori - Molucche ed in Micronesia il panorama
si sfaccetta ulteriormente, ma le situazioni più aberranti si trovano comunque in Melanesia
dove solo nella parte nordoccidentale si possono invocare influssi papua, mentre
nella parte sudorientale, in assenza di altri fattori esterni, bisogna accettare
che si tratti di sviluppo interno.
In area Papua (Nuova Guinea, Isole Bismarck e Salomone) si hanno sistemi che possono
essere da molto complessi (in area c'è anche il papua rennellese, una delle lingue
foneticamente più complese del mondo), come quello del bukawa (Huon Gulf, costa NE
della Nuova Guinea) con le sue 30 consonanti 7 vocali e 2 toni, a molto semplici
(ed in area c'è il papua rotokas, la lingua con sistema fonologico più piccolo del modo),
con dimensioni da lingua polinesiana, come nel mekeo (coste E del Golfo di Papua,
SE Nuova Guinea) con circa 8 consonanti e 5 vocali (vi sono incertezze sulla interpretazione
di un pauio di allofoni: donde il circa); e lo stesso vale per la Micronesia, dove il
sistema più complesso è quello del kosraeo (isole Kosrae / Kusaie, Caroline e Nauru)
con 35 consonanti e 12 vocali, ed il più semplice quello del gilbertese o kiribati
(isole Gilbert oggi Kiribati), con sole 10 consonanti e 5 vocali.
Molte sono le "rarità" fonologiche diffuse nell'area. In primo luogo, cosa assai rara
in Austronesia, si segnalano poche lingue tonali come il bukawa ed il finitimo ed
affine yabem: anche queste tonogenesi, come quella del cham, si possono forse imputare
ad influsso esterno, trovandosi nell'area alcune lingue papua tonali. In secondo luogo
è da segnalare la frequenza di labiovelari (di solito assenti in Austronesia ma ben
attestate in Papua), come ad esempio in kilivila (la lingua delle isole Trobriand),
e la diffusione di serie prenasalizzate (come nel già menzionato bukawa). Notevoli,
inoltre, nelle lingue delle isole Bismarck (specie Manus) sono le polivibranti
prenasalizzate, bilabiali ed alveolari, di solito scritte br e dr.
Scendendo alla Oceania Remota, le nuove Ebridi, oggi Vanuatu, si fanno notare solo
per alcuni tratti fonologici quasi unici (le occlusive apico-labiali, pronunciate
con la punta della lingua che tocca il labbro superiore, e finora segnalate oltre che in Vanuatu NC
nel mondo solo in Umotina, una lingua del Mato Grosso) o rari (le "labio-labiali",
cioè delle labiali pronunciate con rilevante protrusione labiale, come le labiovelari
/kw/ cfr. it quando che ben conosciamo; nelle grafie standard sono di solito
scritte con emme+tilde).
Il massimo della complicazione si raggiunge, però, nella Nuova Caledonia e
nelle Isole della Lealtà (come, al contrario, il massimo
della riduzione si ha in Polinesia orientale): qui troviamo, infatti, il più
grande inventario fonologico presente in una lingua austronesiana, quello del nemi
(una lingua caledoniana settentrionale, cfr. Tav. 48a) con 50 fonemi; sempre qui,
inoltre, vi sono i sistemi vocalici più complessi della famiglia (la cui norma è a
5): il massimo pare siano le 19 vocali distintive del kunye della Isle des Pins, ma
non sono infrequenti sistemi fino a 17, come quello dello xârâcùù (caledoniano
meridionale). La peculiarità più notevole è forse la tonogenesi diffusa in molte
lingue dell'area (cfr. ad es. il cèmuhî riportato in Tav. 48b), che qui è sicuramente
sviluppo autonomo, ma che segue linee di sviluppo analoghe a quelle di altre, più note,
tonogenesi (si pensi, ad es. al cinese od al vietnamita):
sillabe originariamente con
consonanti sorde sviluppano un tono alto, con consonanti sonore un tono basso.
