Introduzione alla linguistica generale.

Materiali integrativi al corso di Didattica delle lingue moderne.

di Manuel Barbera (b.manuel@inrete.it).



2.4 Altaico.


2.4.0 Distribuzione geografica e problema genealogico.


Se la distribuzione geografica della famiglia uralica è ancora prevalentemente europea, quella delle famiglie linguistiche usualmente raccolte sotto l'etichetta di "Altaico" hanno una distribuzione geografica prevalentemente asiatica:


Carta linguistica delle famiglie linguistiche comprese nel raggruppamento altaico

[tav. 1]
Carta linguistica delle famiglie di solito comprese nel raggruppamento altaico (turco, mongolo e manciù-tunguso), più altre supposte affiliazioni, dalle più probabili (koreano) alle poco o nulla (ainu). Riprodotto ed adattato da Merritt Ruhlen, A Guide to the World's Languages, Volume 1: Classification, Stanford (California), Stanford University Press, 1987, p. 127. Devo però avvertire che, nonostante vi abbia attinto (con modifiche!) per comodità alcune cartine, questo volume è assolutamente inaffidabile e sconsigliabile a qualsiasi titolo: molte delle affermazioni di Ruhlen (qui come altrove) hanno a che fare più con la fantascienza (e neanche la più divertente) che con la scienza. Guardatevene bene!

Una composizione abbastanza classica dell'altaico è quella proposta dal grande mongolista Nicholas Poppe già molti anni fa, comprendente le tre unità (turco, mongolo e tunguso) su cui il consenso è totale, più la plausibile affiliazione del koreano:


Una proposta classica di classsificazione delle lingue altaiche

[tav. 2].
La classificazione delle lingue altaiche secondo Poppe. Tratto da Nicholas Poppe, Introduction to Altaic Linguistics, Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1965, p. 147.


Noterete che ho evitato di parlare di una "famiglia altaica" allo stesso titolo di quella indoeuropea o uralica. La natura filogenetica del raggruppamento è in effetti molto offuscata dalla frequenza di rapporti reciproci intrattenuti dalle tre famiglie base in tutto l'arco della loro storia, con una rete molto fitta di prestiti incrociati e di caratteristiche tipologiche comuni: tanto che è stato a volte dubitato quanto l' "altaico" (ossia quel tipo linguistico che identifichiamo facilmente come altaico) non sia piuttosto il risultato di un effetto diffusionale (e quindi una lega linguistica) che non di una parentela genealogica (famiglia linguistica in senso tradizionale). Il caso è, se vogliamo, precisamente l'opposto di quello delle lingue uraliche, dove la divisione linguistica si è accompagnata di solito anche ad una divisione geografica, sicché i rapporti tra i diversi gruppi linguistici sono relativamente netti.
La dicotomia, radicale se espressa in termini ingenui (discendenza da una lingua protoaltaica omogenea ed effettiva), è in realtà meno forte se la parentela linguistica viene ripensata in termini di relazioni genetiche stratificate, distinguendo vari strati di "altaicità" come in una sorta di disistema, e riallacciandosi alla concezione che Trubeckoj aveva della protoligua come Sprachbund 'lega linguistica' (e lui si riferiva, tra l'altro, alla ben più pacifica natura del protoindoeuropeo!). In altri termini, che tutte queste famiglie abbiano avuto relazioni reciproche tanto nelle origini quanto attualmente, è circostanza indubbia: dubbio è semmai solo in quale modello calarle. L'altaico può essere un concetto problematico, ma mai fantastico come certe escogitazioni dei monogenisti ... Già Nicholas Poppe, infatti, ne aveva fornito cinquanta anni fa una ricostruzione con tutti i crismi del metodo storico comparativo (cfr. Nikolaus Poppe, Vergleichende Grammatik der altaischen Sprachen. Teil I. Vergleichende Lautlehre, Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1960) ossia con la proposta di protofonemi individuanti funzioni regolari di corrispondenza tra i fonemi delle varie lingue in esame; e la sua impresa è stata ripresa rcentemete dal compianto Sergéj Anatol'évic^ Stárostin (1953 - 2005), che ne ha formito un protolessico di più di 2.000 pagine, aggiungendo con corrispondenze stabili anche koreano e giapponese (Sergei Starostin - Anna Dybo - Oleg Mudrak, Etymological Dictionary of the Altaic Languages, Leiden - Bosto, Brill "Handbuch der Orientalistik" VIII.8.1-3:


Il sistema fonologico protoaltaico nella ricostruzione di Poppe

[tav. 3]
Il sistema fonologico del protoaltaico in base ricostruzione di Poppe (Nikolaus Poppe, Vergleichende Grammatik der altaischen Sprachen. Teil I. Vergleichende Lautlehre, Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1960). Ho rappresentato nella stessa tavola consonantismo e vocalismo (evidenziando le relazioni tra i due sistemi). Il sistema attualmente ricostruito da Starostin differisce nel consonantismo solo nell'aggiunta di una terza serie di occlusive (aspirate) ed in una riorganizzazione delle liquide e fricative; il vocalismo è invece rivoluzionato, con la rinuncia a ricostruire nel protolinguaggio comune l'armonia vocalica, che sarebbe nata più o meno indipendentemente nei protolinguaggi individuali.
Per una miglior comprensione del sistema è bene contestualizzarlo nei percorsi di studio sulla fonologia che ho suggerito nel paragrafo su Trubeckoj, in particolare il primo sul vocalismo ed il secondo sul consonantismo. I punti più sensibili della questione sono la ricostruzione della /p/ (perduta in molte lingue) e la necessità di postulare due fonemi laterali e due vibranti, la cui precisazione fonetica è speculativa, anche se la nuova ricostruzione di Starostin li "identifica" in qualche modo.

Ciò che è in dubbio, in altri termini, non è la realtà epistemologica del protosistema, ma i termini in cui va interpretato. Ed un possibile modo di analisi lo intravederemo alla fine di tutto il capitolo, esaminando la posizione del giapponese.

Le lingue altaiche in genere sono, sì, in effetti complicate da una spesso inestricabile trama di rapporti diffusionali, ma hanno almeno un vantaggio rispetto alla maggior parte delle lingue uraliche: un congruo numero di attestazioni antiche tanto dirette (documenti scritti in lingua), quanto indirette (testimonianze di storici bizantini, persiani e cinesi). Dato che ritengo la conoscenza della storia fondamentale per la comprensione della "altaicità" in sé, ma anche dal punto di vista della sua incidenza sulla costruzione linguistica e culturale dell'Asia settentrionale tutta, che a sua volta è legata davvero a filo doppio a quella della civiltà cinese, ritengo utile scendere, nei prossimi capitoli, anche in dettagli storici.
Un punto di riferimento per la nostra trattazione può essere la cartina storica seguente:


Carta storica dell'Asia centrale antica

[tav. 4].
Carta storica della Asia centrale antica, con attenzione alle principali confederazioni tribali "altaiche" in relazione alla Cina ed alla Persia. Adattato da The Cambridge History of Early Inner Asia, edited by Denis Sinor, Cambridge, Cambridge University Press, 1990, p. 292. È disponibile anche una versione grande, a piena pagina, della tavola.

Tutta la storia delle popolazioni dell'Asia centrale (un "etnodromo" è stata a volte scherzosamente definita), soprattutto nelle sue componenti "altaiche", è propriamente un continuo susseguirsi di ondate nomadiche ("orde"), a partire dalla zona di incubazione della Siberia centrorientale verso l'oriente (Cina) e l'occidente (Europa, ma anche e soprattutto Persia e la sua appendice occidentale della zona tansoxiana, Sogdiana); le aggregazioni "nazionali" di queste popolazioni erano in genere confederazioni tribali ("khanati"), causa anche dei caratteri diffusionali, che ormai ci sono ben noti, delle lingue altaiche moderne.
Un altro punto di riferimento per la trattazione che seguirà è il sito di Monumenta Altaica, dove si potrà trovare la riproduzione di molti testi in lingue e scritture che menzioneremo, oltre ad un buon numero di links su singole lingue altaiche.


2.4.1 Il glottotipo altaico.


Al di là del problema della connessione strettamente genealogica o più elasticamente diasistemica (lega linguistica) delle famiglie linguistiche "altaiche", dicevamo che esistono delle caratteristiche generali assai diffuse tra le lingue in questione, tanto che possiamo facilmente parlare di un glottotipo (per usare un termine coniato su consimili espressioni della biologia) altaico. Come vedremo, esistono anche caratteristiche antropologico-culturali (stile di vita nomadico delle steppe; organizzazioni multitribali; khanati; ecc.) che hanno accompagnato l'origine e larga parte della storia delle popolazioni portatrici di queste lingue; ma in questi preliminari accenni ci limiteremo a poche notazioni strettamente linguistiche.

Nelle lingue del mondo è frequente riscontrare diversi inventari di fonemi vocalici a seconda del tipo di sillaba: le sillabe "forti", ossia le sillabe toniche (come in italiano e nella più parte delle lingue ad accento intensivo) e/o radicali (come la prima sillaba nelle lingue uraliche ed altaiche in genere), hanno l'inventario completo, mentre le sillabe "deboli", atone o postradicali, hanno inventari ridotti; in italiano standard settentrionale, ad es., delle 5 vocali possibili in sillaba tonica almeno una, /u/, non ricorre in sillaba postonica finale.
Nelle lingue uraliche ed in quelle altaiche la sillaba forte è di regola la prima, ma il vocalismo delle sillabe successive non è tanto ristretto quanto regolato da un procedimento combinatorio che dipende dalle consonanti iniziali. Questo procedimento è detto armonia vocalica (per un assestamento dal punto di vista fonologico cfr. il terzo percorso di studio sulla fonologia suggerito nel paragrafo su Trubeckoj).

In generale «under vowel armony is understood a rule whereby all the vowels of a given word must belong to a number of partitions of the overall vowel system", secondo definiva sinteticamente Bernard Comrie (1988, 454-5); tale categoria è stata individuata e definita dalla linguistica essenzialmente in base alle lingue uraliche ed altaiche, dove massimamente è diffusa, ma è stata in séguito riconosciuta anche in altre lingue, in ispecie "paleoasiatiche", africane ed amerinde.
Le classi esclusive in cui le vocali vengono organizzate nei sistemi di armonia vocalica delle diverse lingue sono in genere determinate da un numero limitato di tratti: anteriorità, determinante la cosiddetta "armonia palatale"; arrotondamento, determinante la cd. "armonia labiale"; ed altezza \ tensione, determinante la cd. "armonia orizzontale"). I sistemi così organizzati possono inoltre inglobare tutto l'inventario vocalico o lasciare al di fuori alcune vocali, dette "neutrali", che nei sistemi ad armonia palatale sono di solito la i ed eventualmente la e, mentre in quelli ad armonia orizzontale è di solito la a.
Sistema di armonia vocalica assolutamente "tipici" ed al massimo grado di coerenza e regolarità sono quelli presentati da molte lingue turche, che possiamo ben rappresentare col kirghiso. Il kirghiso (qïrghïz) è una lingua turca del gruppo aralo-caspico (anche se, come vedremo, originariamente l'etnonimo si riferiva ad una popolazione non-altaica) parlata da oltre un paio di milioni di persone nella Repubblica Kirghisa ed in piccola parte nelle zone finitime di Cina ed Afghanistan (le cifre date da Proxorov 1991, I.579 per il 1989 sono di 2.530.000 kirghisi).