Molte inoltre le anomalie rispetto alla norma delle lingue austronesiane:
la presenza molto estesa delle "labio-labiali" che già avevamo segnalato a Vanuatu,
e che qui tendono a costruirsi come ordine completo (a volte anche con la curiosa
compresenza di un ordine "labio-velare" accanto a quello "labio-labiale" come in xârâcùù);
la abbondanza di fricative (cfr. nemi e xârâcùù); l'uso distintivo della aspirazione
(cfr. la seconda serie in xârâcùù) e delle nasali sorde (cfr. ancora lo xârâcùù);
la prenasalizzazione automatica delle occlusive sonore. Al di là di tutto ciò la caratteristica
strutturante più cospicua riguarda la nasalità, che non solo si applica spesso (cfr.
nemi e xârâcùù) al vocalismo ma diventa la struttura postante del consonantismo,
riunendo nello stesso fascio occlusive e nasali e, meno completamente (ma cfr. lo
xârâcùù), le fricative: in nemi per cinque ordini (labio-labiale, labiale, dentale,
palatale e velare) si hanno ben sei serie (orale sorda, orale aspirata, postnasalizzata
sorda, prenasalizzata sonora, nasale sonora).
[tav. 31abc]
I sistemi fonologici più complessi tra le lingue austronesiane: le lingue della Nuova
Caledonia.(a) è basato su Françoise Ozanne-Rivierre, 64. Nemi, in Comparative
Austronesian Dictionary. An Introduction to Austronesian Studies edited by Darrell
T. Tryon, Parts 1-4, Berlin - New York, Mouton de Gruyter, 1995 "Trends in Linguistics
Documentation" 10, Part 1, pp. 849-853 e Robert Blust, The Austronesian Languages,
Canberra, Australian NationalUniversity - Research Shool of Pacific and Asian Studies,
2009 "Pacific Linguistics" 602, pp. 198 - 200. (b) è basato su Jean-Claude Rivierre,
65. Cèmuhî, in Comparative Austronesian Dictionary. An Introduction to
Austronesian Studies edited by Darrell T. Tryon, Parts 1-4, Berlin - New York,
Mouton de Gruyter, 1995 "Trends in Linguistics Documentation" 10, Part 1, pp. 855-858,
John Lynch Pacific Languages: an Introduction, Honolulu, University of Hawai'i Press,
1998, p. 82 e Robert Blust, The Austronesian Languages, Canberra, Australian
NationalUniversity - Research Shool of Pacific and Asian Studies, 2009 "Pacific
Linguistics" 602, pp. 198 - 200. (c), infine, è basato su Claire Moyse-Faurie,
67. Xârâcùù, in Comparative Austronesian Dictionary. An Introduction to
Austronesian Studies edited by Darrell T. Tryon, Parts 1-4, Berlin - New York,
Mouton de Gruyter, 1995 "Trends in Linguistics Documentation" 10, Part 1, pp. 867-870,
John Lynch Pacific Languages: an Introduction, Honolulu, University of Hawai'i
Press, 1998, p. 295 e Robert Blust, The Austronesian Languages, Canberra,
Australian NationalUniversity - Research Shool of Pacific and Asian Studies, 2009
"Pacific Linguistics" 602, pp. 198 - 200.
La struttura sillabica, come in protoaustronesiano, anche
nelle lingue moderne è di norma solo CV con netta preferenza per le parole bisillabiche
(cfr. Robert Blust, Disyllabic Atractors and Antigemination in Austronesian
Sound Change, in "Phonology" XXIV (2007) 1-36; e Blust 2009 cit. p. 204),
cui non mancano le eccezioni con escursioni dal monosillabico (per esempio nelle
lingue chamiche, per influsso areale) addirittura al quadrisillabico (pad esempio
in nengone delle Isole della Lealtà, per sviluippo autonomo come usuale nell'area
caledoniana).
(2) Morfologicamente le lingue austronesiane sono di solito agglutinanti (tutti i morfemi, cioè, sono normalmente segmentabili, con significato unitario, e disposti in sedi fisse) e blandamente sintetiche (con parole, cioè, che consistono di più morfemi). Naturalmente esistono eccezioni ad entrambe le caratteristiche: il malgascio (come anche molte lingue delle Admiralty Islands ed il palauano), ad esempio, presenta molti fenomeni di fusione (prevalentemente problemi di segmentazione, in quanto non giunge mai ad avere effettivi morfemi-portamentello, tipo il genere-numero dell'italiano, come accade nelle vere lingue fusive); sporadiche forme polisintetiche si hanno invece in ilokano nelle Filippine (dove però la maggior parte delle frasi contiene due o più parole: le parole-frasi da vera lingua polisintetica sono rarissime), mentre condizioni da lingua isolante (una parola = un morfema) sono note nella maggior parte delle lingue di Flores W e C (isole minori della Sonda) come Manggarai, Ngadha, Lio e Kéo (lingue in cui, peraltro, il forte impoverimento morfologico si accompagna ad una notevole conservatività nel lessico). In generale, comunque si assiste al consueto fenomeno di semplificazione Ovest-Est: se in ilokano (Filippine) sono noti circa 400 morfemi grammaticali e le parole più frequenti ne contengono tre o quattro, in hawaiiano (Polinesia E) ve ne sono circa 25 di cui le parole più frequenti ne contengono solo uno (parole più complesse delle bimorfematiche non sono impossibili ma assai rare). E le condizioni di Taiwan sono, come spesso, più simili alle Filippine (il thao, ad esempio, ha circa 200 morfemi grammaticali). I "tipi" grammaticali arealmente più cospicui sono al solito quello filippino (con morfologia specie verbale piuttosto complessa), quello malese-indonesiano occidentale (più semplice), e quelli indonesiano orientale (cfr. le lingue di Flores) e polinesiano fortemente semplificati ed al limite dell'isolante.
Al di là della variabilità degli indici di agglutinazione e sintesi, tipica di tutta la famiglia è la preferenza accordata ad alcune particolari forme di morfema: sono prevalenti, infatti, i prefissi rispetto ai suffissi, ed accanto a questi sono presenti formazioni poco diffuse come gli infissi ed i circumfissi; inoltre vi è un uso sistematico della reduplicazione.
[tav. 32]
I tipi di morfemi grammaticali presenti nelle lingue austronesiane, distinti tra quelli
risalenti al proto-austronesiano (PAN), al proto-maleopolinesiano (PMP) ed al
proto-oceanico (POC) secondo Robert Blust, The Austronesian Languages,
Canberra, Australian National University - Research Shool of Pacific and Asian Studies,
2009 "Pacific Linguistics" 602, p. 358.
I prefissi in austronesiano rappresentano il tipo più
diffuso (sono tre volte più numerosi dei suffissi), e sono di solito monosillabici,
prevalentemente CV, e raramente bisillabici, ed assolvono alle funzioni grammaticali
più varie, verbali (tempo, modo, aspetto, intransitivo, direzionale, reciproco, ecc.),
nominali (caso, astratti, deverbali, ecc.) e numerali (moltiplicativi, frazionali,
ordinali, ecc.). Notevole, inoltre, che nella drastica riduzione del proto-oceanico,
la proporzione suffissi / prefissi venga ribaltata, accanto al crollo del numero
complessivo dei morfemi.
Gli infissi, altra categoria pressoché assente in italiano, sono numericamente
più esigui, ma comprendono alcune forme fondamentali (e diffuse in oltre 200 lingue) come
ad esempio il PAN *-um- 'actor voice / focus', morfema basilare per il sistema verbale
delle lingue delle Filippine e di Taiwan, sul cui valore cfr. oltre;
il morfema era peraltro da tempo famoso, in quanto trattato da Sapir, Language, New York, Harcourt
& Brace, 1921, trad. it. Il linguaggio, Torino, Einaudi, 1969, p. 73, che lo
illustrava col bantok gorot (Filippine) dove «un -um- infisso è caratteristico
di molti verbi intransitivi con suffissi pronominali personali, come sad- 'aspettare',
sumid-ak 'io aspetto'; kineg 'silenzioso', kuminek-ak 'sto silenzioso'».