Il sistema vocalico del kirghiso (per una miglior comprensione della sua struttura, cfr. primo percorso di studio sulla fonologia suggerito nel paragrafo su Trubeckoj) è simmetrico ad 8 elementi /e i ö ü a ï o u/ individuati dai 2 gradi di apertura (basso ed alto) moltiplicati per i 2 tratti di anteriorità e labialità.


Il vocalismo di prima sillaba in kirghizo

[tav. 5ab]
Il vocalismo di prima sillaba del sistema fonologico vocalico di una lingua turca: il kirghizo. Nella tavola (a) rappresento il sistema vocalico di prima sillaba nell'ortografia cirillica kirghisa, e nella tavola (b) nella consueta trascrizione dei turcologi. Il sistema è rettangolare a due gradi (basso ed alto) e 4 ordini (anteriore non arrotondato, anteriore arrotondato, centrale non arrotondato, posteriore arrotondato) coincidenti con le classi armoniche. Riprodotto da Manuel Barbera, Introduzione storico-descrittiva alla lingua vota. Fonologia e morfologia., Pavia, Legostampa, 1995, p. 79.

L'inventario vocalico di prima sillaba è superficialmente identico a quello delle sillabe non iniziali, e l'armonia vocalica è sia palatale che labiale e governa l'intiero sistema senza eccezioni, sicché le 8 vocali delle sillabe non iniziali sono propriamente tassofoni di due soli fonemi, /A I/, definiti esclusivamente come "alto" e "basso".


L'armonia vocalica in kirghizo

[tav. 6]
L'armonia vocalica in kirghizo. Il sistema vocalico di prima sillaba è confrontato con quello non iniziale in trascrizione allofonica ed in trascrizione fonologica stretta. La classe palatale, od anteriore, è marcata [+A] e la labiale [+L]. Riprodotto da Manuel Barbera, Introduzione storico-descrittiva alla lingua vota. Fonologia e morfologia., Pavia, Legostampa, 1995, p. 79.

Il funzionamento effettivo del meccanismo sarà più chiaro con alcuni esempi, tutti tratti dalla morfologia casuale.


L'armonia vocalica in kirghizo: esempi

[tav. 7]
Esempi dell'armonia vocalica in kirghizo. La campionatura è tratta dal sistema di casi (la sigla Cx, standard in uralistica ed altaistica vale 'casus suffixus'), e precisamente dal Genitivo e dall'Ablativo. Riprodotto da Manuel Barbera, Introduzione storico-descrittiva alla lingua vota. Fonologia e morfologia., Pavia, Legostampa, 1995, p. 79.

Per meglio illustrare i possibili sistemi armonici, anche quelli meno perfetti, usciamo ora provvisoriamente dall'altaico.
L'opposto estremo della perspicuità del kirghizo, un sistema, ossia, affatto indecifrabile nella sua articolazione interna, può essere ben rappresentato dal nez-perce (si tratta di una lingua della famiglia klamath-sahaptica, o "Plateau Penutian" sensu Sapir, parlata da ormai pochissime persone nell'Idaho). Il nez-perce è una lingua con cinque vocali tanto in prima sillaba quanto in sillaba non iniziale, nella quale oltre ad una vocale neutrale vi sono due classi armoniche di solito etichettate come "dominante" e "recessiva" che non sembrano identificabili in base ad alcun evidente tratto fonologico:


L'armonia vocalica in nez-perce

[tav. 8]
L'armonia vocalica in nez-perce. Riprodotto da Manuel Barbera, Introduzione storico-descrittiva alla lingua vota. Fonologia e morfologia., Pavia, Legostampa, 1995, p. 80; basato su Haruo Aoki, Nez Perce Grammar, Berkeley - Los Angeles - London, University of California Press, 1970, e Idem, Toward a Typology of Vowel Harmony, in "Internation Journal of Amercan Linguistics" XXIV (1968) 142-145.

Visti i casi estremi, potremo meglio valutare i casi "normali", quali si trovano ad esempio in molte lingue uraliche.
All'interno del baltofinnico, ad esempio (per usare un gruppo linguistico che ormai conosciamo abbastanza bene) è il finnico a presentare la situazione più tipica. Il sistema fononologico finnico, come avevamo già constatato, è ad otto elementi. Non presenta a livello superficiale riduzioni nelle sillabe non iniziali; l'armonia vocalica è di tipo palatale con /i e/ neutrali:


L'armonia vocalica in finnico

[tav. 9]
L'armonia vocalica in finnico. Riprodotto da Manuel Barbera, Introduzione storico-descrittiva alla lingua vota. Fonologia e morfologia., Pavia, Legostampa, 1995, p. 80.


Altre caratteristiche, che possiamo solo accennare, sono, in morfologia, la ricchezza di forme verbali non finite (infiniti e "converbi") preferite a quelle con flessione personale, e la struttura regolarmente agglutinante (con suffissi); in sintassi è pervasiva la tipologia generale OV, perlopiù nella sua forma più pura (SOV / Po / GN / AN).


2.4.2 Le lingue turche.


Cominciando dal gruppo più diffuso in Europa, quello delle lingue turche, noteremo anche qui difficoltà nella determinazione dei vari sottoraggruppamenti (e nel numero delle lingue individuate). Un esame delle principali isoglosse che si mappano sul continuum delle lingue turche, sintetizzabile ad esempio nel modo seguente,

Le isoglosse che percorrono le lingue turche

[tav. 10].
Le isoglosse che possono guidare ad una classificazione delle lingue turche secondo Poppe. Tratto da Nicholas Poppe, Introduction to Altaic Linguistics, Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1965, p. 34.

individua una sola divisione netta tra gruppo occidentale ("r") ed orientale ("z"), che è rispecchiata anche nelle testimonianze antiche di cui tra poco parleremo. Il gruppo occidentale è costituito da una sola lingua moderna, il ciuvascio, parlata nella Repubblica dei Ciuvasci, uno stato del medio Volga federato nella Repubblica Russa. Il gruppo orientale ha invece un grande numero di lingue sparse su un territorio immenso: che vanno dalla Turchia (con il turco standard moderno, scritto in alfabeto latino, ed il vecchio osmanli, standard dell'impero ottomano, scritto in arabica) alla estrema Siberia orientale con il sakha (autodenominazione) o jakuto, passando attraverso i vari tataro, turkmeno, kirghiso, uzbeko, kazakho ecc. (tutti oggi scritti in cirillica). Esistono anche isolotti turchi nel cuore dell'Europa, come ad esempio turco (ex osmanli) nei balcani, od il karaim, lingua di una piccola comunità di turchi ebrei in Lituania (ne esistevano anche in Polonia ed in Crimea, ma, purtroppo, gli ebrei non piacevano né ai nazisti né ai comunisti ...). La diversità linguistica, comunque, all'interno del turco orientale è abbastanza contenuta, nell'ordine di quella delle lingue romanze, con forse l'unica eccezione del più divergente sakha.

La "storia" delle lingue turche inizia sostanzialmente dopo alcuni importantI ma in parte misteriosi avvenimenti storici. In particolare, inizia (a) dopo che nel VI secolo d.C. si esaurisce in Occidente l'ondata degli Unni, che già nel 356 e nel 358 erano comparsi ai confini nordorientali dell'impero sassanide; gli Unni forse vanno connessi con l'agglomerato tribale noto nelle fonti cinesi come Xio1ngnú, che, in varie forme, costituirono un serio problema per le dinastie cinesi dal III secolo a.C. alla fine del XII secolo, quando la loro potenza viene definitivamente spezzata, anche se la loro presenza è documentata fino al XIV secolo; se già l'equazione Unni = Xio1ngnú è comunque ipotetica, assolutamente ignote sono la, o le, loro lingue, (presumibilmente altaiche solo per mera inferenza areale). In oriente, (a), la storia turca inizia invece solo dopo lo smantellamento del khanato degli altrimenti misteriosi Rua3n-rua3n, da cui emergeranno i turchi orientali (la cui componente etnica era certo presente nella composizione tribale degli Rua3n-rua3n); la caduta degli Rua3n-rua3n in Oriente è di solito collegata con la comparsa degli Àvari in Occidente, che avviene, difatti, subito dopo, sicché si è ipoteticamente tracciata una equazione tra le due popolazioni.
Nel VI secolo, invece, si affacciano alla storia popolazioni sicuramente connesse con lingue turche: i Bulgari in Occidente ed i Turcuti in Oriente, portatori di lingue che possiamo considerare idealmente quasi coincidenti con le protolingue capostipiti rispettivamente del ramo "r" (che per questa ragione è detto anche Occidentale) e del ramo "z" (che perciò è stato qualificato come Orientale).

La tradizione del ramo occidentale è sostanzialmente limitata alle testimonianze connesse ai Bulgari del Volga (ne abbiamo iscrizioni solo del XIII-XIV secolo, ma i numerosi prestiti passati in ungherese risalgono a prima del IX secolo, quando gli ungheresi si mossero alla volta dell'Europa) ed ai Bulgari del Danubio (già attestati dal VIII-IX secolo), le cui scorrerie in Europa furono temute per tutto l'alto Medioevo: del loro passaggio ne è traccia in molti toponimi, come il Bòlgheri che Carducci immortalò coi suoi cipressi (cfr. ad es. Giovan Battista Pellegrini, Toponomastica italiana, Milano, Hoepli, 1990, p. 281), e della loro scarsa amichevolezza è testimone la normale accezione, poco lusinghiera, del francese bougre. (Tra parentesi: i bulgari odierni, con la loro lingua slava meridionale, hanno tratto il loro nome dalla popolazione che li ha preceduti - i bulgaro-turchi, come a volte sono indicati per distinguerli dai bulgaro-slavi - nella regione in cui si sono stanziati, che da essi venne chiamata Bulgaria. È un interessante caso di prestito di etnonimo, come quello avvenuto in Nordeuropa tra Prussiani baltici > tedeschi, e molti altri). I dialetti rappresentati nelle testimonianze di antico bulgaro erano già differenziati, e da uno di essi discende il modermo Ciuvascio.