Un altro infisso fondamentale è il PAN *-in- 'perfettivo; nominalizzatore', che si può
esemplificare con l'ilokano (Filippine) súrat-en 'write' : sinúrat
'wrote' per il sistema verbale e gílin,-en 'grind' : ginílin,
'ground meat' [con n, che sta per la enne velare] (da Blust 2009 cit., pp.
370-375). Meno diffuso, ma assai interessante, è l'infisso PAN *-ar- di plurale,
usato tanto nei nomi quanto nei verbi: cfr. hanunóo (Filippine) 7ába 'length, long' :
7arába 'long (pl.)'; e cfr. sundanese (Giava) hormat 'to honor' :
harormat 'to honor (of more than one)' [con 7 che sta per la
occlusiva glottale] (da Blust 2009 cit., pp. 377-380).
I suffissi più importanti risalenti al proto-austronesiano sono soprattutto
tre, tutti di area verbale, i primi due specialmente visibili ed importanti nel
sistema verbale di tipo filippino: PAN *-en 'patient voice / focus',
PAN *-an 'locative voice / focus', e PAN *-ay 'futuro (di stativi)';
cfr. ilokano (Filippine) sagádan 'sweep (floors)' : sagáden
'sweep (dirt)'; e cfr. pazeh (Taiwan) hakëzën, 'old (of people)' : hakëzën,ay
'will grow old' [con n, che sta per la enne velare e ë per lo
schwa] (cfr. Blust 2009 cit., pp. 388-392).
I circonfissi (o, come a volte sono anche detti, confissi od ambifissi)
rappresentano un tipo morfologico abbastanza raro e non sempre facilmente distinguibile
dalla semplice combinazione di prefisso + suffisso. Nelle lingue austronesiane ve
ne sono molti, prevalentemente (ma non solo!) usati con funzioni derivazionali, e, al di là della realtà
sincronica delle singole lingue (nessuno dei due elementi del circonfisso è attestato
come morfema autonomo) ve ne sono alcuni sicuramente tali anche diacronicamente
e ricostruibili per il proto-austronesiano. Un buon esempio è PAN *ka-X-an
(cfr. Blust 2009 cit., p. 393) che è normalmente un 'formative for abstract nouns', come
in gayo (Sumatra N), dove ke-X-en forma nomi astratti (cfr. keber 'news'
> kekeberen 'history, story' - cfr. Giulio Soravia, A Sketch
of the Gayo Language, Catania, Gruppo linguistico catanese, 1988), in thao (Taiwan)
ka-X-an (cfr. kalhus 'sleep' > kakalhusan
'sleeping place'), in mapun (Filippine) ka-X-an (cfr. batu 'stone' >
kabatuan 'a rocky area'), ecc.; in molte lingue di Taiwan,
Filippine ed Indonesia W vi sono anche riflessi di un *ka-X-an 'adversative passive',
cfr.: pazeh (Taiwan) akux 'heat' : kaakuhan 'get heatstroke',
udan 'rain' : kaudanan 'be caught in the rain'; mapun (Filippine)
matay 'die' : kamatayan 'for a person or a household
to experience having a close friend or a relative to die', paddy 'pain, soreness,
hache' : kapaddihan 'experience or be overcome with pain'; javanese (Java)
udan 'rain' : kaodanan 'get rained on, be caught in the rain',
mate 'dead' : kamatean 'affected by someone's death';
ecc. (Blust 2009 cit., p. 393).
La reduplicazione è uno dei processi morfologici più frequenti e diffusi
nelle lingue austronesiane (cfr. Robert Blust, The Austronesian Languages,
Canberra, Australian National University - Research Shool of Pacific and Asian Studies,
2009 "Pacific Linguistics" 602, pp. 400-426 e John Lynch, Pacific Languages:
an Introduction, Honolulu, University of Hawai'i Press, 1998, pp. 84-87); più o
meno noto in pressoché tutto il mondo (pensate agli italiani lemme lemme,
bel bello e simili...) è solo in alcune aree (maleo-oceanica, appunto, o nel NW
dell'America settentrionale) che diventa il processo morfologico principale, tanto
nella flessione come nella derivazione. Dato, inoltre, che le reduplicazioni consistono
propriamente nella ricopiatura totale o parziale della parola di base, non è facile
trattarle come affissi tout court, come pure si cerca di solito di fare:
la scarsità nell'individuare precisi "affissi reduplicativi" nella
tavola
sopra riprodotta, nonostante la pervasività del procedimento in tutto l'austronesiano,
ne è la chiara spia. La reduplicazione può essere totale, come ad es. nel maori
(New Zealand) pakipaki 'to clap' su paki 'to pat' (da Lynch
1998 cit. p. 85), o parziale, secondo vari schemi, spesso prefissali, come in tagalog
(Filippine) kakantá 'will sing' kantá 'to sing' (da Carl R.