Gli inizi della storia del ramo orientale sono legati ai Turkuti, così chiamati in base all'etnonimo türküt, plurale di 'turco', presupposto anche dal nome con cui sono noti nelle fonti cinesi, tu1jué. I turkuti tra il VI ed il VII secolo avevano costituito una potente confederazione estesa a quasi tutta l'Asia centrale che si divise dopo il 582~3 in un khanato occidentale, centrato nell'odierno Kazakistan meridionale, ed uno orientale dei Kök Türküt, cioè dei 'turchi celesti', centrato in Mongolia settentrionale nella regione dell'Orxon, e dal quale furono appunto erette le famose steli runiche dell'Orxon, che furono decifrate alla fine dell'Ottocento dal linguista danese Vilhelm Thomsen (1842-1927). A partire dall'inizio del VII secolo si ha, poi notizia della formazione, nel crogiuolo del turco orientale, di una popolazione detta "uigura". Originariamente parte dei turchi confederati, gli Uiguri se ne liberarono all'inizio del VII secolo per costituirsi successivamente in khanato indipendente (744-840), sconfiggendo prima (745) quello Kök Türk e penetrando poi (758) nella zona dei Monti Saiani e dell'alto Jenissei e di lì nel bacino del Tarim (cioè nel Turkestan cinese) ed in parte della Sogdiana, dove dal 652, l'impero persiano sassanide era stato sostituito da califfati islamici, le cui alterne vicende non è qui il caso di seguire. Nel 762 il manicheismo divenne la religione di stato dell'impero uiguro, anche se nestorianesimo e buddhismo erano del pari diffusi; è in questo contesto che fu adottata la scrittura sogdiana, ed è appunto questa l'epoca cui risalgono le prime testimonianze pervenuteci, legate a contenuti manichei. L'impero uiguro, che già aveva visto nel 790~1 il passaggio sotto il controllo tibetano del Turkestan orientale (in cui gli uiguri si erano sedentarizzati abbandonando la tradizionale vita nomade), cadrà presto sotto i colpi dei kirghisi, ormai probabilmente turchi(zzati) (i kirghizi "etnici" originari non si sa bene cosa fossero - paleosiberiani? - , comunque non erano ancora turchi; la loro importanza è legata soprattutto alla lavorazione del ferro), che nell'840 s'impadronirono delle regioni settentrionali dell'alto Jenisei e dell'Orxon originarie degli uiguri; da queste molti uiguri ripararono chi in oriente nel Turkestan (riunendosi agli altri uiguri che vi erano da tempo stanziati, e rimanendo pertanto nell'area culturale grosso modo sogdiana) e chi in occidente nel Ga1nsù. Gli stessi kirghisi, però, rimasero presto vittima della nascente potenza kitan (di cui parleremo presto), che nel 924 scacciò i kirghisi dalla Mongolia respingendoli nelle loro terre avite dell'alto Jenissei.
Per la fase antico turca conosciamo, pertanto, bene solo due varietà distinte. La prima è, appunto, il turkuto, la lingua dell'impero Tu1jué, nota però solo a partire dall'ultima fase dell'impero Kök Türk di Mongolia (690-740), dalla cui dinastia furono emanate le famose iscrizioni runiche dell'Orxon; poche sono le testimonianze runiche più tarde, consegnate ad alcune epigrafi del Turkestan orientale (VIII-IX secolo). La seconda è invece il cosiddetto antico uiguro, di cui sono ben note soprattutto le varietà orientali attestate in scrittura sogdiana e poi uigurica (si tratta di tipizzazioni successive dell'alfabeto aramaico: l'uigurica era una scrittura verticale che servirà da base, tra le altre, per la scripta del mongolo letterario e del mancese classico). Al di là di turcuto ed uiguro non sappiamo molto: delle varietà occidentali dell'originario khanato della Mongolia (744-840) si conosce solo un'iscrizione runica con forti influssi turkuti emanata dal khan Il-Itmiš (746-759); alcuni testi di contenuto manicheo in scrittura manichea e sogdiana-uigurica della seconda metà del VIII secolo rinvenuti a Khocho (Turkestan orientale; cinese Kùche1) sembra siano scritti in una particolare forma detta "uiguro manicheo" o "dialetto-n"; poco, infine, di linguisticamente certo si è potuto ricavare dalle non abbondanti steli runiche centrasiatiche dello Jenissei. La differenziazione linguistica della fase antico turca orientale era già avanzata: la distinzione fonetica principale è l'esito di > turkuto ñ, dial.-n n ed uiguro y (cfr. risp. añag, anig e ayig 'cattivo'); la distinzione tra uiguro e turkuto è inoltre rafforzata da un notevole numero di caratteristiche morfologiche individuali.
Dalla fase antico-turca, si passa senza soluzione di continuità, verso la fine del X secolo, alla fase media, nella quale già si configura tutta la complessità della articolazione delle lingue turche moderne. Per darne un'idea, seguiamone sommariamente un unico filone (intendendosi che la genesi degli altri gruppi moderni è a volte anche più aggrovigliata e meno documentata): quello dell'uiguro, che si evolve esprimendosi in importanti lingue letterarie ormai chiaramente distinte, la karakhanide prima (dal XI al XII secolo), scritta indifferentemente in uigurica ed arabica, la chwarizm dopo (dal XII al XIV), notata prevalentemente in arabica ma talvolta anche in uigurica, ed infine, basata sulla precedente che di fatto sostituisce in età timuride, la c^aghatai, ormai scritta solo in arabica, ma letterariamente illustre e duratura, dato che, dopo aver raggiunto l'apogeo tra XV e XVI secolo, sopravviverà ancora fino all'Ottocento. Da quest'ultima, in fase moderna, discendono l'uzbeko, oggi scritto in alfabeto cirillico e parlato principalmente in Uzbekistan, l'uiguro (nome ufficiale) moderno o turki dell'est, che, scritto in arabica, è parlato dalla maggioranza della popolazione della provincia cinese del Xi1njiang1 Uigur, e due altre lingue minori, il cosiddetto uiguro giallo (od uiguro occidentale, autodenominazione sarïgh yughur) ed il salar, che sono parlate più ad est, nella provincia cinese di Ga1nsú, dai probabili discendenti di quegli uiguri che si erano stanziati in quell'area dopo l'invasione kirghisa dell'840 (cfr. sopra).

L'esposizione che abbiamo dato della storia dei turchi è, devo avvertire, fortemente semplificata (per quanto possa apparire già complessa!), e, soprattutto, mirata più all'oriente cinese che non all'occidente. Abbiamo, così, trascurato molte altre realtà dell'Asia centrale occidentale connesse ai turchi orientali, anche molto interessanti (quali il khanato dei Khazari, di carattere prevalentemente mercantile e di religione ebraica), od importanti per le sorti dell'impero bizantino e del nostro Occidente latino medievale (come ad esempio le ondate dei Cumani e dei Peceneghi).


2.4.3 Le lingue mongole.


La diffusione delle lingue mongole è relativamente meno vasta di quella delle lingue turche. Con l'eccezione del moghul, parlato in Afghanistan, e del calmucco, parlato in Europa, nella Repubblica dei Calmucchi, federata alla Repubblica Russa, alla foce del Volga, la loro distribuzione geografia è più compatta:


Mongolico

[tav. 11].
Carta linguistica delle lingue mongole (moghul e calmucco esclusi). Riprodotto da Manuel Barbera, Mongolo, voce inedita (1995) per un Dizionario delle lingue del mondo.


La loro classificazione è, tuttavia, per analoghe ragioni, a volte, non meno problematica di quella delle lingue turche. Anche l'individuazione (e la denominazione standard) di alcune varietà (tanto nella Mongolia propria quanto nelle varietà periferiche) è stata tuttora in corso nei decenni passati (confrontate, ad es., l'elenco delle lingue considerate dalla tavola di Poppe 1965 con quello della mia del 1995). Anche qui l'individuazione di una rete di isoglosse-guida risulta particolarmente utile:


Mongolico

[tav. 12].
Le isoglosse che possono guidare ad una classificazione delle lingue turche secondo Poppe. L'isoglossa che si è rilevata più proficua è quella che oppone dialetti "f" a dialetti "h". Tratto da Nicholas Poppe, Introduction to Altaic Linguistics, Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1965, p.7.


Una prima differenza rispetto alle lingue turche è che la più parte delle lingue mongole si è per molto tempo evoluta sotto l'ombrello di una lingua scritta, anche letteraria e di prestigio, che ne ha costantemente influenzato lo sviluppo. Una classificazione che tenga conto (oltre che delle identificazioni linguistiche recenti avvenute dopo il classico manuale di Poppe) anche della cronologia e delle relazioni istituite con il mongolo scritto potrebbe essere rappresentabile nel modo seguente:


Mongolico

[tav. 13].
Storia e tradizione delle lingue mongole. Riprodotto da Manuel Barbera, Mongolo, voce inedita (1995) per un Dizionario delle lingue del mondo.

Una seconda differenza rispetto alle lingue turche, e che può rendere conto della loro maggiore compattezza, è che le tribù di lingua mongola sono emerse nella storia più recentemente. I mongoli, infatti, il cui complesso tribale aveva iniziato ad organizzarsi e ad espandersi in Mongolia nel corso del XII secolo (dopo, quindi, l'era dei khanati turcuti ed uighurici, ed anche dopo che dal crogiuolo mongolo-siberiano emergessero prima i kitan e poi gli jurchen, di cui parleremo presto, che fondarono dinastie "cinesi" nel Nord della Cina) erano letteralmente esplosi alla conquista di tutto il mondo civilizzato alla guida del grande condottiero Temüj^in (1167? - 1227), passato alla storia con il titolo (assunto nel 1206) di C^ingghis Qaghan (letteralmente 'Gran Khan Oceanico').
La creazione della nuova dinastia imperiale cinese mongola, Yuán fu comunque assai lenta: se gli imperi cinesi settentrionali Li3 (1224-1227) e Ji1n (1115) (in realtà anch'esse barbare, rispettivamente xi1xià o tanguta, di ceppo tibetobirmano, cfr. § 2.5.4, e jurchen, di ceppo manciù-tunguso: cfr. infra) caddero già sotto i colpi di C^ingghis Qaghan , la conquista dell'impero Sòng meridionale sarà possibile solo molto dopo (1279), ad opera di Qubilay, Khan dei mongoli dal 1259 e quindi primo imperatore Yuán (1272-1294). La dinastia Yuán governerà la Cina, riunita dopo molti secoli, fino al 1368.

Venendo alla situazione linguistica, la fase più antica delle lingue mongole di cui abbiamo qualche testimonianza è quella che si conviene chiamare del "mongolo antico", la lingua cioè parlata fino a tutto il XII secolo, prima che C^ingghis Qaghan portasse i mongoli agli altari della storia. Purtroppo ne abbiamo solo testimonianze indirette, in quanto la prima testimonianza scritta rimastaci di una lingua mongola è una stele eretta nel 1225 circa in onore del nipote di C^inggis Qagan, Yisüngge. Il mongolo antico, pur presentando già un'embrionale suddivisione dialettale (si distinguono due dialetti denominati "f" ed "h" in base agli esiti di protomongolo *p) è assai prossimo al protomongolo o mongolo comune ricostruito dalla comparazione linguistica. Direttamente al mongolo antico (e precisamente al dialetto "h") si rifà la tradizione del cosiddetto "mongolo scritto", notato in un proprio alfabeto verticale di 21-24 lettere di tipo uighurico, il cui uso è continuato ininterrottamente, sia pure attraverso diverse fasi, dal XII al XX secolo, accompagnando la storia delle lingue moderne in modo parzialmente analogo a quello del latino nel nostro occidente europeo.
La fase del mongolo medio, che si estende dal XII al XVI secolo, comprende tre grandi dialetti: il mongolo medio meridionale, del quale non sopravvivono testimonianze letterarie (ma che è all'origine delle odierne lingue mongole meridionali, quali monguor e daghur); il mongolo medio orientale (fonte delle moderne lingue mongole orientali, quali khalkha e burjato), ben documentato dai testi vergati nella cosiddetta scrittura hP‘ags-pa [una scrittura "ufficiale" promulgata dall'impero, di ispirazione buddista, solenne e quadrata, di tipo sillabico] e dalla Storia segreta dei mongoli [scritta purtroppo in sinogrammi]; ed il mongolo medio occidentale (base delle moderne lingue mongole occidentali, quali oirato e moghul), documentato ad esempio dal poema epico proto-calmucco di Giangàr (calmucco standard J^an,hr e russo Dz^angár; metà del XV secolo).
L'inizio delle lingue mongole moderne, infine, è di solito posto intorno al XVI-XVII secolo. Oggi le uniche lingue mongole che siano anche lingue "ufficiali" di un entità nazionale sono il mongolo (khalkha) nella Repubblica mongola, scritto in alfabeto cirillico (ma la scrittura mongolica uighurica è stata, almeno ufficialmente, ripristinata nel 1994), il calmucco (propriamente un dialetto oirato) ed il burjato, entrambi in repubbliche federate nella Repubblica Federale Russa e scritti in cirillica (ma esistono anche due tipizzazioni "nazionali", risp. calmucca e burjatica, della mongolica).


2.4.4 I kitan (quidan).


Tra la dissoluzione finale del kanhato uighuro settentrionale nell' 840 e l'emersione dei mongoli nel XII secolo la fucina etnica della Mongolia settentrionale ha prodotto due altre principali aggregazioni tribali a base altaica. Nella prima, quella dei kitan (questa forma del nome è ormai usuale nella storiografia, e la manterremo; in realtà in cinese sarebbe pinyin qi1dàn = Wade-Giles Ch’i-tan), si sospetta che la componente principale fosse di tipo mongolo (o, per meglio dire, premongolico, dato che antedaterebbe la fase mongola antica che abbiamo caratterizzato nel paragrafo precedente); della seconda, successiva, gli jurchen parleremo invece nel capitolo dedicato alle lingue manciu-tunguse, cui la loro lingua sicuramente appartiene.

I kitan , originariamente un non ben precisato complesso tribale noto alle fonti cinesi fin dal IV secolo come abitante la regione dell'alto fiume Liáo occidentale , emersero quale entità più individuata nel 696 quando si organizzò in khanato. L'espansione imperiale, con l'evoluzione in senso statuale e dinastico (modello cinese) dell'originario khanato tribale ed elettivo (modello altaico), risale all'inizio del X secolo ed è dovuta all'iniziativa di un personaggio storico, il khan Apaoki (872-926; in resa tipo-pinyin Abaoji), che, assunto il khanato nel 907 e proclamatosi Tia1nhuángdì (cioè 'imperatore augusto'), costituì l'impero Kitan che nel 947 assunse il nome dinastico cinese di Liáo (il nome imperiale Liáo, o Dà Liáo 'Grande Liao', segue l'usanza cinese di conferire allo stato \ dinastia un nome geografico, nella fattispecie quello del fiume Liáo (Liáohé), culla dei kitan, cfr. Herbert Franke, The Forest Peoples of Manchuria: Kitans and Jurchens, in The Cambridge History of Early Inner Asia, edited by Denis Sinor, Cambridge, Cambridge University Press, 1990, p. 408). L'impero Liáo, che «nel periodo di maggiore espansione [...] si estendeva dal Mare del Giappone ai monti Altai, arrivando a Sud fino allo Hébe3i» (Mario Sabattini - Paolo Santangelo, Storia della Cina dalle origini alla fondazione della repubblica, Roma - Bari, Editori Laterza, 1986, p. 439), durò fino al 1124, quando gli jurchen, stanziati ad est dei kitan e dapprima loro vassalli, dopo essersi conquistata sempre maggiore autonomia, pervennero alla completa conquista dell'impero.
Alcuni kitan, com'è noto, si spostarono allora ad occidente, in Asia Centrale, fondando l'impero Qara Qïtay ('kitan neri' in uiguro: 1124-1211), la cui dinastia è conosciuta col titolo cinese di Xi1liáo, cioè 'Liáo occidentali' (gli Xi1liáo andarono a sostituirsi all’impero kharakhanide, che ricorderete era turco uighuro, di fase media ; in séguito sconfissero, nella leggendaria battaglia di Qatwan del 1141, anche Sanjar, l’ultimo sultano saljuqide di Persia, e si trovarono così a giocare un ruolo fondamentale nella storia iranica e dell’Asia Centrale); la maggioranza, comunque, rimase in Manciuria dove costituì, a fianco della cinese, la componente etnica straniera più importante del nuovo impero.

Vale però la pena di spendere qualche parola sulla struttura del khanato / impero kitan per maglio capire la natura delle "nazioni" altaiche e la loro relazione con il tipo imperiale cinese. L'organizzazione etnica e sociale dei kitan era composita e complessa anche prima della sua ristrutturazione imperiale: nell'VIII secolo il khanato era incentrato su otto tribù, tra le quali nel IX secolo presero il predominio due clan, uno (Ye1lü4 = WG Yeh-lü od I-la) etnicamente kitan dal quale provenne Apaoki, ed uno (Xia1o = WG Hsiao) di estrazione uigura . In epoca imperiale Liáo la società kitan fu sinizzata consistentemente, tanto che «la dinastia Liao del Kitan – secondo osservava Charls P. Fitzgerald, China. A Short Cultural History, London, The Cresset Press Ltd, 1961 [1935], traduzione italiana di Carlo Cosetti La civiltà cinese, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1974 , p. 381 – fu sotto ogni rispetto una dinastia cinese, e tale certamente appariva ai popoli forestieri. Il nome Catai , che i popoli europei diedero dapprima alla Cina, è in effetti, derivato dalla parola Kitan [Qïtay], e i russi ancora oggi usano la variante Kitai [Kitaj] per designare la Cina»: nelle iscrizioni dell'Orkhon (732-5) in antico turcuto (turco orientale) il loro nome appare infatti come "Qïtay" (cfr. Franke 1990 cit., p. 402).

Della lingua del Kitan, cioè la lingua della componente tribale dominante di quell'impero, molto si è discusso ma poco si sa, anche se l'opinione oggi prevalente è che fosse fondamentalmente una varietà di antico mongolo meridionale: di fatto vi convivono fianco a fianco forme con corrispondenti nelle lingue mongole, termini di plausibile origine tungusa, parole di etimologia incondita, ed elementi (soprattutto onomastici) vi-ceversa ben diffusi in àmbito turco. Questa situazione certo «reflects to a certain degree the character of the Kitan league as a federation comprising several ethnic and linguistic elements» (Franke 1990 cit., p. 407), ma è anche causa delle grandi difficoltà incontrate nella lettura delle due scripte che sono state impiegate per notarla. Entrambe le scripte, nelle fonti cinesi indicate risp. come "grande" e "piccola", furono introdotte quasi contemporaneamente, pur in apparenza non condividendo alcun segno. La prima, creata nel 920, è una scrittura logografica modellata sulla cinese, di cui adotta\adatta non pochi segni; la seconda, introdotta dallo studioso kitan Diélà dopo il 924~5 è anch'essa modellata sul segnario cinese , ma rispetto alla prima associa ai logogrammi un gran numero di sillabogrammi, sia per i suffissi sia per i temi, ed è attestata tanto in forme calligrafiche quanto corsive (cfr. Kara Györgyi, Kitan and Jurchin, in The World’s Writing Systems, edited by Peter T. Daniels and William Bright, New York - Oxford, Oxford University Press, 1996, Section 18/2, pp. 230-235). Le scritture kitan sopravvissero alla caduta della dinastia Liáo, anche se non si protrassero molto oltre: il loro uso fu infatti ufficialmente soppresso per rescritto imperiale nel 1191, sotto la dinastia Jin degli jurchen (Kara Györgyi, Aramaic Scripts for Altaic Languages, in The World’s Writing Systems, edited by Peter T. Daniels and William Bright, New York - Oxford, Oxford University Press, 1996, Section 49, p. 231). La decifrazione di tutte e due le scripte, s'è detto, è ardua, anche in considerazione del non abbondante numero di testi superstiti, ma recentemente sono stati fatti notevoli passi avanti nella lettura della "scrittura piccola".


2.4.5 Le lingue manciu-tunguse.


Il terzo gruppo "altaico, le lingue manciu-tunguse (a volte riferite per brevità come semplicemente "tunguse") ha una diffusione ancora più circoscritta all'Asia nordorientale, e sue componenti etniche non appaiono essere mai comparse in occidente (a differenza delle turche e delle mongole), ma il loro coinvolgimento con la storia della Cina è ancora più stretto, come vedremo.

La classificazione delle lingue tunguse presenta i soliti problemi, che ci sono ormai familiari, degli altri gruppi altaici. Uno schema che, partendo dalle isoglosse tradizionalmente considerate, individui i principali raggruppamenti, può essere il seguente:


Manciu-Tunguso

[tav. 14].
Isoglosse e classificazione delle lingue manciu-tunguse turche secondo Poppe. I due gruppi, mancese e tunguso, sono chiaramente distinguibili; la loro articolazione interna lo è spesso molto meno (anche se molto lavoro è stato svolto di recente, di cui non tengo qui conto). Tratto ed adattato da Nicholas Poppe, Introduction to Altaic Linguistics, Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1965, pp. 25-26.

Nessuna delle lingue del ramo tunguso ha una tradizione scritta antica, ed oggi solo evenki ed even hanno uno standard scritto, in "cirillica". Ben diversa invece la situazione per le lingue meridionali, per le quali abbiamo le testimonianze dello jurchen e del mancese.