Galvez Rubino, Tagalog-English English-Tagalog (Pilipino) Dictionary | Taláhuluganang
Pilipino-Ingglés Ingglés-Pilipino, New York, Hippocrene Books, 2002 Revised
and expanded edition, p. 16), spesso suffissali come ad es. nel hawaiiano (USA)
âlohaloha 'to express affection' su âloha 'love, affection'
(da Blust 2009 cit. p. 418), ed a volte infissali come in ilocano (Filippine)
babbái 'girls' su babái 'girl' (da Blust 2009 cit. p. 406).
La base od il segmento copiato può essere sottoposta a vari processi fonologici:
dalla eliminazione della coda consonantica, come in ngaju dayak (Borneo - Kalimantan,
Indonesia) abaabas 'rather strong' su abas 'strong' (da Blust
2009 cit. p. 415), a selezioni o cambiamenti vocalici e/o consonantici che possono
andare dal semplice allungamento, come nel tongano (Regno di Tonga)
poopoo'uli 'to be somewhat dark' su po'uli 'to be dark' (es. da
Lynch 1998 cit. p. 86), od allo schema Ca che in protoaustronesiano (come
ancora in molte lingue moderne) serviva a derivare nomi strumentali deverbali (cfr. puyuma
[Taiwan] kakëdan 'whetston' su këdan 'to whet') ed una serie
di numerali [+HUM], *aesa, *daduSa, *tatelu, ...
'1, 2, 3, ... (umani)' (da Blust 2009 cit. p. 418), fino alle famose "reduplicazioni
imitative" del malese, tipo kucarkacir 'scattered helter-skelter' su
kacir 'to depart without taking one's leave' o saburlimbur
'confused, dusky' su sabur 'vague, dim' (da Blust 2009 cit. pp. 415-6).
Oltre ad un buon numero di reduplicazioni fossilizzate, risalenti al PAN ma oggi opache
e di cui di solito nel lessico delle lingue moderne non esiste più la controparte non
reduplicata, la reduplicazione assolve a molteplici funzioni, come già si vede dagli
esempi precedenti, da quelle puramente derivative, come
il nominale deverbale del hawaiiano âlohaloha 'to express affection'
(cfr. supra), come il deverbale nominale PAN per cui cfr. il puyuma
kakëdan 'whetston' qui sopra, o come l'aggettivale denominale del
kosraeo (Kosrae, Caroline, Nauru - Federate States of Micronesia), ad es.
pakpak 'sandy' da pak 'sand' (es. da Lynch 1998 cit. p. 84),
o come il numerale-umano PAN (cfr. supra), a quelli più flessive: plurale
/ collettivo, come notoriamente in malese, cfr. anakanak 'bimbi' da
anak 'bimbo' o orangorang 'gente' da orang 'persona' (la
vecchia grafia arabica, addirittura, segnava compendiariamente con un "2" la parte
reduplicata, cfr. in William Marsden, Grammar of the
Malayan Language, with an Introduction and Praxis, London, Cox and Baylis, 1812,
p. 30), e molte altre lingue AN come l'ilocano (cfr. babbái 'girls',
supra), talora anche nel verbo, cfr. samoano (Samoa) 'ai'ai
'to eat (plural) da 'ai 'to eat (singular)' (es. da Lynch 1998 cit. p. 86);
similativo-diminutivo, tanto nel nome, cfr. il botolan
sambal (od aeta negrito, Luzon C - Filippine) anakanak 'doll'
da anak 'child' (es. da Blust 2009 cit. p. 415; e cfr. supra il malese
anak 'bimbo') od il ngaju dayak abaabas 'rather strong' (cfr.