La prima lingua mancese ad esserci testimoniata è in effetti lo jurchen. Le tribù degli jurchen , abitavano originariamente la Manciuria settentrionale lungo le rive dell’Amur (cinese He1ilóngjian1g ), ed in epoca kitan erano divisi in due gruppi principali: uno che si trasferì nella Manciuria meridionale presso la costa, dove assunse costumi stanziali meritandosi da parte dei cinesi l’appellativo di "jurchen civilizzati", e che divenne vassallo dell'impero cinese dei Sòng; ed un altro, più cospicuo, che rimase nella Manciuria settentrionale, dalle rive del Sungari (cinese Songhuajiang ) fino a sudest di Kirin (cinese Jílín ), e che non abbandonò lo stile di vita delle foreste, diventando vassallo dei kitan. Una più consistente organizzazione delle tribù jurchen fu avviata all’inizio del XII secolo, ma fu sotto la guida di Aguda (1068-1123; 1115-1123 come imperatore Taìzu3) che si pervenne alla costituzione di un nuovo organismo imperiale a scapito dell'impero kitan. La nuova dinastia, che assunse il nome cinese di Ji1n, 'd'oro' , fu costituita nel 1115 , anche se fu solo nel 1124, con la definitiva assoggettazione dei kitan ad opera di Wuqimai (l’imperatore Tàizo1ng , 1123-1135), fratello minore di Aguda, che l’impero assunse la sua piena territorialità . In séguito – dopo la perdita nel 1147 delle loro terre d’origine nel Nord ad opera dei mongoli – la capitale dell’impero fu fissata per la prima volta a Ya1nji1ng, la futura Pechino. Già in epoca predinastica perfino gli jurchen "non civilizzati" praticavano, a fianco della caccia e del commercio di pellicce, una sviluppata agricoltura e l’elemento nomadico era certo minore che nella confede-razione kitan , sicché in séguito «the absorption into Chinese civilization was quicker and more thorough than in the case of the kitans» (Herbert Franke, The Forest Peoples of Manchuria: Kitans and Jurchens, in The Cambridge History of Early Inner Asia, edited by Denis Sinor, Cambridge, Cambridge University Press, 1990, p. 420). In effetti tra gli imperi "barbari" del nord d’epoca Sòng quello degli jurchen fu il più profondamente sinizzato , pur mantenendo caratteristiche ed istituzioni proprie.
La conquista mongola del 1234 non ebbe devastanti conseguenze, in quanto gli jurchen si assoggettarono sùbito senza tentare una disperata resistenza. Inoltre, se parte degli jurchen si era ormai completamente assimilata con i cinesi e fu incorporata senza grandi fratture nell’impero Yuán, un gran numero di jurchen fece invece ritorno nei territori originari della Manciuria settentrionale dove riprese le attività tradizionali. Qui si riorganizzarono senza significative ingerenze da parte dei mongoli, non interessati alla zona, per poi sviluppare sotto i Míng una economia piuttosto fiorente in una condizione di graduale semi-indipendenza, formando così quel humus da cui presto emergeranno i mancesi.

La lingua degli jurchen ci è passabilmente conosciuta, presentando difficoltà di lettura molto minori della kitan (si può infatti sospettare che non se ne sia mai definitivamente persa la competenza) unite ad una discreta latitudine di impiego ed abbondanza di attestazioni. Si tratta, evidentemente, come già accennato, di una lingua tungusa meridionale molto vicina a quello che sarà il mancese classico: «Juchen is close to Manchu and can be regarded as Old-Manchu or a dialect of that language of which Old-Manchu was another language» ( Nicholas Poppe, Introduction to Altaic Linguistics, Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1965, 28; in realtà le cose sono probabilmente più complesse, e questa è solo una prima approssimazione).
Quanto alla scrittura, gli jurchen continuarono ad usare le scritture kitan fino al 1191, quando furono ufficialmente soppresse per ordine imperiale. I tentativi di elaborare una propria scrittura incominciarono quasi subito, e cioè nel «1120 when Wanyan Xiyin [PY Wányán Xi1yi3n] established the Jurchin "large script" following the Kitan model», anche se «with emperor Xizong’s [PY Xízong, 1135-1141] "small characters" added, the new script was officially introduced in 1145» (Kara Györgyi, Kitan and Jurchin, in The World’s Writing Systems, edited by Peter T. Daniels and William Bright, New York - Oxford, Oxford University Press, 1996, Section 18/2, p. 235). La scrittura jurchen, che è un sistema grafico sino-morfo misto, composto di logogrammi (spesso ottenuti adattando o modificando con punti diacritici caratteri cinesi e kitan "grandi") e sillabogrammi (progressivamente sempre più numerosi), sopravviverà al crollo della dinastia Jin sotto i colpi dei mongoli, e, attraversata la dinastia mongola Yuán , sarà ancora in uso in età Míng (al cui bureau di traduttori dobbiamo documenti di jurchen per noi importantissimi). Alcuni testi sono ora anche disponibli online, con edizione, trascrizione, versione cinese e traduzione inglese sul The Jurchen Language and Script Website.

Il mancese, poi, è la lingua di un più recente agglomerato tribale, originato nella stessa area degli jurchen, che, seguendo lo stesso processo di coinvolgimento politico nella Cina e di sinizzazione culturale, arriverà a costituire l'ultima dinastia imperiale cinese. Il mancese, per noi, è fondamentalmente il "mancese classico", cioè la lingua scritta letteraria e standardizzata dell'impero mancese, in cui abbiamo una grande ricchezza di testi. Il mancese moderno, infatti, almeno nella forma (il cosiddetto "mancese parlato") usata nella Manciuria storica, è oggi quasi estinto: anche se il gruppo etnico mancese conta circa cinque milioni di persone, ed è una delle più grandi nazionalità minori della Cina (e persone e gruppi che si identifichino con la nazionalità mancese sono sparsi in tutta la Cina), i parlanti sono probabilmente ridotti ad una ventina di ultrasessantenni «originally scattered all over historical Manchuria, China, with small remnant groups of speakers today preserved in the Aihui region (in the middle Amur [Heilóngjiang] basin) and Fuyu [Fùyù] county (in the Nonni [Nènjiang] basin) of the province of Heilongjiang [He1ilóngji1ang], as well as, possibly, in some localities within the province of Liaoning [Liáoníng]» (secondo la scheda di Juha Janhunen per la sezione Northeast Asia dell' UNESCO Red Book on Endangered Languages). I dialetti dello He1ilóngjia1ng e del Nènjia1ng, spesso indicati con la comune designazione di "dialetti dei due fiumi", sono comunque le varietà moderne meglio note nella letteratura linguistica moderna. La distanza tra queste varietà e la scripta mancese (ossia lo standard "mancese scritto") è forte, e ciò rende tanto più deprecabile la nostra scarsa conoscenza, in generale, del mancese parlato. Pur nella generale sinizzazione, la conoscenza del mancese scritto e della sua scrittura tradizionale sembra, per contro, che sia ancora relativamente diffusa, specie tra le persone istruite.

L'apparizione storica dei mancesi si colloca in un panorama più tardo, in cui in Cina, dopo la progressiva riunificazione sotto la dinastia mongola Yuan (con la scomaparsa, tra l'altro della dinastia jurchen Ji1n), era tornata ad una dinastia cinese, ma di estrazione meridionale, quella dei Míng. Ed è nello scorcio del XVI secolo, sul declinare della dinastia Míng, che gli jurchen e le altre tribù tunguse meridionali rimaste nella Manciuria del Nord (cui si erano variamente fusi gruppi mongoli e di origini diverse) avevano preso ad organizzarsi attorno ad alcuni clan principali (in mancese mukûn ‹muqûn› ), pervenendo a formazioni più unitarie dalle quali nel giro di pochi decenni emergerà l’impero mancese. Il principale artefice di questa politica di espansione economico-territoriale e di consolidamento statuale della società tradizionale jurchen fu Nurhaci (‹nurxaci›, 1559-1626), che nel 1616 assumerà il titolo di khan degli jurchen, per poi proclamare nel 1618 il nuovo impero col nome di Ji1n (1618-1635), nell’evidente volontà di ricollegarsi al precedente impero Ji1n degli jurchen (1121-1234), dal quale di solito viene distinto come Hòu Ji1n 'Jin posteriore. Più che un impero nel senso dinastico cinese del termine lo Hòu Ji1n era in realtà ancora un khanato altaico a tutti gli effetti, che, inizialmente limitato allo originario He1ilóngjia1n ed alla provincia di Kirin (l’attuale Jílín), presto si espanderà a Sudovest a scapito della Cina dei Míng. La ristrutturazione del khanato in impero e la sua proclamazione è opera del successore, e suo ottavo figlio, di Nurhaci, Hong Taiji, che abolisce nel 1635 il nome di Jurchen per il proprio popolo introducendo al suo posto quello di Manju (che, secondo una recente proposta di Giovanni Stary, vale in mancese 'ti auguro la forza'), e nel 1636, infine, si proclama imperatore Chóngdé, battezzando la nuova dinastia con un nome che sarà presto reso in cinese come Dà Qi1ng 'la Grande Qing' o, più brevemente, Qi1ng cioè 'la Pura' 1936-1911 ), titolo con il quale è universalmente nota.
La completa disfatta dei Míng si rivelò, comunque, assai lunga, e fu solo Xuányè (1654-1662), l’imperatore Ka1ngxi1 (WG K’ang-hsi: 1662-1722) terzo sovrano Qi1ng, a riuscire finalmente ad unificare la Cina nel 1682, dopo aver espugnato Yúnnánfú, l’ultimo centro del Sud ribelle. Ed è con l’imperatore Ka1ngxi1 che si apre l’epoca aurea della storia mancese, che, raggiungerà l’apogeo con il lungo regno di Hónglì, imperatore Qiánlóng (WG Ch’ien-lung: 1736-1795). È alla lingua di questa epoca che ci si riferisce normalmente come "classica". È all'iniziativa di Ka1ngxi1, tra l'altro, che si deve il dizionario più ricco (47.035 caratteri) e famoso della lingua cinese, il Ka1ngxi1 zìdia3n (1716).

Il mancese è scritto, come il mongolo, in una particolare tipizzazione dell'uighurica, che venne "ufficialmente" standardizzata nel 1632 dal bithesi (il titolo in mancese vale genericamente 'scriba, segretario, dotto') Dahai, forma nella quale è chiamata "scrittura con punti e cerchi" (tongki fuka sindaha hergen), per via dei diacritici che la "adattano" calzantemente alla lingua mancese, e che la distinguono dalla precedente forma uighurica impiegata, meno adattata e "senza punti e cerchi". La "scrittura con punti e cerchi" è l’imprescindibile espressione grafica della scripta mancese classica, e quella cui di solito ci si riferisce come "scrittura mancese" tout court.

Il sibe (in cinese xi1bó) è ormai l'unica lingua moderna di tipo mancese, oggi parlata a più di cinquemila chilometri dall'originaria Manciuria nello Sinjiyang \ Xi1njia1ng (risp. in sibe \ cinese), principalmente nella valle del fiume Ili \ Yi1lí nel Cabcal \ Chábùchá’e3r, in quello che oggi è il Distretto Autonomo Sibe del Cabcal della Prefettura Autonoma Kazakha dell'Ili (Yi1lí Ha1sàkè Zìzhìzho1u Chábùchá’e3r Xi1bózú Zìzhìxièn). «Il fatto atipico che ora il sibe - per citare Adriano Miglioranza 1993, p. 115 - venga parlato in un territorio dell'Asia Centrale molto più ad ovest delle regioni d'origine, è dovuto ad una migrazione forzata (1764, 29° anno Qianlong / Abkai Wehiyehe ) dovuta ad esigenze di politica e di difesa del grande impero Qing [...] e non ha nulla a che vedere con una naturale espansione territoriale e linguistica della tribù sibe».

Oggi il sibe, almeno stando al citato rapporto di Janhunen per l'UNESCO Red Book on Endangered Languages, sarebbe parlato da almeno la metà del gruppo etnico sibe dello Xinjiang; la lingua viene ancora imparata dai bambini e la competenza media dei parlanti è tuttora buona, nonostante sia diffuso il bilinguismo con il kazakho e l’uiguro oltre che – ovviamente – con il cinese; ben attestato è anche l’uso scritto del cosiddetto "sibe letterario" anche a livello editoriale.
Peculiare del sibe è la grande distanza tra il sibe letterario sviluppato nell'ingombrante ombra della scripta mancese classica ed il sibe parlato che conserva, accanto ad evoluzioni proprie, anche tratti dialettali tungusi meridionali non-mancesi antichi: se «a livello lessicale o grammaticale il divario non è poi così insanabile, è invece a livello fonetico che il sibe si divide in due lingue piuttosto distinte – quella parlata e quella scritta – ognuna con i propri fonemi e le sue regole di pronuncia», secondo scrive Miglioranza 1993 cit., p. 2, che fornisce anche gli esempi della «"spaccatura" avutasi: 'uomo' si dice nan ma si scrive niyalma, 'foglia' quotidianamente è avx, ma in una lettera o in un compito scolastico è abdaha e così via».

L' "alfabeto sibe" emanato nel 1947 (Conferenza di Yi1níng del 1947, promossa dall’Associazione culturale dei Sibe e dei Solon dell’Ili) e perfezionato nel 1991 (Comitato per la lingua e l’ortografia delle nazionalità della Provincia autonoma uigura del Sinjiang) è comunque a pieno titolo la diretta continuazione della scrittura mancese classica, immutata se non nello stile grafico (in genere più lineare e meno contrastato), nella più abbondante presenza di nessi grafici per gruppi consonantici rari o inesistenti nella scripta classica (originati da sincopi vocaliche o da prestiti) e non sempre canonizzati (almeno fino al 1991), nell'introduzione di segni interpuntivi cinesi ed occidentali (virgola, virgola inversa ecc.), e soprattutto nella diversa sistematizzazione o modificazione di pochi grafemi.


2.4.6 Le componenti altaiche nell'impero cinese: un bilancio.

Componenti "altaiche" hanno avuto interrelazioni costanti con la storia cinese, sia come "barbari" da sconfiggere direttamente o da usare come "alleati" per raggiungere situazioni di stabilità o per contrapporli ad altri barbari, sia come primo motore di intiere dinastie cinesi: il motore ricorda un poco l'elemento germanico nella definizione della tarda latinità e poi del medioevo occidentale. Dal punto di vista cinese è certo da sottolineare come la componente "barbara" abbia giocato un ruolo notevole già nel trapasso dal medioevo al secondo impero (con i Tuòbá, cfr. infra). Il vero passaggio a dinastie "cinesi" a tutti gli effetti si è però avuto con i kitan e gli jurchen, di cui è prova tanto l'adozione di sinogrammi per le proprie lingue, quanto la compilazione, affatto "cinese", di storie dinastiche in cinese. Nella tavola seguente propongo uno schema orientativo per collocare tra oriente ed occidente, ma con riferimento soprattutto alla cronologia cinese, le principali di queste cristallizzazioni tribali, tra il khanato (confederale e nomadico) e l'impero (dinastico e stanziale).


cronologia della Cina e dell'Asia centrale

[tav. 15].
Schema cronologico delle dinastie cinesi e dei khanati dell'Asia centrale, in rapporto ai principali eventi dell'occidente. È disponibile anche una versione più grande della tavola.


Una rassegna stringata di tutti gli elementi "altaici" o "circumaltaici" che abbiamo incontrato nei paragrafi precedenti, e che può servire da controllo a quanto si è studiato, più qualche piccolo complemento, potrebbe essere la seguente:
Xio1ngnú (200 aC. - 150 dC.) ?? > Unni in Occidente (IV-V secolo);
Xia1nbe1i (WG Hsien-pei o Hsien-pi) non ben precisato complesso tribale proto-mongolo\turco (un tempo si diceva disinvoltamente "tartaro") che nel corso del I secolo d.C. era divenuto la potenza dominante in Asia centrale a scapito degli Hsiung-nu settentrionali (cfr. Yü Ying-Shih, The Hsiung-nu, in The Cambridge History of Early Inner Asia, edited by Denis Sinor, Cambridge, Cambridge University Press, 1990, pp. 148-149). Coinvolti anche nell'etnogenesi dei kitan , gli xianbei sono pure alla base dei tuòbá \ tabghac^ , i fondatori della dinastia Wèi settentrionale (386-535 d.C.), a loro volta probabilmente legati all’origine della linea genealogica dei Táng (618-907 d.C.);
Rua3nrua3n (386-552) vs. Wèi settentrionali in Cina (386-534);
Tu1jué (552-745), divisi in un khanato Occidentale (583-657) ed uno Orientale
Uighuri (745-840) > manicheismo - Táng;
Kitan (907-1124) + Xi1xià
Jurchen (1115 - 1234);
Mongoli (1234-1271): khanato > Yuán (1272-1369);
Manju: Hòu Ji1n (1616-1636) > Qi1ng (1636-1911).

Per rendere meglio l'idea della complessità plurilinguistica sedimentata ed istituzionalizzata nell'ultima, terminale, fase dell'impero cinese, voglio riportare una iscrizione trilingue, che era apposta su un cancello della residenza imperiale di Pechino, e che, tangenzialmente, può anche fungere da introduzione a scritture di cui abbiamo parlato nella nostra trattazione.


iscrizione trilingue su un cancello della Città Proibita

[tav. 16].
Iscrizione trilingue (cinese del piccolo sigillo, manju e mongolo) su un cancello della Città Proibita. Riprodotta da Pamela Kyle Crossley, The Manchus, Cambridge (Massachusetts) - Oxford (UK), Blackwell, 1997, p. 96.


La prima colonna da sinistra è in cinese, nello stile del piccolo sigillo (cfr. la tavola nel paragrafo sulla scrittura cinese):


testo cinese

[tav. 17].
Lettura del testo cinese scrizione trilingue su un cancello della Città Proibita.


La seconda colonna da sinistra è invece in mancese, come prevedibile per una dinastia di origine appunto mancese:


testo manju

[tav. 18].
Lettura del testo mancese scrizione trilingue su un cancello della Città Proibita.


Meno prevedibile è invece che la terza colonna da sinistra sia in mongolo, dato che è passato qualche secoletto dalla fine della dinastia mongola Yuan; ma di mongoli ve n'erano ancora moltissimi, specie nei ranghi dell'esercito imperiale, donde la ragione contingente alla presenza della traduzione mongola:


testo mongolo

[tav. 19].
Lettura del testo mongolo scrizione trilingue su un cancello della Città Proibita, con comparazione di forme in mongolo khalkha moderno.


2.4.7 Il koreano.


Al di là delle tre famiglie che abbiamo appena passato in rassegna, l'addizione più frequentemente proposta all'altaico è stata quella del koreano, con ragioni al contempo convincenti ed insufficienti: il problema è rilevante tanto metodologicamente, quanto oggettivamente, data l'importanza del koreano in sé.

Il koreano, infatti, con i suoi 72 milioni di parlanti (45 in Korea del Sud e 23 in quella del Nord) è l'undicesima lingua parlata al mondo; e, pur avendo risentito nella prima metà del Novecento (1910-1945) della durissima occupazione giapponese, e, dopo, della spartizione all'altezza del 38° parallelo nelle due zone d'influenza sovietica ed americana, che ha spaccato la popolazione in due stati, fino al disgelo di pochi anni fa, assolutamente incomunicanti, cionondimeno ha saputo esprimere un'importante cultura e sostenere una grande forza economica.

La reale articolazione del koreano non segue la divisione politica odierna (che è dovuta solo all'arbitraria brutalità della storia), anche se nel corso di più di mezzo secolo molte minori differenze non sono mancate di imporsi (nella scrittura, ad esempio, per quanto riguarda la tolleranza verso i sinogrammi, ecc.): il koreano moderno, letterario e standard, infatti, è basato sulla lingua dei ceti medi di Seoul (secondo una decisione presa nel 1933, in epoca giapponese, predivisione, confermata da una normativa della Korea del Dud del 1988), ossia sul koreano centrale, ma la Korea del Nord ha gradualmente deviato da tale norma, giungendo a proporre nel 1966 un modello basato sul koreano nordoccidentale (di Phyengyang), il cosiddetto "koreano colto" (munhwa-e).


Mappa linguistica del koreano

[tav. 20]
Carta linguistico-dialettale del koreano. Adattata da Ki-Moon Lee, Geschichte der koreanischen Sprache [Kayceng kwukesa-kaysel]. Deutsche Übersetzung herausgegeben von Bruno Lewin, Wiesbaden, Dr. Ludwig Reichert Verlag, 1977, tenendo conto anche del più recente Ho-Min Sohn, The Korean Language, Cambridge - New York - Melbourne, Cambridge University Press, 1999. Le legende in nero, presenti nell'originale di Ki-Mon Lee, sono in trascrizione McCune-Reischauer (più simile a quella ufficiale in Korea N), quelle in azzurro che vi ho affiancato sono invece nel sistema Yale (oggi più diffuso e maggiormente simile a quello ufficiale in Korea S), e che manterrò in tutto il paragrafo.

A rendere difficile il problema dell'affiliazione del koreano sono tanto la sua storia, policentrica e complessa, tanto la scarsità e problematicità delle fonti antiche.

Tralasciando i periodi più antichi (neolitici e del bronzo), su cui le informazioni sono di natura prevalentemente leggendaria, una prima fase "pre-koreana" è quella dell'epoca Pu.ye - Han, in cui assistiamo ad un aggregarsi in Manciuria e Korea di tribù (che, indiziariamente, supponiamo prevalentemente tunguse ed "altaiche") in stati tribali più definiti, con al Nord 4 leghe (Pu.ye sul Sungari in piena Manciuria; Kokwulye più ad Ovest sul Thwungcia, un affluente dello Yalu; Okce nella pianura di Hamhung nel Nordest; e Yeymayk sulla costa a Sud del precedente) ed al Sud i Samhan, ossia le tre leghe a Sud del fiume Han (Mahan ad Ovest, Cinhan ad Est e Pyenhan a Sud). Dal punto di vista linguistico non abbiamo alcuna attestazione diretta della lingua di nessuno dei 4+3 stati tribali, se non menzioni nelle fonti cinesi.


La Korea nel periodo Pu.ye - Han

[tav. 21]
Rappresentazione schematica della Korea nel periodo Pu.ye - Han (c. IV secolo a.C. - I d.C): in gradazioni di giallo le 4 leghe del Nord, in gradazioni di blu le 4 leghe Samhan del Sud.