supra), quanto nel verbo, vedi ad es. il tongano poopoo'uli
'to be somewhat dark' (cfr. supra) e vikuviku 'to damp' da
viku 'to wet all over' (es. da Lynch 1998 cit. p. 85); aspetto
durativo, intensivo o frequentativo,
come nel maori pakipaki 'to clap' cit. sopra, o come nel javanese (Java -
Indonesia) nyolongnyolong 'to steal now and then' su nyolong
'to steal' e ngrungokngrungok-aké 'to listen continually' su ngrungok-aké
to listen' (ess. da Alexander K. Oglobin, Javanese, in The Austronesian Languages of Asia
and Madagascar edited by Alexander Adelaar and Nikolaus P. Himmelmann, London
- New York, Routledge, 2005 "Routledge Linguistic Series", pp. 590-624, p. 597);
azionalità intransitiva, come nel tigak (New Ireland - Papua)
nonol 'to be thinking' da nol(-i) 'to think (about it)', visvis
'to fight' su vis(-i) 'to hit (him)' e kalkalum 'to look, appear'
su kalum(-i) 'to see (it)' (ess. adatt. da Lynch 1998 cit. p. 85);
tempo futuro, come nel tagalog kakantá cit. sopra; ecc.
La triplicazione è un fenomeno rarissimo, e «to date it has been reported only
in Thao of Central Taiwan» (Blust 2009 cit. p. 426): cfr. thao apaapaapa-n
'to be carried' da m-apa 'to carry', m-untatatal 'to follow
someone's action closely, imitate' da untal 'to follow', e zazazumzum
'to keep holding in one's mouth' da zumzum 'to hold in one's mouth' (ess. da Blust 2009 cit. p. 426).
(3) Sintatticamente la caratteristica più idiosincratica che si incontra è probabilmente il peculiare sistema di interfaccia semantica / sintassi / discorso (secondo le avevamo chiamate nei §§ 1.2.4 e 1.2.5) che viene normalmente chiamato "tipo filippino", perché caratteristico soprattutto delle lingue delle Filippine, ma che la attestazione massiccia anche in Taiwan (determinante in ispecie è l'atayal) e sporadica ma significativa in area occidentale (determinante è in particolare il javanese, ma la diffusione si spinge fino al malgascio) fa sicuramente attribuire al protoaustronesiano tout court. Il tipo filippino e protoaustronesiano è basato su quattro distinzioni di solito molto sibillinamente intese come "diatesi" (voice), un attivo e tre passivi, spesso ancora più depistantemente chiamate focus (che di solito in linguistica ha a che fare con l'organizzazione del discorso e non con quella della sintassi):
[tav. 33]
Le quattro "diatesi" del protoaustronesiano con la curiosa terminologia tradizionale,
che ricorre ai termini voice e focus. Le ricostruzioni sono date oltre
che per il tempo / modo non marcato (di solito chiamato indipendente perché usato
nelle frasi principali con valori di presente, o meglio di non passato,
non futuro, ecc.), anche per il passato e per il modo dipendente.
Si noti che si tratta di due suffissi, un infisso ed un prefisso. Basato su Robert Blust,
The Austronesian Languages, Canberra, Australian National University - Research
Shool of Pacific and Asian Studies, 2009 "Pacific Linguistics" 602, p. 433
Per una trattazione esauriente dell'argomento, si veda Robert Blust,
The Austronesian Languages, Canberra, Australian National University - Research
Shool of Pacific and Asian Studies, 2009 "Pacific Linguistics" 602, pp. 431-452. Per
limitarci all'essenziale, nell'ottica con cui avevamo presentato le proiezioni ai vari
livelli dei ruoli che i partecipanti centrali di una frase (di solito sintagmi nominali,
SN) hanno con il predicato (ordinariamente sintagma verbale, SV), questo sistema si può
pensare come una originale variazione dell'interfaccia attivo (ma secondo taluni piuttosto
dell'ergativo), in cui viene promosso a soggetto morfologico
(cioè quello che viene marcato, cross-referenced, nel verbo; nella terminologia
filippina è questo che vuol dire "viene messo in focus": nulla a che fare, dunque, con
il discorso, ma solo con la morfosintassi) il normale "soggetto" (spesso un agente) della frase
attiva (=> AV), il normale "oggetto" (=> DP:
è quello che normalmente intendiamo con "trasformazione passiva"), od un altro ruolo
(sono ossia dei "passivi speciali"), sia questo un "locativo / direzionale" (=>
LP) od uno "strumentale / benefattivo" (=> IP;
le due categorie in molte lingue moderne sono state distinte).