Con l'inizio del primo millennio d.C. si ha un radicale cambiamento nell'area che ci interessa, con la formazione di nuovi regni che sostituiscono le vecchie leghe tribali. Per questo periodo, che comprende l'epoca dei tre regni e quella di Sinla unitaria, si parla ormai di fase "antico-koreana". Nel Nord Kokwulye si organizza in regno (37 a.C- - 668 d.C.) conquistando gradatamente le altre tre nazioni fino a controllare parte del territorio di Mahan. Nel Sud si formano due altri regni, uno occidentale, Paykcey (18 a.C. - 660 d.C.), fondato da immigranti Kokwulye-Mahan, e uno orientale, Sinla (57 a.C. - 935 d.C.), centrato nei vecchi territori Cinhan. Oltre a questi, sul vecchio territorio Pyenhan, si formarono sei piccoli stati detti Ka.ya (42 d.C. - 562 d.C.). Nel 668 d.C. Sinla, dopo avere gradualmente conquistato gli altri regni, unifica per la prima volta tutta la Korea (con l'eccezione dei territori Kokwulye più settentrionali).
È nel periodo dei tre regni (cui in Cina corrisponde il medioevo cinese del Sa1nguó e del Nánbe3icháo: cfr. la tavola dinastica fornita nel paragrafo precedente) che la cultura cinese, anche sotto la forma di profughi e rifugiati, penetra profondamente in Korea, e di qui in Giappone, con esiti fondamentali tanto per la civilizzazione, come per la religione buddhistica, per la musica, e, cosa che massimamente ci interessa, per la scrittura.


La Korea nel periodo dei tre regni

[tav. 22]
La Korea nel periodo dei Tre Regni (c. 450 d.C) in piena fase di antico koreano. Riprodotto da Ho-Min Sohn, The Korean Language, Cambridge - New York - Melbourne, Cambridge University Press, 1999, p. 38.


A questa fase si riconnette direttamente la fase "medio koreana" dell' epoca Koyle (918-1392) e della prima epoca Cosen (1392-1592), in cui alla dinastia Sinla succede, appunto, la dinastia Koyle, senza grossi mutamenti etnico-politici, e poi la Cosen. Dal punto di vista della storia della lingua la fase medio koreana è divisa nettamente in due parti dall'introduzione dell'hankul nel 1444, in cui la prima parte è piuttosto un'appendice di quella antico koreana, mentre la seconda inaugura la nostra conoscenza piena ed effettiva della lingua.

Questa digressione storica era indispensabile per comprendere il nostro imbarazzo di fronte al problema del koreano antico, delle sue relazioni con il moderno e della loro affiliazione genealogica.
Le pochissime e frammentarie testimonianze che abbiamo sul koreano antico, ora lo si comprenderà bene, sono infatti disperanti. (1) Le prime fonti sono cinesi, contenute soprattutto nelle storie dinastiche Wei, Han posteriori e Zhou: queste ci dicono solo che la lingua dei territori del Sud (che continuano i Samhan) era diversa da quella del Nord dei Kwakwulye, e che questa era a sua volta diversa da quella di tribù che sappiamo coinvolte nell'etnogenesi degli Jurchen e dei mancesi. (2) Una seconda fonte è la toponomastica, che nel Sud è spesso interpretabile in base al Koreano moderno, mentre nel Nord al Manciu-tunguso.
Le prime testimonianze dirette, di interpretazione fonetica spesso speculativa in quanto in logogrammi cinesi, sono tutte di epoca medio koreana arcaica. Riferibili alla lingua di Sinla sono, in particolare, pochissimi testi, tutti di epoca Koyle, come il Kyun.ye Cen (1075) ed il Kyeylim Yusa (1103-4).
In base a queste poche testimonianze si ritiene di solito che il koreano moderno, e come lo conosciamo a partire dall'introduzione del hankul nel 1444, discenda dalla lingua di Sinla Unito, e che questa si basasse fondamentalmente sui dialetti Samhan con poco influsso di quelli settentrionali Kokwulye, che a loro volta erano invece piuttosto legati alle lingue tunguse, pur non coincidendo con nessuna di quelle che conosciamo. Ma anche basandoci su questa assunzione, già la ricostruzione di un protokoreano è molto ardua (metà del lessico, comunque, è costituito da prestiti cinesi, dell'altra metà ben poco è presente e "leggibile" nelle fonti mediokoreane) e lo è tanto di più la sua comparazione con altre lingue esterne: in genere il materiale disponibile per la comparazione è un esiguo ricostruito "medio koreano di Sinla", affiancato da forme dei dialetti moderni.

In questa situazione non stupisce che i pur valorosi tentativi di comparazione del koreano con le lingue altaiche abbiano avuto esiti non del tutto soddisfacienti. Una prova di parentela genealogica lineare ed univoca come richiesta dal metodo storico comparativo è fuori dalla portata della documentazione disponibile, ma, con le dovute precauzioni, la cornice altaica resta l'unica plausibile per l'esplicazione della genesi del koreano, procedendo per sottrazione di strati più specificamente tungusi, a più genericamente altaici, a caratteristicamente koreani. Ad una concezione dell'altaico come sorta di "diasistema in progress" portano anche le riflessioni sul giapponese e sull'ainu che riporteremo alla fine del paragrafo seguente.

Al di là dei problemi storici che pone, il koreano è anche ricco di motivi di interesse linguistici sincronici. Oltre ad avere sviluppato un sistema di scrittura, l'hankul, perfettissimo tra tutti quelli del mondo, è notevole per l'elevato grado di aggluttinazione (suffissi, clitici, particelle), superiore a quello già alto normale in area altaica e che ricorda quasi condizioni amerinde.


2.4.8 Il giapponese.


Il giapponese è sostanzialmente una lingua isolata, che consiste in un sistema di dialetti abbastanza compatti, parlati tutti nelle isole dell'arcipelago giapponese, al quale va aggiunta una varietà linguistica più differenziata (propriamente una lingua distinta, anche se molto prossima, al giapponese) parlata nelle isole Ryukyu.


Mappa linguistica del giapponese

[tav. 23]
Mappa linguistica del giapponese (nihon-go) e del ryukyu (ryûkyû-go). La maggiore divisione dialettale del giapponese (in arancione scuro nella carta) taglia a metà lo Honshû, individuando un gruppo orientale (con anche l'Hokkaidô, che originariamente era di lingua ainu, per cui la sua giapponesizzazione è relativamente recente) ed uno occidentale, al cui interno va distinto (linea rosa nella carta) il dialetto di Kyûshû.

Nonostante l' "isolamento" di cui abbiamo detto, il giapponese è ed è stato da molti secoli una delle più grandi lingue di civilizzazione dell'Oriente, anche se ha subito, come tutte le altre lingue e culture dell'area, il pesante influsso del cinese, da cui ha, tra l'altro, preso la scrittura, solo in seguito "adattandola" maggiormente alla propria, diversissima, struttura linguistica. Dal punto di vista linguistico, questo comporta almeno il vantaggio che abbiamo attestazioni considerevolmente antiche della lingua, sia pure, naturalmente, non così antiche come quelle del cinese. La periodizzazione della lingua di solito adottata è a grandi linee la seguente:


Periodizzazione della linga giapponese

[tav. 24]
Periodizzazione a grandi linee della storia della lingua giapponese. L' "Early Middle J." è da altri considerato "Late Old J.". Riprodotto da Samuel E. Martin, The Japanese Language Through Time, New Haven - London, Yale University Press, 1987, p. 77.

Le attestazioni di giapponese antico, di epoca Nara, non sono moltissime e soprattutto sono di interpretazione linguistica abbastanza difficile. Un primo gruppo di testi, rappresentato principalmente dal Kojiki ('cronaca di fatti antichi'; 712 d.C.), è semplicemente scritto in logogrammi cinesi, spesso anche con sintassi cinese; un secondo gruppo, rappresentato soprattutto dalla ultima "edizione" dell'antologia poetica Man'yôshû ('Raccolta della miriade di foglie'; IV, completata nel 759), usa invece i logogrammi cinesi per rendere foneticamente le parole del giapponese, ossia come man'yoo-gana, preludendo allo sviluppo dei kana, ossia di grafi dal valore fonetico sillabico (o più accuratamente moraico, come vedremo alla fine di questo paragrafo) originati dalla semplificazione di logogrammi cinesi aventi analogo valore fonetico. Il sistema dei kana, propriamente, nasce solo verso la fine del periodo Heian, in fase linguistica di giapponese medio incipiente (per usare la terminologia di Martin data nella tavola precedente) o tardo giapponese antico, ed è soprattutto legato alla letteratura meno "ufficiale", in particolare a quella delle donne (cui si tendeva a negare l'istruzione in cinese). Tra le prime e più importanti testimonianze dei kana è il Genji monogatari ('Il racconto di Genji' 1002 d.C.), scritto quasi completamente in hiragana dalla dama Murasaki, che è anche uno dei maggiori capolavori della letteratura giapponese.
Un sintetico prospetto di cosa abbiamo per le epoche Nara e Heian è il seguente:


Le testimonianze linguistiche del giapponese di epoca Nara e Heian

[tav. 25]
Prospetto delle testimonianze di giapponese antico, epoca Nara e Heian. Riprodotto da Samuel E. Martin, The Japanese Language Through Time, New Haven - London, Yale University Press, 1987, p. 78, evidenziandone le testimonianze più importanti.