[tav. 34]
Le ricostruziioni protoaustronesiane di quattro fasi diagnostiche per
illustrare l'interfaccia filippino. Basato su Robert Blust,
The Austronesian Languages, Canberra, Australian National University - Research
Shool of Pacific and Asian Studies, 2009 "Pacific Linguistics" 602, p. 434-5.
La situazione nelle lingue moderne è spesso ulteriormente complicata
da altri fattori: in filippino (tagalog), ad esempio, vi è un allomorfo mag-
(sconosciuto a Taiwan ma comune altrove, e quindi di origine PMP ma non PAN) accanto
ad -um-, è introdotta una distinzione perfettivo (non marcato) : imperfettivo
(reduplicato), la voce IP è sdoppiata in uno strumentale ed un benefattivo diversi, ed
il sistema da flessionale (tutti i verbi ne hanno il paradigma completo) è diventato
piuttosto derivazionale (ogni verbo ne ha solo alcune forme, in base a condizioni
lessicali), il "soggetto" è preceduto e marcato dalla particella ("articolo") ang,
ed altre minori complicazioni; cfr. Nikolaus P. Himmelmann, Tagalog,
in The Austronesian Languages of Asia and Madagascar edited by Alexander Adelaar
and Nikolaus P. Himmelmann, London - New York, Routledge, 2005 "Routledge Linguistic
Series", pp. 350-376, in particolare 362-372 e Carl R. Galvez Rubino, Tagalog-English
English-Tagalog (Pilipino) Dictionary | Taláhuluganang Pilipino-Ingglés Ingglés-Pilipino,
New York, Hippocrene Books, 2002 revised and expanded edition, pp. 24-28. Da questo
sistema, per progressive semplificazioni e ricostruzioni, si sarebbero in séguito addivenuto
al tipo malese occidentale (con due distinzioni entrambe marcate: attivo më-,
da PMP *mang-, e passivo *di-, da PAN *-in- via inversione *ni-
e quindi indurimento *di-), e poi, per radicale riduzione, si sarebbe arrivati
al tipo oceanico, in cui tutto il sistema originario è completamente perso.
Dalla discussione precedente si noterà tra l'altro, in primo luogo, che non è possibile
decidere nell'alternativa accusativo : ergativo quale fosse il tipo originario
austronesiano, dato che il "tipo filippino" in sé è suscettibile di essere interpretato
in entrambi i modi. Oggi, se pure le lingue sicuramente attive sono la maggioranza, pure
non mancano lingue sicuramente ergative, tanto nelle (conservative) Filippine, quanto
nella (innovativa e ridotta) Polinesia.
Si sarà, in secondo luogo, anche notato che il PAN era una lingua con ordine delle
parole VOS (per quello che ciò possa valere), e quasi ovunque è più conservato
il tipo sintattico filippino anche l'ordine a verbo iniziale persiste. Pure, quantitativamente,
la maggior parte delle lingue moderne (circa l'80%) è pasata al verbo mediano SVO
(una sola lingua, il tobati della Nuova Guinea indonesiana, Yotefa Bay, avrebbe
il raro OVS), mentre il verbo finale SOV si è diffuso solo in Nuova Guinea e nelle Isole
Solomone, certo per influsso papua. Il tipo originario a verbo iniziale, comunque,
è diffuso anche nell'oceanico, tanto nella variante VOS quanto VSO (più frequente
in Polinesia, cfr. ad es. il maori ed il tahitiano).