Se il problema genealogico del koreano già non era semplice, la affiliazione genealogica del giapponese è ancora più difficile, e resta uno dei capitoli più spinosi della linguistica storica orientale. L'affrontarlo parlando delle lingue lingue altaiche comporta solo, da parte nostra, la convinzione che l'orizzonte del "problema altaico" costituisce perlomeno uno dei migliori sfondi in cui collocarlo.
Giusto per sgombrare il campo, premetto che sull'origine del giapponese si è detto praticamemente di tutto, tanto da parte occidentale (indoeuropeo, dravidico, basco! ...) come giapponese (era ad es. ben nota la proposta uralo-altaica in base a "prove" esclusivamente tipologiche avanzata da Fujioka Katsuji nel 1908). Noi qua ci occuperemo delle uniche proposte avanzate seguendo le metodologie corrette della linguistica storica scientifica: di molte delle altre, specie da parte giapponese, rende conto (come studieranno i giapponesisti) abbastanza diffusamente Shibatani nel libro adottato. Le ipotesi concorrenti che siano sostenute da fatti concreti sono: (1) connessione altaica, perlopiù ipotizzando più stretti rapporti col koreano; (2) connessione austronesiana; (3) connessioni con l'ainu; (4) mix delle ipotesi 2 e 1. Tutte queste teorie si scontrano tanto con le limitazioni (come anche più in koreano, d'altra parte) della ricostruzione dell'antico giapponese, che rendono spesso necessario il ricorso alle forme moderne per la comparazione, quanto con la massicia presenza di lessemi sinogiapponesi, (prestiti specie culturali dal cinese) che riducono ulteriormente il materiale utile per la comparazione, e con la difficoltà di inserire in una efficace cronologia tutte le forme collegabili all'ainu.
Pur con questi limiti, i risultati ottenuti soprattutto da Roy Andrew Miller, Murayama Shichirô e Samuel E. Martin dimostrano abbastanza solidamente l'esistenza di uno strato "altaico" in giapponese, nel senso di corrispondenze stabili che coinvolgono in primo luogo il koreano (Martin, in un esemplare articolo del 1966, Lexical evidence relating Japanese to Korean, in "Language" XLII (1956) 185-251, forniva una lista di 320 cognati, con ricostruzioni), in secondo luogo le lingue tunguse, mentre le altre componenti altaiche risultano più distanti. Anche se queste corrispondenze si lasciano ricondurre in modo abbastanza regolare alla ricostruzione del protoaltaico di Poppe 1960, il problema resta comunque (a) la natura sfuggente di ogni nozione di "altaicità", specie se coinvolge anche il koreano, e (b) la sufficienza quantitativa delle corrispondenze individuate, per quanto consistenti, a dimostrare o meno una affiliazione genealogica primaria, diretta e sicura.
Le proposte "austronesiane" non si sono quasi mai poste come vere e proprie alternative all'ipotesi "altaica". Le corrispondenze (prevalentemente cercate nel gruppo malese-polinesiano) individuate sono relativamente abbondanti e regolari, ma meno centrali rispetto alle "altaiche" (ed, in realtà, non sempre del tutto soddisfacenti dal punto di vista del metodo ricostruttivo), sicché sono di solito state considerate solo come uno strato successivo ("superstrato") o precedente ("substrato") quello altaico; non va infatti dimenticata la presenza di lingue austronesiane residue anche all'interno di Taiwan. Le soluzioni moderate formulate in termini di superstrato o substrato sono prevalenti nei fautori della componente austronesiana, specie giapponesi. Non è mancato, tuttavia, chi, come già l'orientalista russo Polivanov all'inizio del Novecento e poi Murayama negli anni Settanta, ha posto il problema in termini espliciti di creolizzazione: il giapponese, ossia, (non diversamente, aggiungeremmo noi, dall'inglese, in cui le componenti germanico-anglosassoni e latino-francesi hanno prodotto una situazione analoga) sarebbe un creolo a base altaica. Nella nostra prospezione precedente, quindi, le "soluzioni" (2) e (4) sono spesso coincidenti.
Alcuni propositori della tesi meridionale (nella forma 2 o 4) hanno provato anche a spingere oltre il loro sforzo comparativo, fino a comprendere il dravidico (un poco alla stessa maniera come alcuni proponenti della tesi altaica si sono spinti a comparare anche l'uralico), ma i loro sforzi, tanto dal punto di vista del metodo quanto da quello dei contenuti, sono inaccettabili.
Il contributo di Patrie sull' ainu (James Patrie, The Genetic Relationship of the Ainu Language, The University Press of Hawaii, 1982), che ha descritto 221 cognati ainu - altaici, di cui 140 coinvolgono anche il giapponese ha un poco sconvolto il quadro, provocando reazioni di vario genere. Le comparazioni di Patrie, bisogna premettere, sono metodologicamente "buone" (ossia condotte con il rigore minimo richiesto dal metodo storico comparativo), ma ancora una volta, più che metterne in discussione l'esistenza, dovremmo interrogarci sulle conseguenze che se ne devono trarre. Ricostruire un "macro-altaico" allargato, come lo stesso Patrie ha proposto, non pare forse la migliore soluzione, specie se considerata in termini strettamente genealogici. Dovremmo forse abituarci all'idea della formazione di altaicità progressiva, per convergenza in uno Sprachbund o diasistema di componenti distinte. Un primo strato "pre-altaico" sarebbe quello lasciato dai residui "paleoasiatici" come le lingue luoravetliche, il ghiliaco e l'ainu medesimo che a questa formazione per convergenza dell'altaico hanno partecipato solo marginalmente, restandone fondamentalmente distinti. Un secondo strato "altaico arcaico" potrebbe essere quello che risostruiamo dalla componente comune del giapponese e del koreano, e che, nell' "altaico principale" troviamo ancora riflesso abbastanza bene dalle lingue tunguse. Queste componenti di irradiazione settentrionale in giappone si sarebbero sovrapposte alle componenti austronesiane di irradiazione meridionale producendo quel creolo particolarmente complesso che è il giapponese moderno.

Venendo ad alcune caratteristiche linguistiche del giapponese odierno, ci limiteremo a poche osservazioni sulla sua fonologia.
Il consonantismo giapponese presenta, per considerare le sole unità fonologiche su cui il consenso è generale, un sistema fonologico di complessità di poco superiore a quello del finnico (cfr. la tavola che avevamo proposto; in generale per una migliore comprensione, consiglio di inserire queste osservazioni nel secondo percorso di studio sulla fonologia suggerito nel paragrafo su Trubeckoj), rispetto al quale c'è almeno la correlazione di sonorità, in base al quale si costruisce un fascio (3×2) di occlusive e fricative (solo 1×2):

Il sistema fonologico consonantico del giapponese

[tav. 26]
I fonemi del consonatismo giapponese secondo Shibatani Masayoshi, The languages of Japan, Cambridge - New York - Port Chester - Melbourne - Sydney, Cambridge University Press, 1990. In ascissa i punti di articolazione (da anteriori a posteriori), in ordinata i gradi d'apertura del canale fonatorio (da occlusivi ad approssimanti) e le loro correlazioni.

Un'altra differenza rispetto al finnico, è che laddove questo aveva un'opposizione distintiva di lunghezza distribuita su tutto il sistema, il giapponese presenta due fonemi molto speciali: le more consonantiche /Q/ e /N/. Le more, propriamente, sono delle unità subsillabiche, dotate di durata definita ed intonazione definita, che l'ortografia giapponese scrive come kana autonomi, e che di fatto giocano un ruolo fondamentale nell'assegnazione dell'accento e dell'intonazione. Le uniche more solo "consonantiche" sono la mora /Q/ (in hiragana scritta come un "tsu" piccolo) e /N/ (in hiragana "n"). La sequenza /Q+C/ produce foneticamente consonanti geminate, allo stesso modo che in finnico accade con l'occlusiva glottale /'+C/, tanto che non è mancato chi proponesse di "risolvere" la cosa allo stesso modo (cfr. il terzo percorso di studio sulla fonologia suggerito nel paragrafo su Trubeckoj). Ancora più complicati sono i risultati fonetici della mora nasale, che vanno da esiti indistinguibili dalla /n/ normale a nasalizzazioni delle vocali circostanti (su tutto informa bene Shibatani Masayoshi, The languages of Japan, Cambridge - New York - Port Chester - Melbourne - Sydney, Cambridge University Press, 1990, pp. 158-160, adottato per gli studenti di giapponese).

Se, more a parte, il sistema nelle sue linee principali è semplice, il panorama diventa molto più complesso se si inseriscono gli allofoni, alcuni dei quali sono in realtà anche fonemi a basso rendimento (e come tali distinti nei kana e nella trascrizione romaji standard):


Allofoni e fonemi nel consonantismo giapponese

[tav. 27]
Allofoni e fonemi nel consonatismo giapponese secondo Shibatani Masayoshi, The languages of Japan, Cambridge - New York - Port Chester - Melbourne - Sydney, Cambridge University Press, 1990. Sono rappresentate solo le allofonie principali: in generale tutti i fonemi davanti a vocale palatale alta, /i/, sono realizzati più o meno palatalizzati, ed il fenomeno è stato notato solo quando non si risolve nella mera inserzione di una appendice palatale [j] dopo l'articolazione principale. Si sono usati i simboli IPA anche per gli standard romaji "ts", "ch", "j" (affricate dentale ed alveopalatale, sorda e sonora) e "sh" (fricativa alveopalatale).

"sh" (fricativa alveopalatale sorda), "ts" (affricata dentale sorda), "ch" (affricata alveoplatale sorda) e "j" (affricata alveoplalatale sonora), per usare i grafi usuali nella romanizzazione (e comodi anche per la visualizzazione html), sono, come dicevo, anche dei fonemi a basso rendimento, ma l'analisi preferita da Shibatani è quella di considerarli solo allofoni (cfr. il terzo percorso di studio sulla fonologia suggerito nel paragrafo su Trubeckoj): nella tavola precedente mi sono attenuto alla sua analisi (non fosse che per non disorientarvi sùbito con analisi contrastanti), anche se, in qualche caso, personalmente preferirei una interpretazione più generosa (ma provate a confrontare il problema del giapponese con quello dell'opposizione tra /s/:/z/ in italiano ... che somiglianze e che differenze vi trovate?). Il punto può, in effetti, essere usato per meglio chiarire la questione, generale e frequente nell'analisi fonologica, del discrimine tra fonema ed allofono, e vale forse la pena di approfondirlo. In generale, vi sono regole di allofonia abbastanza coerenti, per cui si trovano in distribuzione complementare (1) "sh" (davanti ad i) e "s" (davanti ad altra vocale) = /s/; (2) "ch" (davanti ad i), "ts" (davanti ad u) e "t" (davanti ad altra vocale) = /t/; (3) "j" (davanti ad i), "dz" (davanti ad u), "z" o "d" (davanti ad altra vocale) = /z/ e /t/. Tutte queste combinazioni sono regolarmente distinte da kana separati, sicché un uso intuitivo della lingua porta facilmente ad attribuire a questi foni un valore maggiore di quello che una fonologia rigorosa attribuirebbe, e storicamente e dialettalmente si hanno riscontri di questa diversità. Ma pure restando in termini fonologici schietti (cfr. il secondo percorso di studio sulla fonologia suggerito nel paragrafo su Trubeckoj), esistono sequenze vietate, anche se sono o rare o prevalentemente in settori speciali del lessico (come onomatopee, voci sinogiapponesi, prestiti, ecc.), come "sh" shaberu 'chiacchiera', sho 'calligrafia, libro'; "ch" cha 'thè', choko 'tazza da sakke'; jagaima 'patata', josei 'donna', jugaku 'confucianesimo'; ecc. ecc. In altre parole, il sistema fonologico "ristretto" alla Shibatani rischia di non essere il sistema della totalità del giapponese reale, ma solo di un suo spicchio, dialettalmente ed etimologicamente molto selettivo.


Il vocalismo del giapponese

[tav. 28]
Il sistema fonologico delle vocali giapponesi.

Nelle sue linee fondamentali il vocalismo del giapponese (per una miglior comprensione cfr. il primo percorso di studio sulla fonologia suggerito nel paragrafo su Trubeckoj) presenta un sistema fonologico a tre gradi di apertura, come quelli che avevamo visto del finnico e dell'estone, ma da punto di vista degli ordini è "triangolare" (anteriore - centrale - posteriore) anziché "rettangolare", e la procheilia (arrotondamento labiale) non è distintiva, in quanto ricorre in un fonema solo (che si potrebbe anche notare semplicemente /u/).
Allofonicamente, il fenomeno più caratteristico è l'assordimento (riduzione della vibrazione delle corde vocalica, ossia contenimento delle caratteristiche acusticamente e foneticamente vocaliche) delle alte /i/ ed /u/ atone in contesto sordo. Tra le lingue d'Europa le uniche a presentare "vocali sorde" sono le lingue lapponi.
La mora /R/, infine, è in molte analisi fonologiche del giapponese chiamata a rendere conto delle vocali lunghe (che contano due more), in modo analogo a quello delle more consonantiche.